Antropologia del cibo italiano


Abstract:

Chi è nato e cresciuto tra gli anni cinquanta e sessanta è appartenuto a due mondi, abbracciando con un’anima sola due età, due civiltà. Nel mondo agricolo ha assistito all’erosione, la fine dell’universo contadino tradizionale e all’avvento della modernità. Eventi unici, epocali, senza ritorno. In poco più di un decennio si è polverizzata e frantumata la storia che risaliva alla nascita dell’agricoltura e della scrittura, la nostra storia. Si è sfarinato il millenario nesso tra necessità e sacralità del cibo, passando da un regime alimentare sobrio, precario ma “equilibrato”, a un’alimentazione varia, articolata, a volte abbondante, col tempo eccessiva. La fuga dalla fame verso una terra di nessuno, verso altre malattie alimentari.

L’agricoltura preindustriale era anche fonte di privazioni, ristrettezze economiche, staticità culturali, gerarchie familiari. Non va mitizzata, ma non va rinnegata. Occorre (ri)conoscerne il dolore nell’umanità errante per comprendere la libertà e la felicità che l’arrivo della modernità alimentare, seppur confusa e ambigua, ha portato.

Occorre conoscere le malattie da fame, i disagi fisici ed emozionali, le patologie e la mortalità legata a regimi alimentari insufficienti e inadeguati, per comprendere il vissuto dalle erbe detestate alle carni sognate; dalle malattie da denutrizione, a quella da iperalimentazione; dal grasso come espressione di ricchezza e salute, a obesità come patologia; dall’eccezionalità del mangiare festivo, alla festa alimentare ininterrotta; dal non sprecare una mollica di pane, all’enormità di cibi; dal poco cibo conservato nel vetro, ai primi frigoriferi, ai freezer stracolmi di cibo.

Il progressivo abbandono della “civiltà del pane”, dell’asino e della zappa, dipendente dalla produzione annuale sanciva la fine di una civiltà nata sulle sponde del Mediterraneo, dove olio, vino, grano erano coltivati in epoca protostorica, cucina dei ceti benestanti, sogno dei ceti popolari. Dal niente si passava al troppo, nella circolarità continua dal locale al globale e poi, nuovamente al locale; dal poco al troppo, dalla tradizione alla modernità, la ruota gira oggi verso il “recupero” della tradizione.

Poter mangiare come i ricchi, accedere a pasta e carne, faceva di ogni giorno domenica. Ma la festa che dura sempre non è più festa, non rende felici. Gli italiani diventavano più belli e più alti, ma anche più grassi, più ingordi, meno solidali. “L’antica dieta mediterranea” veniva costruita a Harvard per gli interessi delle aziende cerealicole, presentandola come ritorno ad un passato che non è mai esistito e che, come tale, non può tornare. Oggi l’1% della popolazione possiede il 50% delle ricchezze del pianeta e chi la possiede decide la redistribuzione delle risorse, senza rispetto delle genti e delle loro storie, tanto meno del loro futuro. Se per l’effetto serra, determinato da questa piccola percentuale, nel 2050 dovremmo mangiare scarabei fritti, hamburger di carne sintetica ottenuta in laboratorio, ciò sarà per loro ulteriore occasione di guadagno. Si stanno attrezzando con formiche, scorpioni che dovrebbero risolvere il problema della fame, delle carestie e dell’insufficienza di cibo per tutti gli abitanti del mondo, ma la “fame vivente”, fatta di migranti, profughi, persone che attraversano quello stesso Mediterraneo, come i nostri nonni l’Atlantico, chiede pane. Chiede piccole utopie realizzabili, fatte di gesti quotidiani rivoluzionari e possibili, di scelte “tendenti”. Dovremmo prenderci una sosta per guardare il mondo con un altro occhio, ripensare il senso delle parole, dell’abitare, del mangiare, del bere, della socialità, della convivialità, per creare un nuovo vocabolario, alla luce delle profonde trasformazioni. Un dialogo tra un parlare che nutre e un mangiare che possa restituire responsabilità, senso e consapevolezza.

