Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus


Abstract: Stiamo davvero vivendo un tempo “speciale”, un passaggio d’epoca, una condizione che per la sua straordinarietà verrà – come si suol dire – ricordata nei libri di storia?
Cos’è un’epidemia? Che forme hanno lo spazio e il tempo in una condizione di “quarantena”, di “clausura”?
Come si vive, si lavora, si studia e si scrive, come ci si muove entro confini imposti?
Come cambia la percezione dei bisogni e della necessità, della salute e della malattia, delle libertà individuali e della responsabilità collettiva di fronte al rischio – alla paura – del contagio e alla consapevolezza della eccezionalità?

In questo spazio, in un momento così particolare, per una volta, vorremmo fare una cosa forse insolita per una rivista di storia: osservare il tempo attuale e i fenomeni che lo segnano attraverso sguardi obliqui e non per forza convergenti, allontanando e ravvicinando il punto di osservazione, condividendo interpretazioni, letture, esperienze e questioni di metodo che possano contribuire a riportare le inquietudini e le sollecitazioni del presente sul piano del confronto delle idee.

Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus

Natura malata

di Francesco Saverio Trincia

Perché mai, mi sono chiesto, privo come sono di una qualche ispirazione storiografica e capace al massimo di qualche considerazione liberamente pensata, a fronte della pandemia da coronavirus, perché mai non la paura (di ammalarsi e morire), né la ‘speranza disperata’ (di cavarmela comunque, rispettando le regole di pubblica prudenza sociale), né, ancor meno, la volontà di attivare i tanti stimoli provenienti dalla letteratura e dalla filosofia (per esempio dalla bioetica, ma non solo) che spingono a sottolineare l’intreccio creativo, spiritualizzante tra la malattia e il pensiero, sul modello di Thomas Mann: perché mai quasi nulla di tutto ciò resiste all’attivazione in me di reazioni? Perché quasi nulla mi ispira? La domanda, semplice e persino banale, comunque radicalmente, persino ferocemente, soggettiva non appare semplificante, sebbene (mi) lasci almeno all’inizio senza risposta. Tutto infatti si potrà dire, ma non che la pandemia non abbia spalancato, in Italia e nel mondo, un inedito baratro di angosce, di interrogativi, di commenti, di interpretazioni, insomma di risposte, che si sono intrecciati alle reazioni operative dei tanti coraggiosi operatori della sanità che lottano per non farsi sopraffare (e per non fare sopraffare noi) dal male omicida, anzi genocida. Perché, si potrebbe insistere, quel che constato in me sembra ridursi all’attonito stupore, che senza rinunciare a preoccuparsi della gravità dell’evento e senza chiudere i contatti con informazioni e commenti, osserva poi quasi in silenzio (il cuore che si stringe non parla, non comunica, ma soltanto appunto si stringe a difesa) quello che credo agevole definire il disastro sanitario, sociale, economico, ma anche psicologico, esito del dispiegarsi della natura malata?

Dirò subito che intendo lasciare la serie di domande che mi sono posto senza risposta perché sento, prima ancora di tentare una qualche argomentazione riflessa, che il silenzio della risposta che accompagna lo sguardo sul disastro che coinvolge insieme a me una parte rilevante dell’umanità, contiene un segnale importante, apre a riflessioni che non sono risposte, ma sono comunque reazioni significative. Come si presenta la scena problematica in cui ci stiamo, con prudenza e in silenzio addentrando? Si presenta come una scena che induce muto e addolorato stupore in chi, coinvolto, riconosce che la natura malata si presenta come oggetto di un rispetto ‘negativamente’ sacrale, che mentre attiva coloro che, in prima linea, tentano di combatterla, ospita tuttavia al suo interno una così forte resistenza a fornire un ‘senso’, un significato di sé, da lasciare la parola a coloro che non cercano un senso, ma attivano cure mediche, sperimentano vie di uscita di carattere scientifico, combattono il male, e si prendono cura dei tanti malati, di coloro che agiscono sul piano delle sperimentazioni mediche, di ciò che la scienza può offrire, e non sempre riesce ad offrire. In altri termini, termini che ricavo come quel che ho detto sinora dalla osservazione possibilmente fredda della mia personale reazione alla pandemia, la natura malata resta muta – e la principale forma della sua aggressività coincide – per chi si colloca fuori del piano pur ovviamente insostituibile dell’azione medica – con suo silenzio. Lo strazio e il dolore di fronte alla malattia e alla morte, alle tante morti, la paura che si spalanca (in me come in tanti) di fronte al vuoto di una possibile fine della vita e al disastro della vita associata, sono fronteggiati dal senso assente e minacciosamente silente della natura malata, che non regala risposte e chiede soltanto di essere riconosciuta come tale, sopportando e combattendo le sue ferite.

