Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus


Abstract: Stiamo davvero vivendo un tempo “speciale”, un passaggio d’epoca, una condizione che per la sua straordinarietà verrà – come si suol dire – ricordata nei libri di storia?
Cos’è un’epidemia? Che forme hanno lo spazio e il tempo in una condizione di “quarantena”, di “clausura”?
Come si vive, si lavora, si studia e si scrive, come ci si muove entro confini imposti?
Come cambia la percezione dei bisogni e della necessità, della salute e della malattia, delle libertà individuali e della responsabilità collettiva di fronte al rischio – alla paura – del contagio e alla consapevolezza della eccezionalità?

In questo spazio, in un momento così particolare, per una volta, vorremmo fare una cosa forse insolita per una rivista di storia: osservare il tempo attuale e i fenomeni che lo segnano attraverso sguardi obliqui e non per forza convergenti, allontanando e ravvicinando il punto di osservazione, condividendo interpretazioni, letture, esperienze e questioni di metodo che possano contribuire a riportare le inquietudini e le sollecitazioni del presente sul piano del confronto delle idee.

Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus

La valutazione, i numeri e il distanziamento sociale

di Marco Albertoni

Il 27 marzo 2020 mi sono laureato in Scienze storiche e del documento. Si è trattato di un percorso insolito in tutto e per tutto. Non soltanto perché quando mi sono iscritto avevo già conseguito da tempo (in un altro ateneo) una prima laurea magistrale in Scienze politiche e un dottorato di ricerca in Storia dell’Europa, ma anche perché, a causa del Covid-19, si è concluso con una tesi discussa in videoconferenza.

Dopo la prima settimana di marzo, mentre le misure governative per contenere il virus si facevano più stringenti, ho capito che non ci sarebbero state alternative: la discussione sarebbe avvenuta a distanza. Ciò mi ha portato a calcolare che cosa avrebbe comportato questa strana formula. Ho pensato che sul piano formale non sarebbe cambiato molto, ma certamente qualcosa sul piano pratico. Oltre a non poter guardare i commissari negli occhi, non avrei potuto far stampare e rilegare la tesi. Lo farò in seguito per pura soddisfazione, mi sono detto: in fondo, a parte relatore, correlatore, e forse qualche parente mosso da orgoglio, chi legge più una tesi di laurea? Mentre queste idee prendevano forma, mi è tornato in mente un pezzo di Giorgio Manganelli del 1977, raccolto poi in Mammifero Italiano, nel quale egli definiva tutto quello che ruota attorno a una tesi di laurea – dalla scrittura alla discussione – un «puro fatto allucinatorio; un cerimoniale in senso psichiatrico». Nonostante ciò, quando ho dovuto scrivere la quarta tesi mi sono impegnato almeno quanto nelle precedenti tre occasioni.

Nei due anni di studio e di esami ero riuscito a tenere una media di voti alta abbastanza da non temere che il voto di laurea potesse deludermi. La tesi era stata preparata scrupolosamente e con interesse. Il relatore era molto soddisfatto e si era complimentato mano a mano che gli avevo inviato i capitoli. Di che preoccuparsi allora? Nei giorni della reclusione domestica, in cui le notizie di morti e contagiati crescevano a un ritmo vertiginoso, la mia psiche ha iniziato a risentirne, esasperando quella tendenza al pensiero negativo che sovraccarica gli stati ansiosi. Mentre il giorno della discussione si avvicinava, ho iniziato a temere che qualche inconveniente tecnico, verosimilmente legato alla mia precaria rete internet, potesse mettere le cose di traverso, agitarmi e farmi commettere errori fatali, come uno studente alle prime armi.

L’inconveniente tecnico non c’è stato e tutto si è svolto con serietà e serenità. Tuttavia, quando hanno annunciato il voto, non mi sono sentito felice, ma sollevato. Sin dall’iscrizione avevo avuto la sensazione che, dopo un dottorato in storia, un 110 e lode per una laurea in storia fosse il punteggio minimo. Da lì ogni arretramento, anche il più lieve, avrebbe rappresentato un fallimento completo. Ho creduto che sarebbe stato come screditare tutto quanto fatto in precedenza. Eppure, quando ho compilato il piano di studi, ero ben conscio che il passo falso sarebbe potuto capitare. In fondo, per avere diritto a candidarmi a un concorso scolastico avevo inserito esami in discipline per me completamente nuove. E, del resto, neppure mi sarei potuto permettere di fare lo studente a tempo pieno. C’erano comunque i mille lavoretti da svolgere: quelli che consentono ai tanti che sono nelle mie stesse condizioni di galleggiare, pur annaspando, nella palude del precariato.