“Mangiare” è storia di gesti, riti legati al consumo dei cibi, con carattere sociale, culturale, simbolico, in cui la natura si incontra con la cultura. L’Eating community attorno al pasto rituale si autodefinisce, integrando e posizionando il singolo, dai primi giorni, mesi di vita. Il volto materno porge il seno o dà la “pappa”, forma la personalità, struttura la memoria, le sensazioni. È lingua madre. Il momento collettivo e comunitario è oggi marginalizzato. I commensali scelgono cosa mangiare, individualmente, sulla base di consigli della “scienza medica”, proliferanti di avvertimenti, sulla “giusta alimentazione”, suggerimenti confusivi che alimentano insicurezze. Attraverso la pubblicità, i media, le industrie legate alla produzione e distribuzione del cibo inviano messaggi contraddittori che cancellano il carattere sociale e culturale in una babele in cui è difficile orientarsi. Siamo diventati una “repubblica confessionale fondata dai cuochi” in cui Cracco è il modello di una nuova sacralità, Bottura il notaio legiferante e legittimante. Un’autocrazia di cuochi che urla e aggredisce, impedendo il linguaggio. Assistiamo alla spettacolarizzazione di una cucina performante, come prestazione, come arena dei television chef. Ideologia di cui diventano custodi i “giudici” e gli “esperti”, i “guru”, personaggi “noti” che giocano ai fornelli per riprodurre un effetto di quotidianità e di vicinanza con il pubblico.

Il cibo come fatto sociale, snodo di relazioni e legami, oltre che come base per la sopravvivenza, muore. Nella cucina trasformata in arena si affetta, si trita, si cuoce, si guarnisce, si impiatta con il cronometro alla mano. Ma non si mangia: mangiano i giudici, appena, per esprimere il giudizio. Il cibo diventa così terreno della competizione e del conflitto.

Nessun legame alla Terra, al sacrificio, alla fatica, al lavoro, alla stagionalità, alla tracciabilità, ai riti, alle feste. Non si genera consapevolezza, cultura, da sempre determinata dalla koinè alimentare, traccia ed esito di arrivi, passaggi, incontri, fluttuazioni, dialoghi dal mondo mediterraneo con l’Oriente o l’Europa continentale. Della “triade mediterranea” (grano, olio, vino) che si mescolava con la cultura della carne e del latte, del lardo e del burro, della foresta, della religione cristiana con il suo calendario liturgico e festivo, alternate a un periodo “di grasso” (quando mangiare carne era raccomandato come segno della festa) e periodi di “magro” (cibi vegetali, occasionalmente latticini, uova, pesce), non resta più nulla.

Nulla della “dieta”: la díaita come “genere di vita”, “vitto e alloggio”, “dimora”, “residenza”. Nella massificazione, non è più regola alimentare e di vita, ma limitazione, sottrazione del cibo, rinuncia, che nella nostra società avvengono per considerazioni igieniche, estetiche, utilitaristiche. Nel ritorno ad un passato inventato, si desidera trasformare l’opulento e obeso Occidente in “società ortoressica”: ossessione per la sana alimentazione, paura di mangiare cibi di cui non si conosce la provenienza, mito di una natura incontaminata, ricerca del cibo ideale, cura esagerata del corpo, invenzione di diete “alternative” varie, strane, fantasiose, tutte tese all’alimentazione perfetta e al raggiungimento di una purezza perduta.

La condivisione del cibo non è prevista. Eppure l’uso di cucinare e mangiare all’aperto, in piazza, per strada, in campagna, ha unificato il Mediterraneo. La piazza, il mercato, l’incontro, lo scambio sopravvivono come baluardo difeso spesso dai nuovi migranti, come fenomeno di resilienza, di resistenza alle catene della grande distribuzione; catene diverse, ma sempre catene. Mercati-obitori dei generi alimentari nei quali, protetti dalla contaminazione e dall’impuro tocco delle mani, attendono di essere afferrati e buttati dentro un carrello, i non cibi provenienti dai “non luoghi”. Il toccare abolito, l’odorare annullato. L’alimento è una natura morta che nulla comunica ai sensi ed è costruito per istinti primitivi, elementari, immediati. Per la sopravvivenza (non solo economica). Gli antichi protagonisti, gli uomini della Terra, sono diventati consumatori e spettatori passivi, stupiti, creduli e increduli, ascoltatori di una nuova favola: la “dieta mediterranea”. L’immagine che meglio restituisce il senso della retorica.