Che cosa propriamente configura questa situazione di dolore umano e silenzio della natura che si fronteggiano? Qui non ci confrontiamo affatto con una sorta di abissale insensatezza della natura malata che uccide, ciò che potrebbe fornire qualche spazio di consolazione, facendo declinare il nostro (il mio) destino come una forza cieca che bisogna riconoscere, seguire e persino assecondare limitando i lamenti, se non si vuole essere travolti e trascinati da essa. No. Qui piuttosto il silenzio della natura malata ci confronta con l’assenza e il mutismo di un senso che avvertiamo come presente, ma nascosto, restio a svelarsi, minacciosamente assente-presente, ma dunque poi, infine assente e muto, anche se allusivo ad una sorta di silenzio che ossimoricamente, parla, dice di sé. E sollecita dunque altre domande che si aprono per me, ormai garantite entro la chiusura dell’orizzonte che contiene e rapporta reciprocamente lutto dolore e morte umana, da una parte e silenzio della natura malata dall’altra. La natura malata attiva nella pandemia del coronavirus, osservo in primo luogo, è anche la mia natura, io le appartengo, anche se, per ora, soffro di altri mali ma non del virus. Io dunque mi vedo esposto alla malattia come migliaia di altri cittadini del mondo, perché la mia esposizione alla malattia come quelle di tutti gli altri è cosa della natura in cui sanità e malessere, lo star normalmente bene e l’anormalità patologica si intrecciano inestricabilmente fino alla morte facendo della natura malata non un eccezione ma una declinazione ‘normale’ della natura stessa, a cui capita di ammalarsi, di guarire essendo curata o di non guarire, lungo il filo sottile di una differenza variabile tra sanità e malattia che Sigmund Freud ha ben colto nel definire il rapporto della condizione psichica e della struttura psichica sottostante come tale da non isolare lo spazio di una patologia pura e definita per differenza non componibile. Mi chiedo: come potrebbe parlare a me e a tanti altri, potenzialmente tutti, membri del genere umano, sani e malati insieme, malati in quanto appartenenti alla natura anche quando non solo attualmente malati, una natura cui io appartengo e che non è tenuta a ‘dirmi’ di se stessa (escluso ovviamente quel che dice l’indagine medica che si muove sul piano e scientifico e non, come in quel che qui osserviamo, sul piano umano, morale, spirituale: ma in questo caso non è la natura che parla)? Essa mi contiene silenziosa e mi rende quindi appartenente in maniera virtuale alla malattia, o in forma attuale quanto questa si attiva, appunto perché io stesso sono natura e della natura.

Vivo circondato dalla pandemia come migliaia di miei simili, sono costretto ad accettarne i rischi che possono essere mortali e ad accettare le limitazioni che la legge eccezionalmente impone alla mia libertà di movimento. Vivo assediato dal timore del contagio. Ma tutto avviene senza che in me insorgano reazioni significative, atti comunque vitali, anche difensivi. Tutto avviene, per me, nel mio silenzio e nel mutismo della natura leopardianamente matrigna, indifferente, puro grumo di male e di sofferenza assegnata, destinata ai contagiati e a coloro che, più sfortunati, in tanti infine ci lasciano.

