Una discussione su fede, laicità, storia

Una discussione su fede, laicità, storia

Abstract:

1. Il libro di Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 2018 (nella cui discussione vorrei che qualche motivo di perplessità teorica si intrecciasse ad un assenso ideale di fondo) presenta motivi di interesse che si collegano all’impegno universalista nei confronti delle leggi e dei principi delle costituzioni liberaldemocratiche occidentali, un impegno da cui discende il rifiuto di quelle forme di  balcanizzazione che le  società occidentali hanno rischiato di subire  soprattutto in un passato non lontano. In effetti, l’attacco ideologico contro i principi della liberaldemocrazia e della libera equivalenza dei valori delle libere scelte religiose individuali e di gruppo è stato assai virulento e non poco pericoloso, più di quanto i ‘moderati’ della cultura votati all’accomodamento rispetto a principi, presumibilmente non riconosciuti come tali, anzi respinti come cascami dell’”imperialismo” occidentale, fossero capaci di vedere e di ammettere. Non si esagera affatto nel coglierne echi e tracce  in Italia, nell’odierno disprezzo verso i valori di principio, valori etici, giuridici e anche  di semplice, ovvia convivenza civile grazie a  cui si mira a tenerne ferma l’unitarietà istituzionale senza fratture dei valori costituenti del paese, che viene spinto invece  in una direzione di separazione e di indifferenza senza unità da forze politiche antiuniversaliste e antieuropee, ossia in una direzione tendenzialmente ribellistica e antistituzionale: con l’obiettivo di plasmare un “popolo” via via pericolosamente più omogeneo e al tempo stesso internamente separato nelle sue culture di appartenenza, nel suo ‘volere’ immediatamente questo o quell’obiettivo volta a volta proprio di ‘gruppi di fatto’. Penso, tra l’altro, al rifiuto antiscientifico verso il sapere in genere e verso  le competenze in sé universali attive nel cosiddetto movimento no-vax, al rifiuto del valore fondativo universale dell’antifascismo della costituzione repubblicana, e della distinzione tra destra e sinistra, così come all’invenzione di deliranti e falsi schemi di democrazia diretta che attentano, per i modi e per gli obiettivi oltre che per la parzialità privatistica dei soggetti decidenti in ultima istanza, di nuovo all’universalità delle scelte politiche. Lo sfacelo dell’unitarietà dei valori e dei principi istituzionali e culturali che insidia la trama costituzionale del nostro paese e il danno democratico che ne consegue hanno, quanto meno, una delle loro fonti di incubazione nell’antilaicismo multiculturalista, ossia nella pretesa delle fedi e delle culture ‘parziali’ di prevalere assolutisticamente e per mere ragioni storiche rispetto ai principi non semplicemente culturali che ne garantiscono la democratica convivenza, annullandone, grazie al modello dell’universalismo delle differenze della nostra Costituzione, la separatezza escludente e ogni pretesa integralistica sulle vite individuali. L’universalismo costituzionale delle differenze è l’antitesi concettuale del multiculturalismo, in quanto affida la libera autonomia e la spontaneità delle differenze culturali della società civile all’orizzonte universale che le ospita e ne costituisce la ragion d’essere di carattere normativo. Sciuto affida alla dimensione normativa, non per caso, la punta più acuminata del suo rifiuto del multiculturalismo.

