Giovanni Filoramo, Fare storia del cristianesimo. Quale futuro?, a cura di Rosa Maria Parrinello, La Scuola (Morcelliana), 2016



Giovanni Filoramo, Fare storia del cristianesimo. Quale futuro?, a cura di Rosa Maria Parrinello, La Scuola (Morcelliana), 2016
Abstract:

Autobiografia intellettuale e riflessione su passato, presente e futuro degli studi sulle religioni in Italia e all’estero, il libro-intervista di Giovanni Filoramo, curato da Rosa Maria Parrinello, conduce il lettore in un percorso che dal contesto delle ricerche sullo gnosticismo negli anni Sessanta – promosse in Italia da Manlio Simonetti, Ugo Bianchi e Franco Bolgiani – giunge all’interrogazione sull’avvenire dei fenomeni religiosi, come le new faces of Christianity descritte da Philip Jenkins.

Il volume è suddiviso in quattro capitoli, più alcune sezioni complementari: l’Introduzione della curatrice, un breve profilo bio-bibliografico di Giovanni Filoramo, e le Note bio-bibliografiche degli autori citati, utili profili sintetici che consentono anche al lettore non specialista di avere le coordinate di base su personaggi dell’antichità come l’apologista Giustino, l’eresiologo Ireneo o gli gnostici Basilide e Valentino, su pensatori di età successive come il mistico Jakob Böhme e il teologo Friedrich Schleiermacher, e più diffusamente su studiosi di storia del cristianesimo e delle religioni da metà Ottocento in poi – ad esempio Baur, Harnack, Bultmann, Eliade, Scholem, gli italiani Labanca, Buonaiuti e Pettazzoni, e poi le generazioni più recenti fino ai contemporanei, Alberigo, Bianchi, Bolgiani, Brelich, Simonetti, Gnoli, Sfameni Gasparro, Stroumsa, per non citarne che alcuni.

Il cuore del volume è costituito dai quattro capitoli nei quali le domande poste a Filoramo (la forma è appunto quella dell’intervista) sono raggruppate per temi. Il primo, La formazione e il percorso di un agnostico devoto, ricostruisce le origini e gli sviluppi dei percorsi di ricerca dello studioso, partendo dalla disambiguazione della sua appartenenza disciplinare: storico del cristianesimo o storico delle religioni? Filoramo spiega di essersi sempre considerato uno storico del cristianesimo, nonostante la sua carriera accademica sia iniziata come storico delle religioni: laureatosi in storia del cristianesimo nel 1969 con un lavoro sullo gnosticismo, si trovò poi nel campo della storia delle religioni per motivi «contingenti» (p. 21), su proposta di Bolgiani. Di quest’ultima disciplina, Filoramo ha però saputo tesaurizzare aspetti e metodologie applicati una volta tornato formalmente alla storia del cristianesimo: «ho cercato […] di fare una storia del cristianesimo che fosse non solo aperta ai problemi culturali e sociali, ma fosse anche sensibile a una problematica di storia delle religioni: il cristianesimo come una religione» (p. 22).

Si passa poi al tema dei maestri, delle influenze, della formazione. Come figure chiave Filoramo indica Michele Pellegrino (letteratura cristiana) e Franco Bolgiani (storia del cristianesimo), dal quale – in parte – proviene anche un influsso metodologico: «l’interesse per gli aspetti metodologico-concettuali» (p. 23). Questo elemento risale in definitiva a Croce e alla tradizione storiografica italiana, chiamata a confrontarsi anche con la filosofia, la filosofia della storia. Sempre Bolgiani introdusse i suoi allievi allo studio della «grande teologia tedesca» (p. 24), ad esempio Bultmann e Peterson. Una domanda successiva si incentra invece sul ruolo che gli eventi storici degli anni Sessanta-Settanta (dal Vaticano II ai sommovimenti sociali e politici) possono aver avuto sulla formazione di Filoramo: questi chiarisce che il Concilio lo visse «molto dall’esterno», mentre il Sessantotto, vissuto all’Università di Torino, lo ha «veramente influenzato» (p. 26), aprendo «problemi e orizzonti» e fornendo contatti, sebbene ciò non si tradusse in prassi politica attiva.