Ho parlato in prima persona, a partire da una riflessione su di me, mentre fronteggio – come mi accade di osservare dall’inizio del flagello del coronavirus – la natura malata e muta a cui non chiedo risposte, perché so che non ha senso rivolgerle domande, chiederle di pronunciarsi a favore di un aiuto, di una speranza e di un auspicio positivi anzitutto per me. Ho parlato in prima persona e continuo a farlo perché sento che tutto quello che nella mia anima, nella mia ragione, accade a causa della pandemia, passa attraverso me, è filtrato dal passaggio non evitabile attraverso la mia soggettività. So che non esistono in generale gli esseri umani, l’umanità che fronteggia il male, se ciò non avviene come esisto di una elaborazione soggettiva, del mio pensare gli altri, del farli essere come tanti alter ego (così si esprimerebbe Edmund Husserl), come tante declinazioni dell’alterità umana, presenti tra gli esseri umani che non sono io. E, paradossalmente, ma non troppo, se provo a radicalizzare l’immagine intorno a cui ho fatto girare le miei riflessioni (io stesso, nell’orizzonte della pandemia, di fronte alla natura malata e muta per me e per tutti, come presumo, silente, non ‘tenuta’ all’aiuto), avverto che questo stato di solitudine da cui osservo il disastro sullo sfondo della natura cui pure partecipo, segnala la presenza in me non un filo di speranza, ma di disperata forza di reazione. Lo avverto proprio perché non presuppongo l’esistenza degli altri, dei miei simili, malati, o minacciati dalla malattia o deceduti come accade a migliaia. Non presuppongo come fosse un dato originario che gli altri siano lì per me, motivo e strumento certo di aiuto. E dunque affido a me stesso l’emersione della forza che pur devo mettere in campo per reagire e avverto che essa è tanto maggiore, anche se baluginante, anche se presente-assente: una forza anche che ‘altri’ può darmi, certo, ma a patto che io stesso, io a partire da me, mi faccia ‘pilastro di me stesso’. Questo mi dico nei momenti di paura e di sconforto: “devi essere con la massima consapevolezza, ‘pilastro’ di te stesso, perché già lo sei, perché sei già dato a te stesso”, fornito di una forza che la natura malata e muta non possono cancellare. In un angolo della natura cui pure appartengo resiste la forza che proprio dalla mia originaria solitudine, dal mio venire prima del mio essere ‘con gli altri’, riesce faticosamente a fare capolino, lasciandomi bensì solo ma insieme alla mia forza, la parte ultima o prima di me, che non si accende originariamente insieme agli altri, ma è una sorta di originario morale attivabile solo da se stesso come una forma di assoluto darsi del reagire. Esso non tende, fin dall’inizio del disastro, la mano smarrita in cerca di un sostegno, spera bensì negli altri, ma non li prega affinché si facciano mio sostegno, evitamento del mio soccombere depressivo e ovviamente anche fisico, mentre la natura malata continua a mantenere aperti su di me i suoi occhi di ghiaccio, restando muta.

Sto forse ricavando dalle mie riflessioni una sorta di indicazione tra il solipsistico e l’enfasi di una retorica superomistica, di una reazione al disastro coronavirus che, cancellando gli altri, come me vittime potenziali e attuali del male, azzeri il valore degli altri e prima ancora la loro stessa presenza di resistenza, o di co-resistenza? Sto dimenticando forse che nel mondo umano che fronteggia la natura malata e muta intrecciando, rispecchiando visi spaventati, non sono attualmente e spiritualmente, moralmente solo? No, certamente e con molta decisione no. Mi guardo intorno, quando esco per provvedere alla sopravvivenza alimentare o ricevo le notizie, e incontro gli altri, e li sento reattivi nella gran parte in modo analogo al mio: pieni di volontà di resistenza, straziati dal dolore per la fine dei loro cari, all’erta ad ogni cenno di miglioramento della pandemia, sempre più attenti a rispettare le misure di autodifesa stabilite dal governo e alla misurazione dei sostegni economici pubblicamente promessi, e in ingente quantità, prima che la disgregazione del tessuto sociale ed economico e spirituale del paese si faccia non reversibile. Insieme a questa scena – che non è richiesta di aiuto agli altri, come ho detto, considerata come il primum di una qualche reazione, ma osservazione di una analogia di situazione che comunque mi schiera accanto agli altri, tra i miei concittadini del mondo, che si consola dunque della loro esistenza analogica, del loro essere reattivi virtualmente e attualmente come me – mi si presenta la scena letteralmente eroica degli ospedali dove medici infermieri e ricercatori, lottano in orma linea per fermare il virus e ridurre le sofferenze dei malati che resistono.