Nel multiculturalismo dominante in settori della sinistra fino a qualche anno fa viveva nell’idea e tentava di tradursi nella pratica il modello dell’esistenza di gruppi sociali prevalentemente religiosi, ma non solo, che rispondessero ad una ascrizione culturale dei propri membri corrispondente a opzioni culturali e religiose reciprocamente esclusive, escludenti e coattive, volta a volta diverse, virtualmente conflittuali. Si realizza in questo modo una frammentazione e una separazione di gruppi che colpisce al cuore l’universalismo delle leggi e dei diritti umani su cui si regge uno Stato di diritto retto da una costituzione legittima. Sfidato dalle appartenenze culturali, ossia da fattori storici e sociali cui viene assegnato un valore assoluto di fondazione identitaria, l’universalismo democratico che  mira a rendere di pari valore istituzionale le differenze e le scelte individuali e di gruppo alimentate, accolte e difese nel suo orizzonte formale, diventa da perno della organizzazione istituzionale di una società liberaldemocratica, uno dei poli di una sorta di “gioco” tra asimmetrie paraistituzionali e culturali di uguale peso e si avvia quindi, in quanto ‘forma’ della convivenza istituzionalmente garantita delle differenze civili, ad una sconfitta definitiva. Per quanto osservazioni critiche contro il multiculturalismo non siano mancate in un passato non più troppo recente specie nelle società occidentali, con la confutazione del ruolo ‘fondativo’ che si voleva persino iperdemocratico e orgogliosamente terzomondista, del multiculturalismo, quest’ultimo, perduto il fascino ideologico di cui ha goduto fino a qualche anno fa (anche grazie agli innesti delle spinte di un femminismo separatista che la Sciuto sembra sottovalutare nella sua pericolosa peculiarità), merita di vedersi assestato un ulteriore colpo da questo libro. C’è da dubitare tuttavia che il proteiforme assedio antidemocratico alle democrazie liberali da parte del multiculturalismo delle fedi assolutizzate sia avviato alla propria scomparsa, se è vero (come è vero) che la vita storica di ogni democrazia si basa in linea di principio sullo scontro non esauribile che ha al centro e in cui è in gioco la molteplice vita dell’antilaicismo e l’antirazionalità politica ed etica multiculturalista. La storia delle democrazie, qui legittimamente pensabile come storia della democrazia laica, è a tutti gli effetti il luogo temporale in cui prende corpo uno scontro di principio che è giunto nel tragico passato alle nostre spalle alla dissoluzione “totalitaria” dello Stato di diritto. Non è evidente che una qualche parentela colleghi l’odio totalitario dei regimi fascisti del secolo scorso verso i diritti universali di ogni individuo, alla certamente diversa, più recente, ostile indifferenza antiuniversalitica del più vicino multiculturalismo occidentale dalla conclusione del secolo scorso che non conosce il rispetto delle istituzioni che difendono i diritti individuali universali e non controlla nei termini  dell’attuazione del rispetto dei diritti dei singoli e del valore della totalità dell’ordinamento poltico-giuridico il dominio frammentato di fedi che, ‘liberando’ le cosiddette culture e la appartenenze relative,  ne rendono asserviti i membri? Non sembra, a dirla francamente, qualora i diritti legittimi dell’interpretazione propriamente  filosofica vogliano essere rivendicati , che  si  debordi e si esageri nel pensare l’unità di un segmento storico che, comandato da un problema di principio, pone il multiculturalismo al centro ideale di una vicenda che vede nel passato del secolo scorso la dissoluzione totalitaria dello Stato di diritto, e nel presente populistico la dissoluzione potenziale di democrazie virtualmente private del principio di rappresentanza e culturalmente frammentate nella rancorosa indifferenza dei cittadini verso le opzioni di fondo  che incombono sulla vita sociale. Se non fosse così, non varrebbe la pena di occuparsene in chiave filosofica, come fa anche il libro di Sciuto, pur con molte legittime concessioni all’analisi storico-sociologica delle forme dell’antilaicismo di fonte multiculturalista. Non manca, per questo motivo, nella scelta teorica di Sciuto, una componente di sollecitazione dell’impegno morale di ogni singolo a difesa della modernità di origine illuministica, che nasce dalla consapevolezza dell’urgenza odierna di una battaglia di principio e di valore (voglio dire: sui valori) a difesa della laicità delle società occidentali chiamate a difenderla e di quelle orientarli chiamate a faticosamente conquistarla, una battaglia per la quale, appunto, “non c’è fede che tenga”. Viene da riflettere sul fatto (lo si osservi perché si tratta di un punto essenziale sebbene non sia centrale nell’argomentazione del libro) che l’aggressività separatista antioccidentale del terrorismo islamista che da qualche anno insanguina l’Occidente (e, non meno, il vicino Oriente), senza che con ciò si voglia ammettere la possibilità di farlo derivare in maniera diretta dalla frammentazione conflittuale delle culture e delle fedi voluta e praticata da chi promuove e difende (o ha promosso e difeso) il multiculturaliamo,  ha comunque  in comune con quest’ultimo l’odio per tutto ciò che assicura una garanzia formale universalmente valida alla più ampia apertura, all’arricchimento civile di cui vive una società unitaria ed aperta entrata e in uscita, retta da leggi, principi, valori garanti delle libertà: principi  opportunamente  definiti come “trascendentali”.