Le ultime domande di questa sezione si soffermano sull’intreccio tra temi e questioni della ricerca cristianistica e religionistica, da un lato, e contesto storico-sociale, dall’altro, distinguendo due periodi: quello degli anni Sessanta-Settanta e quello degli anni Ottanta-Novanta, fino all’attualità. Filoramo spiega che fino al 1985 il suo asse prevalente di ricerca è stato lo gnosticismo; poi però «è subentrato un interesse per le tematiche che non fossero legate solo al passato» (p. 29) – e qui tornava l’influsso crociano mediato da Bolgiani, ovvero l’idea che «la storia è sempre storia del presente» (p. 30). Ecco allora gli studi sui nuovi movimenti religiosi, e su come la “modernità” (nei suoi molteplici aspetti) influisce sulle tradizioni religiose. Qui si è strutturato il modello di ricerca dello studioso di origine pugliese: «avere una visione di lungo periodo, alternando corsi sull’antico e sul contemporaneo» (ibidem). Per quanto riguarda la domanda su quali eventi o processi hanno fornito nuovi e diversi temi alla ricerca, Filoramo identifica la «globalizzazione» e il «ritorno sulla scena pubblica delle religioni» (p. 33): a suo avviso, infatti, la categoria storiografica di «secolarizzazione» funziona «sempre meno» (p. 34), perché se era adatta a fotografare la situazione di una «secolarizzazione vincente», il quadro era però già mutato tra fine anni Ottanta e inizio Novanta (quando apparvero gli importanti studi di Miccoli e Menozzi sul tema), allorché le diverse tradizioni religiose stavano tutte tornando sulla scena pubblica. Il cristianesimo sta per morire?, si chiedeva Jean Delumeau in un suo libro del 1977; piuttosto, afferma Filoramo, sta morendo «un certo tipo di cattolicesimo, di cristianesimo europeo» (p. 35), conseguentemente ai processi di globalizzazione, che impongono alla ricerca nuovi problemi e metodi: bisogna «guardare ai fenomeni religiosi in modo globale» (ibidem), interrogarsi sulla «società post-secolare», non si può più fare «una storia puramente istituzionale» (p. 36) e non si può più «studiare isolatamente il fenomeno cristiano». Oggi si vive in una situazione di dominante «pluralismo religioso», e ciò «costringe a ritornare a ripensare altre epoche, altre situazioni religiose».

Il secondo capitolo, Gnosticismo e decostruzionismo: l’attesa della fine?, si focalizza su quello che è da sempre uno dei principali ambiti di ricerca di Filoramo, i cui interessi sullo gnosticismo – spiega egli stesso – risalgono già a prima dell’università: dunque Jonas, più che Bianchi, gli fornì le prime chiavi di lettura. Questo capitolo è un prezioso commento a decenni di storiografia gnostica e affronta alcune questioni decisive, a partire da quella delle origini dello gnosticismo: cristiane o extra-cristiane? Filoramo afferma qui di vedere la cosa in modo diverso rispetto a venti o trenta anni fa: se prima accettò la distinzione tra gnosi e gnosticismo, promossa da Bianchi al Convegno di Messina del 1966, e dunque anche il suo retroterra religionistico, con la conseguenza della tesi di un’origine non-cristiana dello gnosticismo, in seguito – in particolare con il procedere della pubblicazione dei testi di Nag Hammadi e lo studio filologico su di essi – ha riconsiderato la questione; «oggi Simonetti avrebbe ragione con la sua idea delle origini cristiane con cui non sono stato d’accordo» (p. 42). Con «oggi», Filoramo intende un periodo non solo successivo agli studi sui manoscritti di Nag Hammadi, ma anche a quella che chiama «l’onda decostruzionista e lo smantellamento della categoria di gnosticismo» (ibidem): una serie di studi (a partire da quelli, celebri, di Michael A. Williams e di Karen King) che intendono ripensare, decostruire la categoria di “gnosticismo”, e con essa tutto un impianto di storia del cristianesimo che perpetuerebbe lo sguardo eresiologico. Secondo questi autori, bisogna focalizzarsi anzitutto sui singoli autori, sui singoli testi o frammenti (si pensi ai lavori di Christoph Markschies su Valentino), inquadrandoli nel multiforme contesto del «mondo cristiano in formazione» del tempo (p. 43), più che postulare un generico, omogeneo, unitario “gnosticismo”. Il commento di Filoramo a tutto ciò, è che la decostruzione «ha avuto degli aspetti positivi» (p. 42), anche se gli esiti finali, ipercritici, sono problematici; «[s]i vedono tantissimi alberi, ma si è perso completamente il senso della foresta» (p. 45). Non basta decostruire le vecchie categorie, che certo possono presentare criticità: occorre poi trovare un modo per identificare e ricostruire un fenomeno che, comunque, «è esistito» (p. 47). E difatti, più avanti Filoramo ribadisce alcune «caratteristiche specifiche» dello “gnosticismo”, come «il dualismo, l’anticosmismo, il pessimismo e l’elemento veicolato dal termine gnosi-conoscenza» (p. 52); c’è un’«aria di famiglia» che accomuna testi e autori diversi (p. 56).

