L’Inquisizione di Bologna e la Congregazione del Sant’Uffizio alla fine del XVII secolo. Analisi e ricerche, Aracne, 2012



Abstract: Il volume di Gian Luca D'Errico si inserisce in un filone divenuto quasi classico. Sono ormai molte, infatti, le monografie dedicate alla storia dell'inquisizione su scala cittadina o regionale. L'aspetto più originale di quelle uscite negli ultimi anni, tra cui anche questo volume, è l'intreccio tra documentazione locale e fonti provenienti dall'Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. D'altra parte, il periodo preso in considerazione dall'autore non è ancora molto conosciuto. Dal punto di vista della storia della cultura, si tratta della fase in cui la Controriforma sembra sfociare in quello che sembra essere il suo esatto contrario: l'ateismo. O meglio: in quella peculiare e affascinante mescolanza di credulità estrema – come mostrano tra l'altro i processi per sortilegi analizzati da D'Errico – e di scetticismo ed empietà altrettanto estremi, come hanno mostrato le ricerche recenti di Federico Barbierato e Vincenzo Lavenia.

Il volume di Gian Luca D’Errico si inserisce in un filone divenuto quasi classico. Sono ormai molte, infatti, le monografie dedicate alla storia dell’inquisizione su scala cittadina o regionale. L’aspetto più originale di quelle uscite negli ultimi anni, tra cui anche questo volume, è l’intreccio tra documentazione locale e fonti provenienti dall’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. D’altra parte, il periodo preso in considerazione dall’autore non è ancora molto conosciuto. Dal punto di vista della storia della cultura, si tratta della fase in cui la Controriforma sembra sfociare in quello che sembra essere il suo esatto contrario: l’ateismo. O meglio: in quella peculiare e affascinante mescolanza di credulità estrema – come mostrano tra l’altro i processi per sortilegi analizzati da D’Errico – e di scetticismo ed empietà altrettanto estremi, come hanno mostrato le ricerche recenti di Federico Barbierato e Vincenzo Lavenia

Il volume di Gian Luca D’Errico si inserisce in un filone divenuto quasi classico. Sono ormai molte, infatti, le monografie dedicate alla storia dell’inquisizione su scala cittadina o regionale. L’aspetto più originale di quelle uscite negli ultimi anni, tra cui anche questo volume, è l’intreccio tra documentazione locale e fonti provenienti dall’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. D’altra parte, il periodo preso in considerazione dall’autore non è ancora molto conosciuto. Dal punto di vista della storia della cultura, si tratta della fase in cui la Controriforma sembra sfociare in quello che sembra essere il suo esatto contrario: l’ateismo. O meglio: in quella peculiare e affascinante mescolanza di credulità estrema – come mostrano tra l’altro i processi per sortilegi analizzati da D’Errico – e di scetticismo ed empietà altrettanto estremi, come hanno mostrato le ricerche recenti di Federico Barbierato e Vincenzo Lavenia.

Come in altre ricerche dedicate all’attività dell’Inquisizione, anche in questo volume si avverte l’oscillazione tra l’interesse per gli inquisiti e quello per gli inquisitori – e in generale per i tribunali ecclesiastici dell’età della Controriforma. Proviamo dunque a seguire uno per volta questi fili, che si intrecciano e si alternano frequentemente nelle pagine di D’Errico.

La linea d’indagine storico-antropologica è preannunciata da quella che potremmo definire una case-history, rappresentata dalla vicenda giudiziaria della cortigiana Maria Teresia Grismondi (che, classicamente, apre e chiude il volume), che si svolse dal 1676 al 1679. A dire il vero, la storia della Grismondi contiene già in sé entrambi i filoni sviluppati dall’analisi dell’autore, giacché si tratta di un tentativo di uso del tribunale inquisitoriale a scopo di vendetta privata, su cui intervennero le autorità centrali del Sant’Ufficio. Resta tuttavia il fatto che la cortigiana venne accusata di sortilegi amorosi e di pratiche magiche in cui la presenza del demonio era molto consistente, come si ricava dalle numerose deposizioni a suo carico:

La sudetta Marina, o sia Teresia – disse infatti una testimone il 7 dicembre 1676 – m’haveva detto, che haveva veduto molti diavoli in tempo di notte nella sua stanza i quali venivano giù per il Camino, ò fuga, i quali demoni erano vestiti di cremesino, et che ballavano per la medesima stanza, et che andavano a torno al suo letto mentre che dormiva, et che si risvegliava, i quali gli sputavano nella faccia, et nel volto; et disse detta Marina che gli haveva veduti da tre, ò quattro volte in tempo di mezza notte (p. 53).