La battaglia anti-multiculturalista, dunque, non può considerarsi conclusa e in certo senso non è destinata a concludersi mai perché chiama in campo nei termini filosofici di principio, non storici, non sociologici, distinguendoli e contrapponendoli conflittualmente al separatismo multiculturalista, due lati connessi, l’unità universalistica formale, nazionale e sovranazionale (cosmopolitica), di carattere etico e giuridico, da un lato e, dall’altro lato, le differenze civili che una democrazia liberale, a partire dal Contratto sociale (luogo teorico di origine della teoria della composizione reciproca ma non paritaria di universalità e particolarità nella vita dell’ordinamento civile moderno) ha avuto il compito e l’obiettivo teorico prioritario di non far esplodere nella direzione di una deflagrazione incomponibile. Ripetiamo con enfasi che la pubblicazione del libro di Sciuto è un evento che va salutato come positivo, perché niente, nella battaglia liberaldemocratica in difesa della normatività formale e giuridica del patto costituzionale contro il mostro giuridico di una normatività fondamentalista (come la Sciuto, studiosa di Kelsen, opportunamente osserva) può considerarsi acquisito per sempre, ed appare invece anche oggi, per altri motivi e da prospettive politiche e teoriche diverse da quelle prevalenti qualche anno fa, meritevole di attenzione e di difesa rigorosa, senza cedimenti. Ribadiamo che non è lontano il tempo – tra i peggiori della storia culturale italiana – in cui veniva considerata arrogantemente ovvia l’equivalenza tra coscienza progressista e multiculturalismo.

Osserviamo che v’è tuttavia nella prima parte del libro una sorta di caduta che rischia di farlo scivolare verso gli esiti di accomodamento relativistico che pure combatte. Si affaccia una sorta di non troppo nascosto spirito di diffidenza verso la rigorosità del discorso laico di principio su cui il libro è inizialmente impostato.  Ma prima di indicare al lettore dove e come la coerenza teorica anti-multiculturalista del primo capitolo rischia di indebolirsi (esattamente là dove Sciuto  tende ad appannare l’universalismo dei principi normativi che regolano e legittimano la vita varia, ricca, arricchentesi e trascendentalmente regolata delle società civili, a vantaggio di ciò che chiama “le regole del gioco” (cfr. pp. 40-41) pur considerate “principi”, per poi aprirsi legittimamente alla storia e all’attualità ossia alla fenomenologia dei modi in cui, entro l’orizzonte della cultura di matrice cristiana e ancora più nelle società islamiche, la laicità viene spesso calpestata e rovesciata nel predominio di una qualche cultura religiosa), sia consentito ripresentare una considerazione già fatta, dato il rilievo che chi scrive annette al grado di necessaria, attuale polemicità del libro. Che cosa può significare oggi battersi per la laicità e respingere derive più o meno mascherate di quello che qualche tempo era chiamato “multiculturalismo”: oggi, voglio dire, quando l’urgenza di un certo tempo culturale sembra essersi attenuata – e si è effettivamente attenuato rispetto alle forme del passato? Risponderei che combattere oggi per la laicità delle istituzioni e della società civile che ne è governata e contro la evidente frammentazione della società, nonostante i richiami alla immediata non rappresentabile sovranità del “popolo”, significa respingere l’equazione tra la laicità come principio trascendentale di governo delle democrazie, e l’individualismo arbitrario, e l’atomizzazione sociale e il disfacimento dei vincoli etici pubblici universali che si vogliono (ma lo sono?) garantiti da un diritto uguale. Significa, dunque, di nuovo, opporsi ad una frammentazione sociale che il formalismo dell’universalità laica autentica e dei suoi principi tende invece a respingere, mantenendo e diffondendo legami sociali di libertà e di responsabilità individuale e ultraindividuale. Legami che veicolano contenuti, che impongono comportamenti e divieti, che plasmano forme di vita infinitamente variabili, e non si riducono affatto a procedure, siano pure quelle, importanti, della dialettica democratica con le sue procedure.

Non è difficile immaginare che la crisi della democrazia rappresentativa e delle istituzioni liberaldemocratiche, senza poter essere considerata un effetto diretto del passato multiculturalismo (lo abbiamo già osservato) definisca tuttavia il modo in cui una società parcellizzata ad un livello ulteriore rispetto ai passati ‘coauguli di società’ di stampo multiculturalista, rappresenti tuttavia un esito estremo di quella crisi, quello in cui accade che una società che ha perduto i legami che le istituzioni consentono formalmente di garantire dando così libero accesso alla infinita libera varietà dei suoi contenuti delle sue scelte, si riconosca o venga fatta riconoscere nella finzione di un ‘popolo’ unitario. Permanendo frammentata, sebbene non nelle forme del multiculturalismo, la società finge di poter fare a meno dell’interna libera articolazione civile e di poter perseguire il progetto della ipersemplificazione della struttura istituzionale che è la vita stessa delle differenze civili. Il multiculturalismo non c’è oggi nelle forme del passato, né come teoria né come pratica, ma sulla base dell’esasperazione atomistica che indebolisce i legami sociali e ne costituisce un’eredità radicalizzata in senso individualistico, esso rinasce in altra forma esigendo che una unità di ‘popolo’ tenti l’impossibile recupero di una qualche universalità sociale.