Il terzo capitolo, Temi e luoghi della storia del cristianesimo e della storia delle religioni, dapprima ripercorre alcune importanti imprese editoriali guidate da Filoramo, dal Dizionario delle religioni (1993) alla Storia delle religioni (1994-97), alla Storia del cristianesimo con Daniele Menozzi (1997), dove riemergeva ancora «un lascito di Bolgiani»: l’idea della «continuità della storia del cristianesimo, della sua unità» (p. 68); quindi rievoca alcuni dei principali temi di ricerca dello studioso: tra questi, lo gnosticismo, il monachesimo, il profetismo, il sacro, la direzione spirituale, il rapporto tra religioni e potere, i movimenti religiosi contemporanei. In questa sezione emergono alcuni spunti molto stimolanti, laddove Filoramo commenta problematiche metodologiche e – anche attraverso queste – lo sviluppo degli studi sulle religioni in Italia e in campo internazionale. Primo elemento da rilevare, «l’intreccio tra la storia del cristianesimo e la storia delle religioni» (p. 70), le sue radici storiche, ma anche il suo valore attuale, in chiave di arricchente dialogo metodologico: diversi temi – ricorda Filoramo – che egli ha affrontato nell’ambito della storia del cristianesimo (ad esempio mistica, profetismo, monachesimo) «li h[a] accostati sempre tenendo presente una problematica più generale di storia delle religioni, cioè ponendomi domande di tipo comparativo» (p. 72); «Dal confronto con situazioni religiose analoghe, per differenza e non per analogia e somiglianza, possono venire spunti per capire meglio» (p. 73) – affermazione metodologicamente cruciale, che mette in guardia dalle possibili conclusioni ascientifiche di un comparativismo poco avvertito. Il tema del rapporto tra cristianistica e religionistica offre a Filoramo il destro per ripercorrere anche gli aspetti storico-politici e di “storia delle istituzioni” e dei contesti culturali nell’Italia dal secondo dopoguerra in poi: rapporti, intrecci e distinzioni tra le due discipline non avevano solo una connotazione accademica, scientifica; fino agli anni Settanta-Ottanta, ad esempio, in Italia l’insegnamento di storia del cristianesimo «doveva andare a un cattolico impegnato» (p. 79), mentre poi un processo “secolarizzante” ha avviato un superamento di certe barriere e contrapposizioni ideologiche. C’è spazio anche per la questione del rapporto con la politica, in particolare i legami tra storia delle religioni e fascismo – in Italia – o più genericamente tra questa e i regimi totalitari di destra: qui Filoramo richiama anche un recente convegno svoltosi presso Sapienza Università di Roma (Relazioni pericolose. La storia delle religioni italiana e il fascismo, 3-4 dicembre 2015). Il tema è complesso e dibattuto, e Filoramo riflette in particolare sulla connotazione politica della “scuola romana” di storia delle religioni, da Pettazzoni e de Martino in poi, segnalando che occorre approfondire il contesto in cui si trovarono gli storici delle religioni sotto diversi regimi totalitari («sarebbe interessante anche vedere che cosa succede con il comunismo», p. 75), identificando anche le differenze, come tra chi professò solo un «fascismo di facciata, di convenienza» (qui colloca Pettazzoni) e chi invece aderì in modo convinto (ad esempio de Martino).

Tra i diversi altri temi toccati in questo ricchissimo capitolo, se ne possono qui segnalare altri due. Anzitutto l’approfondimento di una prospettiva emersa in precedenza, il presupposto “bolgianiano” del «formarsi sull’antico ma cimentarsi anche su una tematica contemporanea» (p. 80): il suggerimento di Filoramo è di procedere in questa direzione, facendo interagire i diversi aspetti, confrontandosi con lo studio di diversi contesti – anche in virtù della convinzione che «le domande rivolte al passato veng[o]no dal modo in cui si vive nel presente» (p. 82). Il secondo punto da evidenziare è ciò che getta luce sull’intero percorso intellettuale di Filoramo, laddove egli spiega che i suoi studi sul profetismo, sul sacro, sullo gnosticismo, sulla mistica, si inseriscono in un suo «modo particolare di accostar[s]i allo studio dei fenomeni religiosi»: l’aspetto che più lo ha sempre interessato e affascinato nella religione, infatti, è «l’eccesso, il di più, l’aspetto perturbante» (p. 86), «la messa in discussione radicale dell’esistente» (p. 88), «le dimensioni più irrazionali, più problematiche» (p. 86), e il tipo di religione che è «marginale» (p. 87), dunque figure “eretiche”, profetiche, mistiche.