Il suo mito e l’evocazione si affermano, in modo mediatico (Italia, Spagna, Grecia), alla fine degli anni 80. Nel 1948 la Rockefeller Foundation inventa, a Creta, un regime alimentare “mediterraneo”, efficace per prevenire alcune malattie. La formulazione di un “ideale culinario”, comune a tutti i paesi dell’area, diventa da subito una realtà indiscutibile, in alcuni libri di cucina apparsi già nei primi anni cinquanta. La promozione di un “regime mediterraneo”, contrapposto agli standard alimentari dei paesi industrializzati occidentali, si consolida con la rilettura di pochi lavori del 1952 di Ancel Keys sui consumi alimentari e fattori di rischio di arteriosclerosi in sette paesi. Le ricerche che conduce dal 1957 in Grecia, a Creta e nel Mezzogiorno d’Italia ipotizzano che un modello tradizionale alimentare svolgesse una funzione preventiva per le malattie cardiovascolari. La Mediterranean way of eating è proposta come modello, stile e traguardo da perseguire in tutto l’Occidente industrializzato e negli Stati Uniti. Si afferma l’idea che l’alimentazione mediterranea, ricca di cereali, legumi, frutta e verdure, pesce fresco e paste, con pochi prodotti di origine animale (formaggi e uova), povera di grassi saturi, con olio di oliva come principale condimento, possa contrastare affezioni cardiovascolari, diabete, cancro, che in quegli anni si andavano diffondendo nei paesi sviluppati. “Correlazioni più che di relazioni causali che restano nel campo delle ipotesi plausibili”. Il modello fa riferimento, alla frugalità, alla sobrietà, all’equilibrio di una tradizione mai precisata e ad abitudini del passato.

Tuttavia, la “dieta del Mediterraneo” che si consumava fino a 60-70 anni fa non era a base di olio d’oliva e di frumento, ma di castagne, granturco e grasso di maiale. Invenzione nostalgica. Il modello della dieta mediterranea non corrisponde alla realtà storica di nessuna area geografica del Mediterraneo. Resta norma morale ideale, utopia basata sul mito costituito da Keys, assorbito come argomento vincente per le strategie di marketing dell’industria alimentare. Interessi economici la inventano ed esaltano. Il congresso di Boston nel 1993, organizzato dalla Harvard Medical School sotto gli auspici della Old ways preservation and Exchange Trust, è stato finanziato dai produttori di olio d’oliva e di vini californiani e dagli importatori americani greci.

Nei media e nella pubblicità delle multinazionali alimentari nasce un mito slegato dalla storia. Un’invenzione culinaria postmoderna in cui confluiscono elementi eterogenei, prelevati da diversi contesti geografici, ambientali “tradizionali”, spesso esterni allo stesso mondo mediterraneo. Il modello, l’ideale alimentare non corrisponde alla realtà di nessuna area geografica afferma nei decenni in cui le popolazioni cominciano ad abbandonare le antiche abitudini alimentari. Il puritanesimo moralistico anglosassone si alimenta nell’antiamericanismo che coinvolge lo stile alimentare.

Ma la Terra dov’è? Quella che c’è Madre, che ci ha modellato, che respira con noi, che un giorno ci accoglierà. Tangibile manifestazione del ritmo del cosmo di cui noi tutti facciamo parte. Come la società attuale ha rimosso la morte e cerca di allontanare l’idea del dolore, cosi ha cancellato la presenza attiva e solidale degli animali, l’indifferenza della bestia è completa. E non solo del maiale, ma degli uomini dei paesi deboli che alimentano la fame nel mondo, sottopagati per il loro lavoro nella terra che le catene alimentari continuano a sfruttare, sottopagando il lavoro e togliendo dignità. Obbligandoli spesso a morire o a fuggire nel viaggio della fame, in cui non la zolla della patria, ma il Mediterraneo li libera.