Sciuto ha come obiettivo principale quello di rivendicare laicamente alla dimensione privata le opzioni religiose dei singoli, ciò per cui nessuna religione, né la religione in generale possono informare lo spazio pubblico, e a nessuna di esse può essere consentito di “violare i diritti fondamentali dei singoli membri della società politica, ossi dei singoli cittadini” (cfr.p. 20). Ne consegue che compito dello Stato laico è tutelare, da un lato, lo spazio pubblico, dall’altro i diritti individuali. Lo Stato deve garantire che ciascun cittadino possa determinare in autonomia la propria vita e il proprio orizzonte di valori. La laicità è una “condizione trascendentale della democrazia” (p. 22), intesa come un requisito “prepolitico” della convivenza civile in società disomogenee, come le nostre occidentali, chiamate a gestire lo spazio non ancora formalmente politico della convivenza civile e della coesistenza delle fedi private, fornendo a ciascuno il supporto formale della convivenza e del confronto. Dal punto di vista della fede quindi ciò “non significa per il credente mettere in dubbio la propria fede ma accettare che essa, non essendo un ‘tener per vero’ valido oggettivamente, non può costituire il parametro della vita pubblica” (ibidem). Nel tematizzare la questione del significato che l’opzione anti-multiculturalistica e laica può avere nell’Italia e nell’Europa di oggi, abbiamo in parte marginalizzato il tema centrale di Sciuto. Ma mi chiedo se quello che ho definito l’atomismo nel cui orizzonte operano le nostre società “populistizzate” non contenga un nocciolo di ‘indifferenza sociale’ disgregatrice, che impedisce allo Stato di fungere da tutela dello spazio pubblico, dei diritti individuali e dei loro rapporto indissolubile, e se questa condizione pericolosamente nuova per molte  (ex?) democrazie occidentali non affondi le sue radici più recenti nella crisi di stampo originariamente multiculturalista del laicismo e dell’universalità.  Quest’ultima torna a porsi come questione, lontana in quanto fonte, ma ancora vicina nei suoi effetti, della crisi dello Stato di diritto da un lato e della libera scelta individuale delle proprie scelte religiose e dunque di quella che chiamiamo in una parola “fede”, fede individuale, privata e libera. Darei una risposta positiva a questa domanda e aggiornerei in questo modo l’agenda teorica di Sciuto.

Veniamo così al punto problematico cui abbiamo fatto cenno sopra un punto sembra appannare la coerenza kantiana o kelseniana di Sciuto – a meno che non indichi invece il modo in si svolge effettivamente la sua argomentazione, incoerente soltanto agli occhi del lettore critico. Scrive Sciuto nel capitolo dedicato alle religioni come fenomeno e culturale: “Il piano su cui collocare il dialogo con le religioni non è quello del dogma, ma quello delle ‘regole del gioco’ democratico” (p.39). L’attenzione filosofica di Sciuto non l’abbandona neanche in seguito, specie nei capitoli quarto, quinto e nella conclusione, dove si presenteranno questioni che chi scrive ha affrontato e discusso nei corsi di lezione cui ha partecipato Sciuto e nei suoi saggi (si veda per tutti, Il governo della distanza. Etica sociale e diritti umani, Franco Angeli Milano, 2004). Dopo essersi chiesta a chi fanno capo le regole del dialogo con le religioni, specie quando configgono con il dogma, sulla base della tesi che il dogma deve essere messo fuori gioco in quanto le regole del dialogo con le religioni sono quelle stabilite dalla democrazia (e non è accettabile addebitare all’obbligo imposto da una religione, da una cultura o da una tradizione ciò che deve rientrare “nel dibattito pubblico di una società democratica” (ibidem) e nei suoi obblighi specificamente democratici) Sciuto sembra voler svalutare la natura di “principio” delle “regole”. La parola, niente affatto neutra, ha o dovrebbe avere in un libro come questo un chiaro valore normativo: la regola ‘regola’ in quanto possiede un potere che le deriva dalla fonte statale e non sta simmetricamente sullo stesso piano di ciò che ne viene regolato. Quindi non è una semplice “regola”. Qui invece le “regole del gioco” sembrano sfuggire all’orizzonte dei principi per motivi che in parte sfuggono, a meno che non siano riconducibili ad una scivolata, a o una occulta scelta relativistica che consenta di introdurre entro un contesto fondativo e trascendentale uno spazio concettualmente eterogeneo per la vicenda storica del rapporto tra fedi e Stato democratico in questo o quell’ambito della vita civile. Spazio importante certo, ma non tale da poter interferire con il tema “di principio” della laicità pubblica: quella privata certamente non configge con la pratica di una fede. Troviamo qui la tesi del libro che ospita e giustifica le perplessità di cui si è detto, dato che affianca determinazioni concettuali delle “regole del gioco” di cui non è facile trovare la compatibilità con il contesto teorico.