Nel quarto capitolo, Tra bilanci e nuove prospettive, Filoramo riflette sul futuro della storia del cristianesimo e della storia delle religioni, identificando un avvenire più florido per la prima, in virtù della sua dimensione «globale», dei collegamenti internazionali, dell’apertura interdisciplinare e multidisciplinare: tutti aspetti che vede latitare nella seconda. Certo, prosegue Filoramo, gli aspetti positivi della “nuova” storia delle religioni possono anche rovesciarsi in punti problematici, ad esempio la perdita di un’identità chiara, determinata dall’assottigliamento dell’«asse storico-filologico-critico» (p. 98), proprio in virtù della pluridisciplinarità; tuttavia, l’apertura, il confronto, l’integrare l’asse storico, sono per Filoramo positivi: forse la storia delle religioni può diventare una sorta di «metadisciplina», ossia «una specie di luogo di incontro, di studi e metodologie diverse tenute insieme da questo oggetto sfuggente che è la religione» (p. 99). Occorre comunque comprendere il nuovo contesto globale, la situazione di «pluralismo religioso» (pp. 97 e 103) anche «conflittuale»: da qui le due discipline devono trarre nuovi spunti e questioni. Tra le ultime domande, di particolare interesse è quella che invita Filoramo a indicare temi che avrebbe voluto indagare o approfondire di più: lo studioso menziona il «tema delle immagini», il «ruolo fondamentale che hanno avuto le immagini da tanti punti di vista nella storia del cristianesimo» (p. 109), a suo avviso tema ancora troppo marginale negli studi cristianistici, in genere legati ad una «prospettiva logocentrica» (p. 110) che trascura le immagini e altri tipi di documentazione non scritta (una felice eccezione è la “scuola di Bari”). Se l’invito di Filoramo ad affrontare di più questo fondamentale aspetto è massimamente opportuno, sia però qui permesso ipotizzare che la sua fotografia dell’attuale situazione degli studi in materia rischia di risultare un po’ pessimistica: in particolare, la più recente storia del cristianesimo edita (un progetto in quattro volumi coordinato da Emanuela Prinzivalli: Storia del cristianesimo, 4 voll., Roma, Carocci, 2015; i curatori dei singoli volumi sono, nell’ordine, la stessa Prinzivalli, Marina Benedetti, Vincenzo Lavenia, Giovanni Vian), che per Filoramo perpetua la tradizionale marginalizzazione del tema dell’immagine – «la parte sull’arte antica è inesistente, la riflessione, la teologia sulle immagini non c’è» (p. 109) – contiene in realtà alcuni saggi o capitoli esplicitamente dedicati non solo alle immagini, all’estetica cristiana, alla controversia iconoclasta, ma anche al rapporto del cristianesimo con la musica e il teatro, oltre che con il diritto e altri ambiti. Si veda in particolare il secondo volume, dedicato all’età medievale; ma si pensi anche al saggio di Ottavia Niccoli nel terzo tomo, sull’età moderna. Effettivamente non moltissime, invece, le pagine sull’arte cristiana antica nel primo volume – ma, nel suo complesso, l’opera mostra una sensibilità per i temi dell’arte e dell’immagine. Ciò si inquadra nel taglio programmaticamente interdisciplinare di quel progetto editoriale, che può essere visto come una volontà di proporre nuove chiavi di lettura, peraltro incrociando istanze emerse proprio nel libro-intervista a Filoramo: e dunque potrà apparire un segnale in controtendenza, di auspicio per un quadro a tinte meno fosche.

Questo volume di Filoramo, in conclusione, costituisce una lettura di sicuro interesse per studiosi o semplici appassionati di storia del cristianesimo e delle religioni, per la ricchezza di spunti che condensa: seguendo il filo dei ricordi e delle riflessioni di uno studioso autorevole, è possibile ripercorrere secoli di storia del cristianesimo e decenni di studi storico-religiosi in Italia. In ottica ancor più ampia, il libro-intervista rappresenta – riprendendo le parole della curatrice – «un’apologia della storia e della tradizione critica», una difesa dell’importanza della formazione e delle discipline umanistiche, in una fase in cui il loro statuto è sottoposto a critiche e discussioni. È invece opportuno, e benvenuto, ogni contributo che restituisca loro rilevanza.