Paul Ricoeur, Ermeneutica delle migrazioni, Saggi, Discorsi, Contributi, a cura di Renato Boccali, Mimesis, 2013



Abstract:

Ermeneutica delle migrazioni restituisce al lettore l’immagine già nota di Paul Ricoeur pensatore dell’alterità, qui declinata nella veste molteplice e tragicamente umana della migrazione. La migrazione come condizione antropologica, esperienza di trasformazione insieme interna ed esterna, testimonianza soggettiva di movimento inter-soggettivo, giustifica dunque il fatto che di essa, di questa fuoriuscita dai confini vari e variabili di ciò che ciascuno sente come il “proprio”, possa darsi solo una comprensione mediata, risultato di un procedere attraverso passaggi, dunque una ermeneutica.

Ermeneutica delle migrazioni restituisce al lettore l’immagine già nota di Paul Ricoeur pensatore dell’alterità, qui declinata nella veste molteplice e tragicamente umana della migrazione. La migrazione come condizione antropologica, esperienza di trasformazione insieme interna ed esterna, testimonianza soggettiva di movimento inter-soggettivo, giustifica dunque il fatto che di essa, di questa fuoriuscita dai confini vari e variabili di ciò che ciascuno sente come il “proprio”, possa darsi solo una comprensione mediata, risultato di un procedere attraverso passaggi, dunque una ermeneutica.

Il libro è una raccolta, di cui talvolta si fatica ad individuare il filo conduttore a causa della quantità di questioni affrontate, di otto di questi detours, scelti tra saggi, articoli di giornale, interviste, relazioni per convegni, tutti appartenenti all’ultimo quindicennio della produzione filosofica ricoeuriana. Si tratta dunque di scritti che accompagnano, nella forma di possibili corollari, i grandi testi elaborati nello stesso periodo nei quali centrale, sebbene in riferimento a diversi nuclei tematici, appare la ricerca di una comprensione del sé attraverso l’incontro con l’altro; di questo Altro l’ermeneutica ricoeuriana sembra volta a cercare o, meglio, a recuperare una progressiva concretizzazione, unica condizione perché l’incontro auspicato non sia il frutto di un esperimento idealistico, ma piuttosto di un reale e vissuto scontro tra soggettività somigliantesi ma anche e soprattutto straniere l’una all’altra.

L’andamento del testo, qui il merito del curatore nella scelta dell’ordine di composizione delle parti, riflette un procedere a ritroso che interroga il concetto stesso di estraneità come condizione del “migrante”; in questo movimento accade però, o forse proprio in ragione della natura stessa dell’interrogare, che il punto di approdo coincida in un certo modo con il punto di partenza: dall’estraneità come ciò che identifica lo straniero, all’estraneità come condizione interna e strutturale dell’identità stessa. “I fenomeni migratori danno da pensare” (p.24): si tratta dunque, come di consueto accade nel movimento interpretativo, di esplicitare la trama nascosta dietro ciò che è detto immediatamente.

Molteplici i volti di ciò che comunemente intendiamo per migrante: dal visitatore occasionale, beneficiario di un pacifico diritto all’ospitalità, al rifugiato, protagonista di una vicenda in cui il diritto alla protezione incontra, spesso problematicamente, il dovere d’asilo da parte del paese di accoglienza, problematicità che rende sempre auspicabile perché mai definitivamente compiuto il kantiano “progetto di pace perpetua” all’interno del quale proprio “l’ospitalità universale” gioca un ruolo determinante; esiste poi lo status intermedio del guest-worker, di colui che, mosso dalle necessità della vita ordinaria, è lavoratore ma non cittadino e dunque protagonista attivo della vita economica, ma utilizzatore passivo di un potere politico non scelto. Ad accomunare queste figure è la medesima non-inclusione, definita dunque per vita negativa, rispetto a ciò che, al contrario, si afferma positivamente in quel sentimento di “appartenenza” ad un corpo territoriale e giuridico-politico, in cui ciascun “membro” dimora sicuro. Di questa appartenenza che immediatamente sembra inquestionabile, “anche se non sappiamo chi siamo, si presume che sappiamo a cosa apparteniamo” (p.29), la fenomenologia ermeneutica rivela la natura di protezione fittizia, rassicurante contenitore nel quale ciascuno ripone la propria identità allo scopo di neutralizzare il pericolo che costantemente la minaccia, quello cioè della incapacità dell’identità stessa a definirsi una volta per tutte.

Il passaggio che si consegna alla riflessione è dunque quello che dall’indagine dell’etrangeté dello straniero, muove verso l’analisi dello straniero che ciascuno è rispetto a sé e all’altro, alla frammentazione cui l’identità singola prima che collettiva è irrimediabilmente esposta; è in questo passaggio che si conferma quel tratto tipico del filosofare di Ricoeur, sempre teso a riportare l’apparente contingenza del campo dell’azione inter-soggettiva alla fragilità costitutiva di chi agisce, di colui che precede e proprio per questo può trasformare il modo dell’incontro con gli altri. È la memoria a costituire l’elemento di salvezza: Ricoeur ci invita a ripetere nel presente il ricordo biblico dell’Esodo, raccontato in Levitico, nel quale l’esilio si rivela come condizione originaria. La ripresa della storia biblica, esempio simbolico per eccellenza del migrare, non conduce però ad una sorta di estraneità infinita e alla sterile prospettiva di un esilio dal quale non c’è alcun ritorno, ma al contrario è la via verso l’ ospitalità: dobbiamo elaborare l’esperienza dell’esser già sempre stati stranieri per aprire lo spazio mutuale di un possibile ed eticamente fondato “abitare insieme”, nel quale la condivisione del proprio avvenga sulla base del riconoscimento di ciò che nella condizione dell’altro vi è di simile alla nostra.

