Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, 2011



Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, 2011
Abstract: Oltre dieci anni fa (nel 2000) lo stesso editore (Il Mulino) pubblicò un libro di una studiosa americana, Ruth Ben-Ghiat (oggi direttrice del dipartimento di studi italiani alla New York University) dal titolo "La cultura fascista" destando un vespaio di polemiche data la delicatezza del problema. Si trattò di un'operazione spregiudicata per varie ragioni, tra le quali una che potrebbe apparire di poco conto ma non lo è: il titolo originale del lavoro era "Fascist Modernities" che, anche per chi non mastica molto l'inglese, suona molto, ma molto diverso, da "La cultura fascista".

Oltre dieci anni fa (nel 2000) lo stesso editore (Il Mulino) pubblicò un libro di una studiosa americana, Ruth Ben-Ghiat (oggi direttrice del dipartimento di studi italiani alla New York University) dal titolo La cultura fascista destando un vespaio di polemiche data la delicatezza del problema. Si trattò di un’operazione spregiudicata per varie ragioni, tra le quali una che potrebbe apparire di poco conto ma non lo è: il titolo originale del lavoro era “Fascist Modernities” che, anche per chi non mastica molto l’inglese, suona molto, ma molto diverso, da “La cultura fascista”.

La tesi centrale della studiosa americana era essenzialmente quella di sfatare il “mito” che durante il fascismo “non ci fu e non si fece cultura”. Al contrario, era possibile parlare di una cultura fascista (o meglio ancora di “culture fasciste”, altro tema spinoso quello delle definizioni…) aggiungendo – e questa era la “novità” – che negli anni Trenta la dittatura aveva prodotto in campi diversi qualcosa di nuovo che indubbiamente aveva contribuito a “modernizzare” l’Italia. Accolto negli Stati Uniti come un contributo innovativo, anche se in un certo senso “provocatorio”, in Italia è stato praticamente stroncato, e non solo dagli specialisti del fascismo.

Il fatto è che tutto questo è da anni chiarissimo a chi con costanza e non sporadicamente frequenta gli archivi e legge la ricca produzione periodica degli anni Trenta, non limitandosi a sfogliare libri, magari persino di qualche decennio fa, scritti in un contesto dove la (in parte giustificata e comprensibile) guerra ideologica aveva la meglio sulla realtà delle cose.

Negli Stati Uniti sono anni (ormai è stato abbondantemente da molto superato il decennio) che si sono “accorti” delle “modernità fasciste” cercando però di fornire analisi – condivisibili o meno – a volte francamente stravaganti, a seconda dei casi, se non in un certo senso imbarazzati (una per tutte, Barbara Spackman e il suo tentativo di fare della psico-storia raccontandoci di manganelli intesi come “simboli fallici” al pari della “calva testa del duce”). In ogni caso le interpretazioni d’oltreoceano, tanto indigeste agli accademici italiani, vengono quanto meno a “smuovere le acque” e si prestano a favorire un confronto e una riflessione che (sembra banale dirlo ma è così) fa parte del giusto rapporto tra culture, idee, modelli.

Ecco allora il libro della Tarquini – allieva di Emilio Gentile – che, a distanza di oltre un decennio, ci si aspetterebbe dica qualcosa di più. L’agile volume (comunque ben oltre 200 pagine) sembra aver messo curiosamente d’accordo tutti: dai neofascisti nostrani a parte degli intellettuali di una certa sinistra (dare un’occhiata al web per avere conferma). Ebbene sì: è esistita una cultura fascista. Anzi, di più: il fascismo è stato “moderno” ed ovunque si vada ad indagare (arte, architettura, letteratura: l’elenco è infinito) si scopre una vivacità per alcuni insospettabile.

L’autrice ci racconta della “cultura dei fascisti” limitandosi però a fare una fotografia. Siamo di fronte ad una pregevole sintesi – questo certamente – oltre la quale però non c’è molto altro. Come fu possibile tutto questo nel contesto del “totalitarismo fascista”, termine tanto amato proprio da Emilio Gentile e non solo? Difficile dare una risposta, ma almeno tentare un abbozzo è cosa che il lettore con tutta sincerità si aspetterebbe.