Bisognerebbe ritrovare e ripensare l’esperienza che abbiamo conosciuto fino a cinquant’anni fa e rivivere rivoluzioni, scioperi, conflitti, esodi. Il Mediterraneo non è un paradiso, dove tutto cresce spontaneamente e in abbondanza. Dall’antichità fino agli anni cinquanta la ricerca del cibo è stata la preoccupazione quotidiana. Ricordiamo Ulisse e il suo mito, ma dimentichiamo gli Ulisse che oggi si aggirano nel Mediterraneo e cercano, per fame, una loro Itaca, altrove, da qualche parte, scacciati da nuovi e prepotenti satrapi, ciechi, senza memoria. E senza memoria non si può progettare il presente e il futuro. Nel “Mediterraneo da scoprire”, i politici locali e Europei dimenticano il mediterraneo e i mediterranei, privandoci della nostra infanzia, dell’adolescenza.

Al convegno di Boston della Harvard Medical School, hanno insistito sul fatto che, dopo più di duemila anni, l’alimentazione mediterranea, non è cambiata. Dimenticando l’arrivo “esterno” della melanzana, degli agrumi, della canna da zucchero e, in epoca moderna, dei nuovi prodotti “americani” (mais, patate, pomodori, peperoni) che mutano abitudini, gusto. Il (relativo) benessere alimentare determina grande consumo di carni fino al 400, e poi, la “fame”, obbliga ad una dieta erbivora. L’introduzione del pesce (tonno, sardine, stoccafisso e baccalà) quasi mai fresco (nonché riservato ai benestanti), del formaggio e di vino, di nuovo della carne, ma solo affumicata o salata degli animali minuti, con testine, budella, trippa, interiora, frattaglie. E il sangue degli animali.

La pasta industriale, la cui diffusione ebbe inizio nel XVI secolo grazie all’introduzione del torchio, si sostituisce al pane solo alla fine dell’Ottocento, insieme alla pizza al pomodoro. La ricchezza è la biodiversità: basilico, sedani della provincia di Foggia, agli di Otranto (Lecce) e Brindisi, peperoni del Barese, fave e i fagioli bianchi d’Otranto, carote di Nocera e Salerno, salami e formaggi dell’Abruzzo. La ricchezza è l’acqua, per chi la possiede. La terra irrigua produce mais tre volte più del grano, nella stessa specifica.

Il villaggio globale non può eliminare i luoghi e la loro anima, la nostra appartenenza. Occorre recuperare la sacralità che arriva dal passato, quand’anche laica, basata su leggi d’ordine e armonia nel rapporto con la natura. Rispetto reciproco, indispensabile alla vita. Considerare il proprio presente per partire dalla propria storia, per non perdersi nella globalità, non smarrirsi in una realtà omologante e massificata. Affermare il valore delle biodiversità, senza cadere in un relativismo assoluto.

In una società che non dipende più dalla produzione stagionale è importante sapere cosa si mangia, come, quando e con chi. Una nuova tracciabilità, che non esclude il nuovo, nella consapevolezza che non tutto può essere accolto e accettato come l’ideologia del fast food, non collocabile all’interno di nessuna radice o di evoluzione.

L’universo contadino preindustriale non è solo transnazionale, non conosce nazioni ed è residuo di una civiltà precedente che i padroni modellavano secondo i propri interessi e i propri fini politici. Non si torna al passato: “mai più contadini”, dicevano le persone che fuggivano dalle campagne di tutta Italia. Ma restituire la sacralità alla ruralità, sì.

