Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus


Abstract: Stiamo davvero vivendo un tempo “speciale”, un passaggio d’epoca, una condizione che per la sua straordinarietà verrà – come si suol dire – ricordata nei libri di storia?
Cos’è un’epidemia? Che forme hanno lo spazio e il tempo in una condizione di “quarantena”, di “clausura”?
Come si vive, si lavora, si studia e si scrive, come ci si muove entro confini imposti?
Come cambia la percezione dei bisogni e della necessità, della salute e della malattia, delle libertà individuali e della responsabilità collettiva di fronte al rischio – alla paura – del contagio e alla consapevolezza della eccezionalità?

In questo spazio, in un momento così particolare, per una volta, vorremmo fare una cosa forse insolita per una rivista di storia: osservare il tempo attuale e i fenomeni che lo segnano attraverso sguardi obliqui e non per forza convergenti, allontanando e ravvicinando il punto di osservazione, condividendo interpretazioni, letture, esperienze e questioni di metodo che possano contribuire a riportare le inquietudini e le sollecitazioni del presente sul piano del confronto delle idee.

Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus

Quante sono le reclusioni?

di Marina Caffiero

 

Come molti colleghi, anche io, in un primo tempo, ho accolto l’imposizione della reclusione come una egoistica opportunità: poter leggere, scrivere, sbrigare gli impegni presi da tempo e non rispettati, occuparmi del «Giornale di Storia» e delle Collane che seguo per diversi editori. Quante volte, nei periodi di lavoro più frenetici che hanno seguito anche il pensionamento, ho pensato con simpatia e una qualche invidia alle monache dei conventi di clausura di Ancien Régime che avevano acconsentito o perfino scelto la loro condizione per poter continuare a studiare e a scrivere, libere dalle pressioni familiari? In una prima fase in effetti la strategia del comportarsi “come se” i tempi fossero normali e all’esterno non avvenisse nulla che potesse distrarmi dal lavoro, la convinzione di poter mettere la testa sotto la sabbia e isolarmi davvero da tutto, hanno funzionato. Ho svolto una mole di lavoro, fatto telefonate, risposto alle mail, consegnato abstracts e titoli per convegni futuri (ma si terranno davvero?), scritto e letto. Non si poteva uscire ma il grande terrazzo del nostro appartamento mi consentiva ­– e mi consente – di fare lunghe passeggiate, contando i passi. 30 passi di lunghezza moltiplicati per 100 passi fanno 300. Con 1000 passi potevo fare quasi un chilometro di moto, mai fatto prima in tempi “normali”. La giornata, scandita militarescamente con fasi e orari, trascorreva anche troppo velocemente, la noia non esisteva, il tempo sembrava davvero libero.  Mi sono anzi convinta che le accresciute ore di sonno, il riposo pomeridiano, avrebbero aumentato la mia creatività. Durante la “prigionia”, il 15 marzo è uscito perfino un mio nuovo libro, ora bellamente bloccato nei magazzini della casa editrice di Brescia – Morcelliana – che si è trovata al centro della bufera.

Ma, trascorse le settimane, questo regime “virtuoso” ha cominciato a incepparsi. Le difficoltà sono cominciate con la lettura. Leggere e ritenere quanto avevo letto si è fatto sempre più difficile, con la necessità di leggere più volte la stessa frase. Siedo alla scrivania davanti al computer ma la mancata concentrazione mi fa rinviare il lavoro ad altri momenti che spesso non arrivano affatto. Sempre più spesso mi rifugio su Facebook, dove le offerte, le proposte e i richiami per mille attività da fare durante la giornata (cucina, ginnastica, giardinaggio, riordinamento degli armadi, trucco) mi tempestano e anche infastidiscono, ma continuo compulsivamente a guardare. Le consultazioni dei giornali e dei dati epidemiologici sono diventate più frequenti e ansiogene. Le immagini dei morti insopportabili. I post dei colleghi, sempre più numerosi e sempre più lunghi, in genere lamentosi (ma rigorosamente in inglese), o talvolta, al contrario anche troppo ironici e scanzonati, mi comunicano angoscia. Espressioni tipo “siamo in guerra”, con conseguenti metafore militari, mi sembrano del tutto inadeguate, retoriche, false e perfino fuorvianti.  Ma quale guerra? Con chi? Con la natura? E chi ha violentato la natura? Esortazioni come “andrà tutto bene”, dette in buona fede, mi sconvolgono per la loro superficialità pur compassionevole: cosa andrà tutto bene? Stiamo pensando seriamente al futuro che ci attende e che richiederà nuove risposte? Quale sarà la “normalità” a cui aspettiamo di tornare? Inaccettabile per la sua ingenuità religiosa la convinzione che “dopo” saremo migliori, quasi che questo sarà il risultato del “castigo” che abbiamo meritato. Spaesamento, sospensione spazio-temporale, confusione e soprattutto l’assenza di aspettative e l’impossibilità di prevedere la fine della malattia, delle morti, della quarantena, rendono improba la sopportazione del tempo sospeso e dell’attesa. Un tempo appunto niente affatto libero. Anche le telefonate video con mia figlia e i nipotini, con mia madre centenaria, lungi dal costituire un appuntamento capace di trasmettere sicurezza e perfino gioia si rovesciano, una volta terminate, in ulteriore ansia, mancanza, vuoto, senso di colpa, paura. È già la depressione?