Leggendo queste parole, benché si tratti di descrizioni tutt’altro che rare nelle fonti dell’inquisizione romana, non si può fare a meno di pensare, ancora una volta, che accuse di quel genere avrebbero avuto conseguenze ben più rilevanti, in altri tempi e (soprattutto) in altri luoghi. Dalle pratiche magiche si cui era accusata Maria Teresia, lo sguardo si allarga fino a un’analisi e a un tentativo di classificazione di tutto l’universo dei “sortilegi” attestati nei processi inquisitoriali (pp. 71-101). Benché ogni operazione di questo genere presti il fianco a critiche – a partire dalla constatazione elementare ma sempre valida che il repertorio stesso degli oggetti da analizzare è selezionato all’origine da un’istituzione giudiziaria – il criterio di classificazione adottato da D’Errico si pone su un piano più solido rispetto a tante altre descrizioni che si sono limitate a prendere in considerazione le finalità degli incantesimi. Questi ultimi, infatti, vengono suddivisi in cinque grandi gruppi, in base a un criterio che possiamo chiamare “performativo”: 1) quelli che impiegavano soltanto la parola, orale o scritta; 2) quelli che prevedevano l’uso di parole e gesti assieme; 3) quelli basati sulla corporeità; 4) quelli che utilizzavano utensili e sostanze di vario genere, benché poi con il quinto e ultimo gruppo, quello delle “pratiche divinatorie”, l’autore ritorni alla classificazione più tradizionale. Si tratta comunque di un repertorio in cui, accanto a formule e pratiche diffusissime nello spazio e nel tempo, non mancano peculiarità su cui poteva essere interessante avere qualche informazione supplementare, come ad esempio la presenza di un non altrimenti noto “cavallo di Feraonte” nelle formule di invocazione (cfr. pp. 74 e 79). Anche lo spazio che l’autore giustamente dedica alle protagoniste di questa storia di “superstizioni amorose” rientra nell’ambito della storia socio-antropologica. Esse provengono per la maggior parte – non certamente per caso – dal mondo della prostituzione. Si tratta in questo caso di una caratteristica di cui le istituzioni dell’epoca erano perfettamente consapevoli, tanto che le varie “prattiche” inquisitoriali seicentesche – un genere ormai ben noto agli studiosi, dopo i pionieristici studi di John Tedeschi e poi di tanti altri – avevano rubriche espressamente dedicate alle meretrici (p. 120). a leggere tra le righe del volume a volte si ha la sensazione che la repressione dei sortilegi ad amorem potesse venire usato come un grimaldello per intervenire non solo sul mondo del meretricio vero e proprio, bensì anche sulle situazioni-limite come i rapporti di concubinato e in genere sui rapporti amorosi illeciti: un fenomeno che, in una città piena di studenti, di chierici e di prostitute, correva costantemente il rischio di sfuggire dalle mani delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche. Questa, almeno, potrebbe essere una delle chiavi di lettura della lunghissima vicenda del “serraglio in forma di ergastolo”, richiesto fin dal 1611 dall’inquisitore di bologna al Senato cittadino e costruito soltanto nel 1670 (cfr. p. 56). Indagare più a fondo su storie come quella potrebbe fornire, credo, una nuova chiave di lettura per interpretare il retroterra della (vera o presunta) “modernità” dell’Inquisizione romana nell’adottare la carcerazione come alternativa alle altre pene corporali o all’esilio. Queste ultime considerazioni ci spingono verso l’altro filo conduttore del volume di D’Errico, quello storico-istituzionale, che, anche solo dal punto di vista strettamente quantitativo, risulta dominante. In estrema sintesi – e compiendo una lettura non lineare rispetto all’andamento del libro – possiamo dire che all’interno di questo vasto campo d’indagine gli ambiti principali sono tre. Il primo riguarda in generale il governo della Chiesa (e dello Stato della Chiesa) e, più in particolare, il ruolo dell’inquisizione in tale contesto. Da tutto il volume emerge un quadro composito, ma in cui le istituzioni della legazione, quelle della diocesi e quelle del Sant’Ufficio, benché non mancassero le occasioni di conflitto (opportunamente evidenziate dall’analisi dell’autore), si integravano molto bene sotto la supervisione delle autorità romane.

Il secondo tema è fortemente legato al precedente e ha alle spalle una solida tradizione storiografica, in particolar modo per quel che riguarda Bologna e la sua collocazione nei territori papali: si tratta del rapporto tra centro e periferia. Un rapporto che si misura innanzitutto sulle fonti – prime fra tutte, in questo caso, quelle prodotte dal Sant’Ufficio romano, rese disponibili agli studiosi dal 1998. Sono proprio queste fonti che consentono di far luce su vicende conosciute da tempo, ma che finora non erano note nei dettagli, come la fuga dalle carceri bolognesi del giudaizzante Emanuele Passarini (o Giuda Vega, pp. 135-157). Ma il rapporto centro-periferia è anche una delle chiavi di lettura privilegiate per la storia delle inquisizioni moderne. Proprio da questa prospettiva emergono alcune tra le novità più rilevanti che è possibile ricavare dalla lettura del volume di D’Errico.