Nella ormai decennale esperienza da assistente di cattedra, pensavo di aver maturato definitivamente l’idea che il voto andrebbe relativizzato. Credo persino di aver detto ciò a qualche studente, cercando di sottolineare che l’importante era quello che aveva imparato criticamente. Ritenevo di aver maturato la consapevolezza che il voto è un numero astratto, talvolta ingannevole; che è frutto di un compromesso valutativo al quale non siamo stati ancora in grado di trovare alternative valide. E che è tanto più inutile in un paese nel quale nessun datore di lavoro credo chieda a un aspirante dipendente quanto ha preso in questo o in quell’esame per decidere se assumerlo. Men che mai in ambito umanistico. Ma poi sono tornato studente e, nonostante tutto, ho subìto l’ansia del voto come da statuto. Perché non sono stato in grado di rimanere lucido e coerente? In termini assoluti, perché il nostro sistema si fonda sui numeri e, in generale, quando qualcosa gli sfugge creando palesi contraddizioni, anziché provare a cambiare strategia di analisi, cerca la soluzione nell’ipertrofia del dettaglio. Il che mi sembra possa funzionare solo in certi ambiti, non certo in tutti. Discorsi che ricordano in qualche misura le critiche che vengono mosse all’inadeguatezza di indicatori economici come il prodotto interno lordo di un paese. In secondo luogo, non sono riuscito a rimanere coerente perché persino nel ramo umanistico, dove il datore di lavoro è una figura mitologica, e nel quale è perlopiù il settore pubblico a dare qualche opportunità, ci si abbandona pienamente al (comodo) dominio dei numeri anziché sfruttarne l’utilità in maniera più accorta. Il che non sarebbe drammatico se la ratio quantitativa non finisse sovente per andare a discapito di quella qualitativa. Se – come si dice spesso – più che a trasmettere nozioni, insegnare materie umanistiche dovrebbe servire a far sviluppare il senso critico, e se questo si coltiva anche col dubbio, non si capisce perché dovremmo continuare a valutare studenti (e aspiranti docenti) per mezzo di cifre che vorrebbero offrire certezze. In nome di parametri illusoriamente equi e che inconsciamente continuiamo a supporre faranno la differenza, ci ostiniamo a inseguire il merito cercando di prendere al lazzo una chimera.

E così – parlando soltanto del ramo umanistico – ci ritroviamo bloccati in un sistema che a me sembra palesemente inadeguato ai tempi: con i voti (in trentesimi, in centodecimi), con i numeri di crediti e i libri da studiare in base al quantitativo di pagine, il 3+2, la penalità per gli anni fuori corso, ecc.

Non va meglio con i concorsi. Per vincerne servono punti, che si accumulano in vario modo. Più pubblicazioni equivalgono spesso a un maggior punteggio. Una pessima monografia varrà di più di un eccellente articolo in rivista. E più monografie mediocri valgono di solito di più di una ottima. Il che implica un’evidente corsa al torchio con inevitabile inabissamento della qualità media. Per non parlare del fatto che per pubblicare libri – non è così per gli articoli su rivista, per fortuna (sebbene anche lì non manchino clamorose storture) – si è spesso costretti a spendere molti soldi. Ne consegue un evidente squilibrio tra chi può e vuole investire e chi no. Dopodiché ci sarebbe da dilungarsi sulla follia degli indicatori d’impatto che conteggiano acriticamente le citazioni, causando un danno incalcolabile alla ricerca stessa e all’innovazione, ma non è questa la sede per farlo.

Se è capitato a me che non ho molti anni di esperienza alle spalle, sarà capitato anche a vari docenti di storia di essersi trovati occasionalmente di fronte a studenti con ottima memoria, ma palesemente privi di capacità critiche e quindi incapaci di mettere a frutto le informazioni immagazzinate. Dei computer umani ai quali per ricalibrare la temibile lancetta del voto è bastato fare una domanda che non avesse risposte giuste o sbagliate, ma richiedesse semplicemente un ragionamento autonomo. E forse lo studente avrà in seguito protestato perché sicuro di aver risposto “bene” a tutto.

Nonostante queste idee, mentre mi laureavo di nuovo mi è stato impossibile evitare di pensare che sarebbe bastata l’assenza della lode per fissare un fallimento totale.

