Quiete e libertà Il Magistrato dei Segretari nella Lucca del Settecento
Per una repubblica come quella di Lucca, piccola per estensione territoriale e debole a livello militare, il mantenimento dell’indipendenza politica è passato nei secoli attraverso la conservazione della quiete, unica garanzia di sopravvivenza di fronte alle pretese degli altri stati – soprattutto della temutissima Firenze – e alle ingerenze del potere ecclesiastico. Agli occhi del governo lucchese, la quiete ha sempre rappresentato un requisito socio-politico imprescindibile sia per l’amministrazione interna sia per la gestione dei rapporti con l’esterno, in quanto condizione essenziale per la sopravvivenza della repubblica aristocratica e per l’esercizio del potere da parte dei suoi «consortati» cittadini. Garantirne la presenza a tutti i livelli – riducendo al minimo il rischio di scontri interni ed eliminando dal tessuto sociale qualsiasi occasione, anche la più remota, di divisione – significava in sostanza garantire la libertas statale.
In quest’ottica il governo lucchese cercò sempre di fornire un’immagine della repubblica che ne accentuasse ordine interno e pace sociale, secondo una rappresentazione che perdurò a lungo e che a Settecento inoltrato non si era affatto appannata. In effetti, complice anche il dizionario geografico di Antoine-Augustin de La Martinière, fonte essenziale per intellettuali e viaggiatori del Grand Tour, il patriziato lucchese riusciva ancora ad accreditare all’esterno l’idea (ormai stereotipata) di uno stato ben organizzato e prospero, il cui funzionamento veniva descritto con sincera ammirazione da molti visitatori stranieri, persino da quelli più critici nei confronti delle repubbliche oligarchiche di Genova e Venezia. Rispetto alle parole di elogio, che arrivavano soprattutto dall’area francese più vicina ai philosophes e da personaggi come Charles-Louis de Montesquieu, Charles de Brosses, Joseph-Jérôme de Lalande, l’abate Gabriel-François Coyer, Jean-Marie Roland de la Platière e Louis de Jaucourt, le voci discordanti furono piuttosto rare ed emersero soprattutto verso la fine del secolo: in particolare con Giuseppe Gorani, che paragonava Lucca «à un grand couvent» amministrato «avec une exactitude minutieuse», e con Charles Dupaty, secondo cui la libertas che la repubblica tutelava tanto gelosamente altro non era che l’antico «privilège d’opprimer» esercitato dall’aristocrazia cittadina sul resto della popolazione; tuttavia anche questi pareri così critici, alla stregua di quelli più positivi, partivano dallo stesso dato di fatto, ossia dall’importanza attribuita dal governo lucchese alla conservazione della quiete interna.