Un’analisi quantitativa dei reati perseguiti dagli inquisitori a livello locale nel XVII secolo fa emergere nettamente ai primi due posti i “sortilegi” e la blasfemia. I calcoli effettuati, per quanto a volte le categorie usate per la definizione dei comportamenti sanzionati non siano perfettamente omogenee, non lasciano alcun dubbio (pp. 158-160). Si tratta del resto di una caratteristica ampiamente nota a tutti gli studiosi dell’Inquisizione romana. Ciò che invece emerge in modo inatteso è il punto di vista delle autorità romane sulla situazione locale, illustrato attraverso una serie complessa ed elaborata di tabelle che rappresentano le sedute in cui la Congregazione del Sant’Ufficio discusse i casi trasmessi dall’inquisitore di Bologna (pp. 161-180). Dire che le priorità delle autorità romane erano diverse rispetto a quelle dei loro commissari locali è in larga misura un understatement. In realtà, a quanto pare, le cause bolognesi che giungevano fino al tavolo della Congregazione erano una ristretta minoranza rispetto a quelle di cui l’inquisitore si occupava. Non solo: quelle che, oltre a giungervi, venivano discusse in modo significativo, erano ancora meno. Se poi si va a verificare quali fossero le vicende trattate più a lungo dalla Congregazione, si scopre che l’interesse delle autorità romane raggiungeva il picco massimo di intensità quando si trattava di reati che coinvolgevano il tribunale bolognese e i suoi membri, sia come oggetto che come soggetto di comportamenti illeciti. A scorrere queste fonti – benché la prudenza, data la relativamente scarsa rilevanza quantitativa del materiale analizzato, sia d’obbligo – sembrerebbe dunque che l’immagine a suo tempo abbozzata da John Tedeschi sull’Inquisizione nel tardo Seicento sia sostanzialmente corretta: un organismo burocratico molto autoreferenziale e preoccupato soltanto dal proprio corretto funzionamento, che qualche volta rischiava persino di dimenticare la ragione della sua stessa esistenza. Questa è l’impressione che si ricava anche dalla completa assenza dalle fonti romane di una vicenda dai notevoli echi libertini e “ateistici” come quella di Giovanni Battista Gardi, di estremo interesse per la storia della cultura italiana del tardo Seicento (pp. 182-189). Collocare questi silenzi nel quadro dei rapporti centro-periferia significa comunque anche ripensare il margine di libertà che, entro certi limiti, avevano gli inquisitori locali nei confronti della Congregazione. Come ha rilevato più volte Andrea Del Col anche nel corso di questi incontri, era infatti quest’ultima che dipendeva dai propri commissari per quanto riguardava le conoscenze sull’ortodossia religiosa negli Stati italiani (incluso lo stesso Stato della Chiesa). Se un inquisitore per un qualsiasi motivo decideva di non informare i suoi corrispondenti romani su un’indagine in corso, la Congregazione molto semplicemente non ne veniva a conoscenza – almeno finché non fosse arrivato il momento di prendere decisioni importanti.

Il terzo ambito storico-istituzionale preso in considerazione da D’Errico riguarda un altro tema fondamentale e molto discusso dalla storiografia: il rapporto tra vescovi e inquisitori. A questo proposito, le fondamentali osservazioni che Adriano Prosperi faceva in Tribunali della coscienza sul carattere in qualche modo “provvisorio” che contrassegnò sempre le strutture dell’inquisizione romana nei confronti di quelle diocesane, ben più solide e durature, sembrano valere anche per la realtà bolognese tardo-seicentesca analizzata dall’autore. Gli arcivescovi di Bologna, oltre a essere molto attivi in generale, tentarono spesso di scavalcare il Sant’Ufficio sul suo stesso terreno. La vicenda dell’editto di fede emanato dal vescovo Giacomo Boncompagni nell’ambito del sinodo diocesano del 1698 è estremamente significativa a questo proposito (pp. 228-236).

Chiudono il volume un capitolo dedicato alla ricostruzione biografica di alcuni tra i protagonisti della vicenda giudiziaria da cui era partita la narrazione e un’appendice iconografica di estremo interesse, con fotografie dei locali dell’inquisizione all’interno del convento di San Domenico di Bologna. Malgrado la sua struttura composita e alcune rigidità nei raccordi tra le diverse parti, il libro di D’Errico porta nuove conoscenze e nuovi materiali per la storia dell’Inquisizione nel Seicento, in particolar modo per quel che riguarda i rapporti tra Congregazione del Sant’Ufficio e tribunali locali. Guido Dall’Olio