Anche in questo caso non chiedo un aiuto che peraltro già ampiamente ricevo e che utilizzo per irrobustire la mia forza individuale, il mio essere ‘pilastro di me stesso’. So che io e gli altri agiremo e reagiremo insieme alla potenza genocida del virus, perché questo deve accadere, già accade al livello dei singoli e delle istituzioni che ci governano e ne traggo un filo di non indifferente consolazione, che oppongo alla natura malata e muta che continua guardarmi senza inviarmi segni certi, ma solo vaghe speranze e vaga disperazione. Ma tengo fermo il principio, che ho eletto a linea-guida teorica delle mie meditazioni, e che ora mi si configura come una originaria opzione morale supportata da un radicale atteggiamento di realismo materialistico di fronte alla natura che mi fronteggia e mi ingloba, che gli altri che pure ci sono e li devo riconoscere accanto a me, ma non sono la premessa, la precondizione indispensabile nel conflitto con il male che sempre il mondo della vita ospita e che oggi si configura come lotta contro il virus. Assumo nei loro confronti l’atteggiamento che Sigmund Freud assume verso Dio, gli dei, la fede religiosa, respinti appunto perché infantilmente ne impetrano l’aiuto e il sostegno, in assenza de quale soccomberemmo. Dio, il rifiuto dell’aiuto originario di Dio, diventano qui gli altri, ridotti ai miei occhi non ad un nulla illusorio nella mia-nostra lotta antivirus, ma tenuti ben fermi come il sostegno di seconda battuta rispetto alla forza che cerco e faticosamente trovo in me stesso.

Gli altri, infatti, si danno per me nella lotta e per la lotta contro il male e la morte, perché io li faccio essere miei alleati, come io sono il loro alleato. Io faccio nascere il nostro ‘insieme’, perché scopro e difendo in me una forza originaria ed assoluta che certo non mi dà la certezza di piegare la natura malata e di farla parlare a mio favore, ma mi mette in prima linea, mette me e la mia coscienza, il mio eventuale coraggio, in prima linea perché un ‘insieme agli altri’ si produca, senza distruggere il mio agire come essere umano, che poi, e solo su questa base solitaria, chiama con sé nella lotta di resistenza antivirale a vantaggio della vita, della sopravvivenza di tutti, anche gli altri. La mia diffidenza, anzi la mia sfiducia verso una originaria assolutezza della solidarietà che rovescia nel suo opposto il cattivo egoismo perché intende di poter presupporre e difendere l’indifendibile, l’illusorietà della nostra volontà di morale altruistica, è troppo radicale perché io riesca a configurare in altro modo il leitmotiv delle mie meditazioni. Questo spiega perché il silenzio della natura malata e la secondarietà (non irrilevanza, si badi) degli altri costituiscano i poli del mio pensiero assediato, come il mio corpo, dal coronavirus. Ma poi, perché mai dovrei ridurre o modificare nel senso di una morale originariamente solidale in cui non mi riconosco, una posizione morale diversa anche se non opposta che sento assolutamente mia, cui posso affidare la speranza di poter agire o co-agire affinché un ‘insieme con gli altri’, sanitario, di ricerca, spirituale, politico, economico, e a livello mondiale, si formi? Perché dovrei temere la reazione indignata dei solidaristi, se quello che nelle mie pagine (e non solo in queste che ora scrivo) ho cercato di dare voce, una voce ‘freudiana’, alla deduzione di un solidarismo non preventivamente garantito, che si costruisce faticosamente e nel rischio di fallimento, e che ricava il suo stimolo dal silenzio della natura, dal mutismo di una natura malata, cui apparteniamo e che può farci oggi, proprio per questo, agevolmente sue vittime?

Ciononostante, mi sia consentito di stendere idealmente la mia mano (mantenendo rigorosamente le condizioni interindividuali di sicurezza), mostrando che mentre respingo le speranze illusorie che la natura migliori, che si faccia misteriosamente più buona, sono in grado di trovare e attivare in me una forza che mi conduca all’incontro con le altre vittime anch’esse, ciascuna in sé e dall’interno della propria coscienza capaci di stendere una mano, dopo aver saputo trovare dentro se stesse una forza analoga. Un insieme analogico della forza di resistenza, è quel che cerchiamo, ciò cui ciascuno per sé può aspirare. Spiace enormemente dover abbandonare, a fronte della pandemia, la nobile convinzione poetica di Thomas Mann, non decadente, ma insieme romantica e illuministica, che la malattia generi creatività e crescita della spiritualità, affinamento dell’anima. Non si tratta che dell’ultima delle rinunce intellettuali che il virus che stiamo combattendo ci impone.

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