L’ospitalità come accoglimento dell’estraneo e rottura del cerchio chiuso dell’appartenenza non equivale ad un modello di astratta uguaglianza in cui tutte le distinzioni si annullano: l’ “ideologia della differenza” è insensata quanto una “isteria identitaria” (p.35). Questo un punto interessante dell’argomentazione di Ricoeur: “la pluralità umana è un dato invalicabile” (p.44) e laddove esiste pluralità, si potrebbe aggiungere, il conflitto è insuperabile. Quale dunque il ruolo della riflessione, rispetto ad una conflittualità che necessariamente appartiene alla vita di ciascuna comunità, intesa come incontro tra diversi? La risposta che attraversa il testo prefigura la possibilità di un accoglimento che fondi il sentimento stesso dell’appartenenza, nel quale cioè la relazione all’estraneo emerga come strutturale.

Una tale situazione è visibile in misura maggiore quando dalla comunità si passa al singolo, quando cioè l’alterità diviene intima e l’estraneità si radicalizza. L’intenzione della quinta parte, che rappresenta uno spartiacque ideale tra una riflessione di ordine pratico-politico ed una più specificatamente teoretica, è quella di intrecciare una fenomenologia ermeneutica dell’estraneo con i generi platonici dello stesso e dell’altro e con il discorso aristotelico relativo all’essere come atto e potenza: la comprensione ermeneutica si riappropria di questi ultimi utilizzandoli nei termini di meta-categorie, come era stato già detto in Sé come un altro. Il risultato raggiunto attraverso questa sottile e complessa argomentazione, è il rivelarsi di una soggettività carnale e per questo innanzitutto passiva. L’estraneità “vista dall’interno” introduce una dimensione di non-potere che contamina ogni esperienza di affermazione della propria identità: è ciò che accade nella psicoanalisi freudiana che, da questo momento in poi, non smetterà di costituire per l’autore un riferimento privilegiato. Il concetto freudiano di Unheimliche, indice di quella strana situazione in cui è proprio la dimensione del sentirsi “a casa propria” (heimlich) a rivelarsi affetta da una perturbante estraneità, funge dunque da paradigma dell’alterità interiorizzata: l’inconscio freudiano è a questo proposito il luogo della “parola interdetta” e della “incapacità di raccontare” (p.73) che assume però valore trasformativo e non distruttivo dell’identità stessa.

Il tema della memoria, che ritorna come centrale nella settima parte, costituisce un’altra via per pensare la relazione tra identità ed estraneità, perché ancora una volta si tratta di un’esperienza fondante tanto la vita del soggetto quanti quella delle comunità. Sebbene “la nostra memoria è da sempre mescolata a quella degli altri” (p.82), è la memoria individuale a costituire, agli occhi di Ricoeur lettore di Freud, ciò che rende fragile ogni tentativo di appropriazione totale da parte dell’io del tempo della propria vita, laddove la possibilità del ricordo risulta legata ad un esercizio di elaborazione nel quale il ruolo della perdita, e dunque dell’oblio come elemento che introduce differenza ed estraneità, è assolutamente centrale. Se la fragilità dell’identità è attestata al livello temporale dal caso della memoria, un secondo aspetto è costituito dal naturale sentire l’altro come una minaccia, già visibile al livello puramente biologico della risposta immunitaria di fronte all’insediarsi di un intruso. Che l’altro sia oggetto di paura, è cosa naturale: lungi dal negare il timore, risulta più utile operare in direzione di una collocazione di questo sentimento a partire dal modello inclusivo per eccellenza, la traduzione, “miracolo” (p.103) dell’ospitalità, nella cui trattazione, non a caso, culmina efficacemente tutto il discorso di Ricoeur.

Ciò che la traduzione realizza, partendo dal presupposto della non estraneità totale delle lingue tra loro, è un “fenomeno di equivalenza senza identità” (p.103), un equilibrio unico tra il sé e l’altro, in cui la ricerca di unità, intesa qui come possibilità comunicativa e dunque culturale, non rinuncia alla pluralità di partenza ma se ne fa al contrario portavoce. Se da un lato non esiste un’ assoluta intraducibilità, è altrettanto vano invocare l’ideale di una traduzione perfetta: in questa simmetria consiste quella che altrove Ricoeur ha definito la “felicità” del tradurre come compito aperto e dunque infinito consegnato all’umanità, dal quale Ermeneutica delle migrazioni suggerisce di ricavare un modello valido dell’incontro tra culture.