All’improvviso mi sono ricordata di essere la figlia di un IMI. Chi erano gli IMI? La qualifica di IMI (acronimo di Italienische Militȃr-Internierte), sconosciuta alle convenzioni internazionali, indicava i militari italiani – ufficiali, sottufficiali e soldati semplici – presi prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e, se non passati prima per le armi con l’accusa di tradimento, deportati con lunghi e penosi viaggi di trasferimento nei campi di concentramento di Polonia e Germania. 810.000 mila internati a cui non era riconosciuto dai tedeschi lo statuto di prigionieri di guerra – questa sì era una guerra – con tutte le garanzie che tale status avrebbe comportato, compreso l’intervento costante della Croce Rossa: nella gerarchia dei prigionieri, gli italiani venivano dopo tutti gli altri, prima solo dei russi. Sottoposti fin dall’arrivo al primo campo al bombardamento della propaganda nazista, a cui si aggiunse quella fascista una volta costituita la Repubblica sociale, oltre 600.000 militari rifiutarono di aderire, condannandosi così a una vita di fame, fatica, freddo, malattia e morte. Mio padre, allora giovane capitano di carriera preso in Grecia con il suo reparto e, dopo una lunga marcia a piedi fino all’Albania, caricato sui treni speciali, faceva parte degli oltre 30.000 ufficiali che non aderirono e che per due anni vissero trascinati da un campo di concentramento all’altro, anche con lunghe marce a piedi. Ludwisburg, Cholm, Deblin Irena, Sambostel, Wietzendorf le tappe di mio padre.

 

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Call for reactions. Storia e Storie al-tempo del Coronavirus. Papà nel Lager

Certo, un campo di concentramento non era un campo di sterminio, come quelli riservati agli ebrei e agli zingari, non c’erano camere a gas e forni crematori. Spesso i nostri studenti conoscono poco la differenza. E tuttavia, a parte la morte sicura, anche il Lager per militari rispettava le medesime dinamiche e l’organizzazione strutturata del sistema concentrazionario tedesco: filo spinato, spesso attraversato da corrente, torrette di guardia con soldati armati di mitragliatrice e con riflettori giganti, cani lupo addestrati ad azzannare, sentinelle che si divertivano a sparare per  uccidere, baracche fatiscenti strapiene e senza riscaldamenti di sorta, rancio – la “sbobba” – nauseante e insufficiente, sporcizia, pidocchi, cimici, topi, l’assegnazione di un numero, la solitudine pur in mezzo alla folla di persone stipate. Ore lunghissime trascorse nel piazzale dell’appello, in piedi, con pochi abiti a temperature sotto lo zero. Violenze dei carcerieri, umiliazioni. Disprezzo per gli italiani “traditori”. Requisizioni continue e ruberie. Lavoro coatto. Malattie ed epidemie di tifo. Informazioni dall’Italia, e soprattutto dalle famiglie, scarsissime. Angoscia per i familiari, per non poter prevedere quando sarebbe avvenuta la fine della prigionia, per cercare di resistere e non impazzire o suicidarsi. Noia naturalmente, apatia e paura. Ma anche volontà di resistere immaginando e già plasmando il futuro di democrazia.

Mio padre ha descritto quella che molto, troppo, tardi è stata riconosciuta come una vera forma di resistenza in un Diario che in parte è stato pubblicato e che ora è abbondantemente citato dal bel libro recentissimo di M. Avagliano e M. Palmieri, I militari italiani nei Lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945), Il Mulino, 2020. Anche il professore con cui mi sono laureata e con cui ho avviato la mia carriera accademica, Vittorio Emanuele Giuntella, era un IMI e ha scritto un bellissimo libro sui Lager, Il nazismo e i Lager, Ed. Studium, 1979, con molte ristampe successive. Era stato negli stessi campi di mio padre ma non si erano mai incontrati. Da queste esperienze che oggi ho voluto ripercorrere e rileggere nasce la mia riflessione: la reclusione in quante forme si può declinare? E la resistenza? E la lotta per la salvezza? E il futuro?

La conclusione è forse banale, ma nemmeno troppo ovvia.  Sappiamo che lo storico deve contestualizzare i fenomeni e non sovrapporli: secondo la lezione ancora insuperata di Marc Bloch il peccato mortale dello storico è l’anacronismo. Ma sappiamo anche, come ci suggerisce ancora Marc Bloch, che la comparazione e il metodo comparativo intendono ricercare le rassomiglianze e le differenze che fenomeni di natura analoga rivelano, allo scopo di spiegarle ma anche di trarne nuovi problemi, nuovi interrogativi. Esistono forme diverse di reclusione, e non solo obbligate: ma la chiusura che stiamo vivendo in questi giorni nelle nostre case confortevoli per cercare di giungere alla salvezza, individuale e collettiva, non è certo paragonabile a quella che hanno vissuto coloro che, con una scelta eroica date le circostanze, si sono sottoposti volontariamente alla prigione, alla fame, al freddo e alla violenza morale e fisica, anch’essi in vista di una salvezza che non era tale solo relativamente alla conservazione della vita ma alla difesa di un universo di valori. Molte le differenze dunque, pur nei sentimenti condivisi, come la paura, la solitudine e l’angoscia. Ma molte le somiglianze soprattutto nella volontà consapevole di resistere e di cominciare ad immaginare il futuro.

In fondo c’è una forma sola di resistenza.