In quella strana situazione nella quale la microcamera entrava nelle case dei docenti, anche loro immersi nei problemi del momento e non sempre possibilitati a sfoggiare la libreria “d’ordinanza” alle spalle, tutto è diventato più umano e la paura dell’imprevisto si è placata. Soprattutto ho avuto nuova conferma dell’elevata qualità media dei dipendenti delle nostre università (docenti e tecnici), anchilosate soprattutto dalla burocrazia. Professionisti al servizio dello Stato chiamati oggi a uno sforzo sovrumano che andrebbe tuttavia meglio coordinato, e le cui singole esperienze andrebbero discusse senza timore come investimento per il futuro.

Terminata la videochiamata, sono riuscito a liberarmi dall’imbarazzante registrazione circolata in quegli stessi giorni tra studenti e docenti universitari: una sessione di laurea telematica nella quale un incauto candidato dimentica di disattivare il microfono e insulta gli annoiati commissari per il modesto voto di laurea (in storia) assegnatogli. E l’augurio è che quella diventi al più presto una fotografia deteriore dell’università italiana prima che il Coronavirus la spronasse a migliorarsi.

Il settore accademico umanistico in particolare, avviluppato ormai da svariati anni in molti problemi, ad oggi è destinato a soccombere di fronte alle conseguenze di questa emergenza. Chi ne fa parte ha però un’opportunità: potrà scegliere di continuare a ristagnare nella palude fino ad affogare inesorabilmente, o invece potrà cogliere l’occasione del cambio epocale che si sta innescando per provare a sperimentare come recidere una serie di nodi e di contraddizioni che ne peggiorano i problemi. E magari pensare persino a questa sperimentazione come una via per il rilancio. Un rilancio che tuttavia sarebbe un errore fatale immaginare imperniato esclusivamente sulle tecnologie che oggi consentono la didattica a distanza.

A prescindere dalla magnitudo del sisma che il Covid-19 causerà all’economia, i sociologi del lavoro avvertono da tempo che dopo la crisi partita nel 2008 (e in certi settori mai esauritasi) ne arriverà un’altra indotta dalle tecnologie robotiche e dall’automazione. Le macchine, i processori, i dati e le reti renderanno inutile la professione di tanti lavoratori che oggi ringraziamo per il servizio che stanno svolgendo durante l’emergenza. Tra questi: cassieri, operai a bassa specializzazione, autisti e lavoratori della logistica, solo per citarne alcuni. Costoro sono i genitori di ragazzi che non potranno più permettersi di andare all’università, neppure con le agevolazioni per le fasce meno abbienti che il nostro sistema già applica (e che chissà se riuscirà a continuare ad applicare). A ciò si aggiungeranno gli imprevedibili cambiamenti causati prima da questa pandemia, poi dal timore che ne inizino altre. Nostre paure più che legittime, ma che purtroppo aggraveranno le sperequazioni sociali, rafforzando ulteriormente le multinazionali e la privatizzazione dei servizi.

Una volta alle spalle, il dramma della pandemia avrà lasciato una vistosa cicatrice. Da una parte incoraggerà ulteriormente l’automazione robotica, e dall’altra porrà ancora più in cima alla lista delle gerarchie economiche e occupazionali dei governi i lavori caratterizzati da una evidente dose di pragmatismo. Sarà sempre più indiscutibile che la priorità sarà quella di avere in primis bravi medici, bravi infermieri e bravi scienziati. Poi informatici capaci, tecnici specializzati di vario tipo, via via scendendo fino in fondo alla lista, dove – solo alla base – troveremo dei bravi docenti di materie umanistiche. Ne consegue che le risorse per il settore diminuiranno ulteriormente. E questo perché la brutale concretezza del virus avrà lasciato ai docenti un’ulteriore pesante eredità: renderà ancora più difficile dimostrare tangibilmente che la cultura e il sapere critico sono indispensabili a una società, indipendentemente dal profitto economico che sono in grado di generare. Se non si tenterà di reagire da subito, sarà ancor più arduo dimostrare a un mondo sempre più spaventato da problemi concreti che le menti abituate a ragionare di storia, letteratura, arte, geografia, sociologia, psicologia, filosofia e quant’altro possono essere utili alla collettività. Anche per gestire situazioni come quella che tutti viviamo: coadiuvando la scienza a ragionare di scenari alternativi e possibili soluzioni; nonché restituendo il giusto valore all’incalcolabile.

Sono temi enormi, che chiedono una certa capacità d’immaginazione e coraggio, anche solo per provare a discuterne. Ma il quadro che abbiamo di fronte induce a credere che sia davvero giunto il tempo di fondare un’alleanza tra docenti e discenti, per salvare il futuro di entrambi. Perché senza futuro, la scuola e l’università non hanno più ragione di esistere e di svolgere il loro ruolo formativo già da oggi.

