Rileggere “La banalità del male” dopo ” Hannah Arendt ” di Margarethe von Trotta

Rileggere “La banalità del male” dopo ” Hannah Arendt ” di Margarethe von Trotta

Abstract:

Può succedere ad uno studioso di filosofia politica, di etica e di filosofia europea del Novecento, ma anche attento alle tragedie storiche che dal recente passato si proiettano, in forma assai diversa ma senza perdere nulla della dirompente pericolosità e tragicità che le connota nel nostro secolo, di accorgersi che un libro, peraltro famoso, attenda e in certo senso richieda di essere riletto oggi. Lo richieda, voglio dire, allo scopo di imporre all’attenzione di una riflessione odierna quello che una prima lettura di un classico e famoso libro come La banalità del male di Hannah Arendt rischia di occultare, e paradossalmente proprio a causa della enormità delle risonanze che il tema (lo sterminio nazista degli ebrei e la punizione esemplare, sulla base di un regolare processo, di uno dei criminali responsabili) trascina con sé.

Accade cioè di accorgersi che questo libro attenda e richieda di essere riletto, e capito e commentato oggi, passando attraverso quella che si avverte come la inevitabile necessità di mettere in un certo senso e in certa misura la sordina al rumore assordante e cupo dei forni crematori terribilmente rappresentato nel film di Laszlo Nemes Il figlio di Saul, allo scopo cogliere col massimo grado possibile di freddezza razionale, quello che ne costituisce il contenuto concettuale: ossia quel che definisce la trama dei pensiero, delle idee e delle costruzioni teoriche di cui noi oggi, ancora oggi, abbiamo bisogno per opporci all’ orrore distruttivo che, nella violenta aggressione rivoltaci dallo jahdismo islamistico, minaccia il nostro universo del vivere quotidiano, del pensare e dell’agire politico, morale, giuridico e anche geopolitico. A tale universo appartengono i tanti musulmani che vi sono entrati e tuttora in massa vi entrano e vi cercano pacificamente i mezzi di civile sopravvivenza e lavoro: anch’essi sono oggetto della stessa minacciosa cruenta aggressione. Non intendo tuttavia riflettere sul libro di Hannah Arendt sulla base di un improbabile parallelismo di situazioni che non può spingersi oltre il limite minimo costituito dalla sensazione o anche dalla razionale convinzione che la maniera in cui nella sua parte finale Hannah Arendt argomenta sulla natura delle colpe di Adolf Eichmann, sul ruolo della struttura organizzativa che ha presieduto alla “soluzione finale” e sulla responsabilità del popolo tedesco, sulle ragioni e sui procedimenti giuridici grazie a cui si è giunti da parte del tribunale alla condanna a morte di Eichmann e sulla fisionomia storico-morale degli eventi storici che hanno ospitato lo sterminio di milioni di ebrei, ci riguardi anche al di là della portata effettiva e del senso mostruoso di quel che in Germania è accaduto prima della catastrofe finale di quel paese e dell’alleanza nazifascista.

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