“Le ‘regole del gioco’ … non sono date una volta per sempre, non sono scritte sulla pietra, non sono ‘naturali’, né mere cornici formali prive di contenuto. Si tratta di valori, di principi che si possono accogliere o rifiutare, che possono essere più o meno compatibili con la mia visione del mondo e con la mia fede e – questo è quel che sosteniamo in questo libro – lo Stato, se vuole rimanere democratico e liberale, deve rivendicare questi principi, sulla base dei quali tracciare il confine tra ciò che è accettabile ciò che non lo è” (p. 40, c.m.).

Ora, qui quel che in realtà si dovrebbe dire, e che pure si dice facendo delle “regole” dei “valori”, è che i valori della democrazia sono dei principi, i quali in realtà sono dati una volta per sempre per ogni singola costituzione liberaldemocratica, esattamente nel senso che trascendono l’ordine storico  entro cui sono stati fondati e possono essere rifiutati e combattuti, senza perdere la propria sovratemporalità di valori. Sono anche naturali (nel senso dell’illuminismo rousseauiano e kantiano e non certo quali ‘eventi’ contingenti della natura storicamente revocabili) esattamente perché sono trascendentali e regolano e giudicano quel che nella vicenda storica può o può non essere accettato rispetto a loro – restando criteri sovrastorici di un giudizio sulla contingenza storica che può vederli e li ha visti sconfitti, proprio perché le specifiche visioni del modo possono configgere con loro, e confermando così che la sconfitta storica conferma e radicalizza il loro valore sovrastorico, il loro essere dei valori. In questo senso, da punto di vista di un laicismo trascendentale di principio base dello Stato liberaldemocratico, non vi sono né “giochi” né “regole del gioco” perché ogni possibilità di aprire un “gioco” su quelli che la Sciuto stessa più volte chiama principi e valori, è respinto da quell’istanza statuale di principio che traccia una linea invalicabile di confine proprio tra ciò che, come principio della laicità democratica, si sottrae al gioco dei compromessi e delle ammissioni rivendicate dalle fedi su un falso piano di contrattazione paritaria, e ciò che sta oltre ogni gioco, oltre ogni compromesso. Per quanto Sciuto parli allora di “regole del gioco” nel rapporto storicamente varabile tra le fedi e le appartenenze da un lato e la ‘principalità’ dello Stato liberaldemocratico, quella che sembra la parte più forte e più convinta de suo argomentare – e la ragione stessa per cui è stato scritto il libro – è quella dove ribadisce, in certo senso contro se stessa, che i valori della laicità non ammettono giochi di compromesso con la storicità, al punto che lo Stato deve rivendicare questi principi e non può giocare sulle regole, come sembra essere ammissibili all’inizio del passo citato.