Nell’ambiente accademico umanistico, l’unica certezza è che le difficoltà saranno ancora maggiori di quelle degli ultimi quindici anni. Senza uno Stato in grado di offrire finanziamenti adeguati e senza un elevato numero di iscritti paganti, i dipartimenti soccomberanno definitivamente, a prescindere dalle risposte che si troveranno per far fronte al problema del momento. La soluzione non sarà quella di continuare la suicida asta al ribasso che rende gli esami sempre più facili per non subire il calo di iscritti. Né sarà quella d’iniziare a fare concorrenza alle università telematiche provando a cavalcare il distanziamento sociale. Piuttosto, credo che dovrebbe essere cercata attraverso uno stravolgimento – progressivo ma radicale – delle regole del gioco nel settore. Un cambiamento messo in atto dai docenti in autonomia, per quel che è consentito fare, in attesa che il Parlamento, coi suoi tempi e le sue divisioni, approvi delle riforme (auspicabilmente dei cicli scolastici e di quelli universitari, e dell’accesso all’insegnamento in entrambi gli ambienti, tra le altre cose).

Mentre le istituzioni sono costrette dall’emergenza a lasciar scivolare questi problemi in fondo alla lista delle priorità, cosa possono fare dunque i docenti (universitari e scolastici) in questi mesi nei quali si trovano a dover valutare gli studenti a distanza, con tutti i problemi pratici e i rischi che ciò comporta? I docenti universitari, che rispetto agli insegnanti scolastici hanno garantita una maggiore autonomia d’insegnamento (nella scelta dei programmi d’esame, delle modalità della didattica e della valutazione), potrebbero forse essere i primi a discutere tra loro di prove d’esame a distanza, per cominciare. Un primo passo per arrivare in futuro a proporre anche modalità di valutazione che abbandonino, progressivamente e laddove opportuno, sia la tradizionale interrogazione, sia il metro numerico per valutarla. Resta sottinteso che non è in questo momento né in modo autonomo che si potranno lasciare da parte i trentesimi. Ma andranno intanto sperimentate nuove forme d’esame, e soprattutto andranno condivisi errori, problemi e fallimenti tanto quanto esperienze positive. Un primo passo che tenti d’innescare e agevolare dal basso una discussione incentrata su problemi concreti e soprattutto condotta da chi li affronta in prima persona.

Il Covid-19 ha costretto i docenti di ogni ordine e grado a ripensare in pochissimo tempo a soluzioni rapide per far fronte all’emergenza. Se questa fosse esplosa al tempo della mia prima laurea magistrale, dieci anni fa, tutto sarebbe stato semplicemente rimandato sine die. Più in generale non ci sarebbero state lezioni, esami, ricevimento studenti, e il blocco sarebbe stato pressoché totale. Oggi, con tutti i limiti e le differenziazioni del caso, i mezzi tecnici stanno spingendo il mondo dell’insegnamento a trovare rimedi immediati. E tra mille problemi e difficoltà, scuola e università stanno facendo la loro parte per resistere.

È il tempo che a partire da ciò si esca dallo stato mentale dall’emergenza del presente per iniziare a ripensare il futuro dell’università nel medio e nel lungo periodo. È il momento di mettere sul tavolo della discussione idee coraggiose, anche se ad oggi ci paiono inverosimili. Va ponderato oggi come generare un rimbalzo dalla caduta attesa. E va discusso adesso quale traiettoria vorremo dare a questo auspicabile rimbalzo. Si dovrà parlare di metodi e di alternative, chiamando le parti direttamente coinvolte ad esprimersi e condividere esperienze concrete, sia pur al prezzo di prevedibili e accanite divisioni.

I mesi che ci separano dalle prossime due sessioni di esami – nelle quali prevedibilmente la modalità a distanza sarà ancora necessaria – saranno utili a ragionare sulla sperimentazione di formule diverse da quella tradizionale; nonché a discuterne materia per materia e in proporzione alla mole di esaminati. Non bisogna illudersi che replicare in video quanto avveniva in presenza sarà tutto sommato facile come è stato per le videosessioni di laurea, dove si è discusso, alla fine di un percorso pluriennale, di un elaborato prodotto dal candidato. Tentare di far fronte provvisoriamente al problema attendendo che le cose tornino a regime, sarebbe un’occasione persa, oltre che un’illusione.

 

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La valutazione a distanza, foto di Marco Albertoni