Se Marcello Piacentini è il “dio dell’architettura italiana” che ci fanno Terragni e Pagano in giro per il Belpaese a creare i capolavori del razionalismo italiano di cui ormai tutti gli storici dell’architettura del mondo si occupano? Che c’entra Mario Sironi (“l’artista del regime”) con un personaggio incredibile come Fortunato Depero? E le modeste realizzazioni che si vedono in certe chiese costruite in quegli anni, magari nei centri rurali dell’Agro Pontino, con tutta quella parte del Futurismo che agisce negli stessi anni proponendosi – cosa ormai riconosciuta a livello mondiale – come una delle più straordinarie avanguardie del Novecento?

Che c’entra Alberto Moravia (che tra l’altro implora il duce – carte alla mano – di aiutarlo nel difficile momento della svolta antiebraica) con Massimo Bontempelli e il suo realismo magico? O Giuseppe Bottai con un ex prete e rozzo antisemita come Giovanni Preziosi? Sono domande – anche queste – a cui bisogna dare risposta e alle quali l’autrice nel suo libro non risponde.

Manca poi una riflessione su di un argomento chiave, quello delle influenze della Santa Sede sulle scelte non solo politiche ed ideologiche del fascismo – che spiccano in modo evidente a chi ha lavorato sulla nuova documentazione dell’Archivio Segreto Vaticano – come se il papa fosse ancora “prigioniero”, quasi ad invertire i numeri, scambiando Pio XI per Pio IX. Come dimenticare – o semplicemente ignorare, ancora una volta, grazie ai nuovi documenti vaticani e al fondo dell’ARSI – che un gesuita, Pietro Tacchi Venturi, trascorreva pomeriggi interi con Mussolini nel suo studio in quel di Piazza Venezia a parlare di tutto (compresi argomenti che moltissimo hanno a che fare con la “cultura” intesa in senso globale) ? E Pacelli, il famoso Eugenio, che da Segretario di Stato, media, suggerisce, emenda, con il suo stile felpato inconfondibile, ma raggiungendo quasi sempre l’obiettivo? E la svolta degli anni della guerra, la radicalizzazione ideologica, il braccio di ferro con l’alleato nazista? Di tutto questo non si parla o si fanno cenni fugaci.

Il lavoro non ci sembra dare un contributo utile al progredire della conoscenza di un fenomeno angolare e sfuggente come quello del fascismo italiano visto dalla prospettiva, appunto, della sua “cultura”. E’ ovvio che siamo di fronte ad un argomento di enorme complessità, ma questo non può essere una giustificazione, specie per un libro dal titolo così impegnativo.

Negli ultimi anni sono usciti pregevoli studi su temi diversi che dimostrano in modo incontrovertibile – e al di là di incrostazioni ideologiche che non meritano più spazio – una vivacità e pluralità della vita culturale italiana negli anni della terribile dittatura che ormai solo qualche arretrato può negare. Si può e si deve discutere sul come, sul perché: ma non si può fare finta di nulla e limitarsi alle formule liquidatorie tipiche del passato.

Bisogna domandarsi per quali ragioni – vale la pena di ripeterlo e sottolinearlo di nuovo – tutto ciò è potuto avvenire in un regime quale quello di Mussolini e forse chiedersi anche in che modo sia possibile replicare qualcosa di simile – ci riferiamo alle “modernità” naturalmente – nel contesto di una democrazia compiuta, magari nell’Italia di oggi dove ormai è saltato il banco e ogni punto di riferimento. A meno che non ci si voglia affidare solo al passato nostalgico della “prima repubblica” o, peggio ancora, ai famigerati mercati.

Di tutto questo francamente non c’è traccia in questo lavoro che appare come una sorta di “manuale di base” – tanto per sapere che “qualcosa è successo” – senza entrare più di tanto nel merito del perché e del come. Ma, forse, questo era in fondo l’obiettivo del libro.