La preparazione, il consumo del cibo, anche se non più accompagnato da gesti, preghiere, formule, riti di propiziazione e ringraziamento, deve rispettare il tempo, il ritmo dell’assunzione della sua assunzione, l’estetica degli alimenti, la solennità del pasto, nel mangiare insieme. Gli uomini che mangiano insieme lo stesso cibo, a volte nello stesso piatto, sono compagni (cumpanis) e non capovolgono la “faccia tonda” della pagnotta, perché è “volto del Signore”, né infilano il coltello per tagliarlo: è sacro, va creato, protetto, conservato, con parsimonia e religiosità. Come ogni cibo.

Oggi, tutti sono compagni, ma nessuno mangia il pane, quasi sempre abolito dal nutrizionista, figura costruita per rispondere ad un non bisogno di chi ha deciso di ignorare il proprio passato. Cosa conoscono i nutrizionisti della zolla, dell’acqua, del vento, della pioggia, del solco, dell’aratro, del seme, delle stagioni, della mietitura, dell’aia, dei silos, del mulino, della fatica e dell’amore umano che condiscono quel pane? Non è togliendo il cibo che accompagnava la preghiera del Padre Nostro al mattino, per il buongiorno ed alla sera, per la buona notte, che soddisfano quel milione di “falsi” celiaci del Nostro Paese (nel 2014 i celiaci erano, in Italia 172.197) spingendoli, con gioia delle multinazionali, verso il mais, divenuto alimento speciale, dopo essere stato il mangime dei polli e della tavola dei poveri, seminatore di pellagra. Bisognerebbe dare a conoscere, invece, sulle trecento varietà di grano autoctono italiano, sulla tavola fino alla seconda guerra mondiale. Quel frumento che le nostre bisnonne chiedevano cantando: “Noi vogliamo il frumento, noi vogliamo la mietitura”, per “amor dei nostri figli”. E ancora, l’accoglienza, l’attenzione: “hai mangiato?”, “con chi mangi?”. Comunicazione, scambio, rapporto. Il “mangiare bene” ha dimensione familiare, amicale, conviviale. Come il cucinare, con cui si donava, si serviva, si scambiava (come il lievito). La fine della “sacralità” che circonda gli alimenti segna e accompagna la fine della “sacralità della vita”.

La “gastro-nomia” si è trasformata in “gastro-anomia”. I bambini vengono lasciati da soli, con enormi quantità di cibi e bevande davanti al televisore. Una solitudine alimentare: mangiano in fretta e in assenza dei genitori. Vengono preparati a ulteriori solitudini. Viene meno il piacere legato alle stagioni, ai periodi dell’anno, alle feste.

L’alimentazione non rappresenta più un collante, un fatto educativo, un elemento di socializzazione e di comunione. Non costituisce più l’identificazione con un luogo, è perdita di luoghi, di rapporti con la terra, con la produzione, con le stagioni. Non è più la ricchezza della polifonia, mescolanza, integrazione di cibi, sapori, odori, colori.

Mescolare, a tavola, era alchimia, rito magico, religioso, sacrale, fondante. Mischiare e mescolare erano gesti creativi. La vita del Mediterraneo dipendeva dalla combinazione di genti, di prodotti, alimenti, sapori e colori, abilità, fantasia che generava “piatti” e pietanze preparati in mille modi. Ricchezza fatta di nulla. Anzi no, fatta di amore.

 

 

Riferimenti Bibliografici

V. Teti, Fine pasto. Il cibo che verrà, Torino, Einaudi, 2015, p. 31

I. De Garine, Il sistema mediterraneo, mangiare meridiano. Le culture alimentari di Calabria e Basilicata, Cosenza, Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, 1996, pp. 25-43

C. Fischler, Gastro-nomie et gastro-anomie. Sagesse du corps et crise bioculturelle de l’alimentation moderne, Communications, 1979, 31, pp. 189-210

F. Aubaile-Sallenave, Algunos rasgos comunes de la cocinas mediterráneas, in Gonzáles Tumo, Romero de Solís, Antropología de la alimentación: nuevos ensayos sobre la dieta mediterránea, Sevilla, Fundación Machado, 1996, pp. 115-134.

 

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