L’interpretazione delle fonti: ricerca d’archivio e ricostruzione storiografica nell’era della divulgazione di massa

L’interpretazione delle fonti: ricerca d’archivio e ricostruzione storiografica nell’era della divulgazione di massa

Abstract: I grandi mezzi di comunicazione di massa tendono, per loro natura, a semplificare le informazioni, anche quelle storiche; tale inevitabile semplificazione si ripercuote sul lavoro degli storici e degli archivisti e apre una difficile riflessione sul rapporto tra ricerca e divulgazione.

I grandi mezzi di comunicazione di massa tendono, per loro natura, a semplificare le informazioni, anche quelle storiche; tale inevitabile semplificazione si ripercuote sul lavoro degli storici e degli archivisti e apre una difficile riflessione sul rapporto tra ricerca e divulgazione.

Il titolo del volume, Vero e falso. L’uso politico della storia, è in certa misura limitativo rispetto alla pluralità di temi trattati nel convegno svoltosi il 20 aprile 2007, presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma, “Apologia della storia o storia apologetica? Il mestiere dello storico, il metodo dell’archivista e il sensazionalismo dei media” di cui raccoglie gli atti. Dalle relazioni, infatti, emergono molti quesiti ai quali non è semplice rispondere in maniera chiara e univoca.

Nel saggio introduttivo di Marina Caffiero, Libertà di ricerca, responsabilità dello storico e funzione dei media, si evidenzia il tema dell’uso pubblico della storia, sostanzialmente inteso come strumentale rispetto a finalità contingenti, ripreso anche in altri saggi, come ad esempio in quello di Alessandro Portelli dedicato alla strage delle Fosse Ardeatine. Portelli rileva come il mito della responsabilità partigiana, che implica la messa in discussione dell’intera Resistenza e dunque dei valori su cui si fonda la Repubblica, resista anche all’evidenza dei fatti. Le varie argomentazioni a sostegno della responsabilità partigiana partono comunque da un assunto che si dà per pacificamente acquisito (invito ai partigiani a consegnarsi per evitare la rappresaglia) e che ovviamente non è pacificamente acquisito, in quanto se nella lotta armata, i partigiani avessero dovuto consegnarsi ai tedeschi ogni volta che li hanno attaccati, non vi sarebbe stata la Resistenza. Ma il fatto più inquietante è che all’inizio dell’occupazione a Roma non vi era stato alcun annuncio da parte dei tedeschi circa la “regola dei dieci italiani per un tedesco”.

Ciononostante, non solo questa falsa convinzione permane in ampie fasce di memoria ma, addirittura, è presa a fondamento di una recente sentenza del Tribunale di Roma, in base alla quale non è reato accusare Rosario Bentivegna di essere il “vero autore” della strage delle Fosse Ardeatine in considerazione della mancata presentazione dei partigiani ai nazisti: la motivazione è che oggi è lecito criticare la Resistenza e, pertanto, chiunque può esprimere le proprie opinioni. Lungi dal rilevare che non può farsi derivare una responsabilità diretta o indiretta dall’asserzione di fatti non verificati storicamente – anzi risultati inesistenti (il bando tedesco della rappresaglia non è mai stato diffuso a Roma) – si arriva a conferire dignità di evento oggettivo alle opinioni, sostenendo inoltre che debbono essere difese in nome della libertà di pensiero. Questione che assume una seria rilevanza sotto il profilo storico e politico quando storici negazionisti invocano la libertà di ricerca e di espressione, quando cioè si piega ad arte uno degli assunti fondamentali della ricerca, la libertà di pensiero, per dissimulare un intento di sopraffazione.
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