Si può anzi si deve ribadire ancora una volta alla Sciuto che non si dovrebbe retrocedere intimiditi di fronte alla assolutezza giustamente richiamata dei valori e dei principi dello Stato laico, da lei stessa in chiave fondativa della sua intera argomentazione evocati, perché non c’è spazio di gioco con regole che attenuino l’assolutezza dei principi che impediscono a fedi e appartenenze di farsi padrone di uno Stato laico ormai dissolto e delle coscienze dei cittadini laici che non sono più tali (che siano credenti o non credenti, come giustamente ogni volta si precisa). Lo Stato che rivendica, in quanto laico, i suoi stessi principi normativi di istituzione democratica della coesistenza pubblica non può permettersi di giocare con le regole perché nessun gioco di questo tipo è consentito alla assolutezza normativa dell’istituzione democratica nella quale ciò che è in gioco (senza che in questo ‘gioco’ lo Stato  si possa permettere di cedere o di perdere) è la vita stessa dello Stato democratico, sulla quale non si gioca se il particolarismo antilaico assediato da pretese di fede deve comunque essere sconfitto. Non si deve temere l’assolutezza della laicità e si deve quindi essere loro fedeli. Non si può quindi coerentemente parlare di “regole di gioco imprescindibili che ci siamo date” (ibidem) e si deve invece ribadire con forza con Marcel Gauchet quel che svolge il ruolo essenziale e fondativo del libro di Sciuto, contro ogni incontrollata scivolata relativistica sulle cosiddette “regole” (a parte la non irrilevante questione di come potrebbe essere per noi imprescindibile quel che si suppone che noi ci siamo dati e che noi ci possiamo sottrarre). Secondo Gauchet parafrasato e poi citato da Sciuto, spetta allo Stato democratico e liberale di difendere le “regole del gioco”, ora intese tuttavia correttamente come “le libertà e i diritti fondamentali dei singoli cittadini contro la religione come ‘struttura’, quella cioè che pretende di dettare la forma politica delle società e definire l’economia del legame sociale” (p.41).  Ora, finalmente si comprende ciò su cui da ultimo abbiamo insistito: che qui ‘non si gioca’. E che le cosiddette “regole” ospitano la normatività dei diritti fondamentali dei cittadini di uno Stato laico liberaldemocratico che non contratta con le fedi e le appartenenze.

2. Le ulteriori osservazioni che meritano essere fatte su un libro di cui si viene via via scoprendo la ricchezza dell’ispirazione militantemente politica nascono tutte da un apprezzamento di fondo, da parte di chi scrive, con qualche riserva  sul modo che definirei ‘rigido’ in cui all’argomentazione anti-multiculturalista viene svolta: in uno stile martellante, talvolta ripetitivo, anche se legittimamente rigoroso, rivolta alla difesa di quella laicità che esige rigore ed impegno unitariamente teorico e militante perché, come si è detto, nella laicità che fa muro contro il multiculturalismo senza cedere al ricatto dell’accusa di islamofobia, sono in ballo i valori istituzionali di una democrazia, la sua stessa “struttura”, i principi su cui non si può transigere o “accomodarsi”. É a tema, cioè, la vita democratica stessa, ad Occidente come ad Oriente. E il rapporto con la storia attuale, con le vicende del presente, di cui la Sciuto offre numerosissimi esempi, deve essere visto come conferma ragionevole del rigore laico e della normatività istituzionale liberaldemocratica, dato che rimane salda e ferma, nel confronto tra quel che non deve accadere, e quel che invece accade, l’opposizione tra il non contrattabile piano del normativismo istituzionale ed etico anti- multiculturalista e le mille vie con cui – nel campo che Sciuto chiama “reazionario”, come, non poco paradossalmente, in quello che chiama “progressista”, e altrettanto nell’universo della cultura occidentale, come in quello della cultura islamica, vero, principale polo di una sollecitazione a non cedere al particolarismo separatista – il germe disgregatore e pericoloso del multiculturalismo antilaico che si sostiene sulle convinzioni delle fedi letteralmente indiscutibili tenta di insinuarsi contro il normativismo liberale e di rovesciarlo anche avanzando le false (e un tempo ancor più seducenti)  ragioni “antimperialiste” che abbiamo fin troppo bene conosciuto. Non è un caso, dunque se le pagine della conclusione che alludono ad un “progetto di emancipazione universale”, esibiscono l’enfasi politica di cui si è detto ed ergano quella ‘muraglia normativa’ contro tutte le fedi religiose e i particolarismi che reclamano “diritti di gruppo”, in cui si riprende la polemica di Sciuto contro il canadese Will Kymlica conosciuto anche personalmente da chi scrive, senza che si attenuasse ai  suoi occhi  la perplessità critica rispetto a tali diritti, per il fatto che vi si volevano difesi in chiave di radicamento territoriale le esigenze di non rinunciare alla propria lingua dei canadesi francofoni del Quebec. Vedremo tra breve, e in breve, come le tesi di Jürgen Habermas, piuttosto blandamente respinte da Sciuto, ma comunque accusate di generare “aporie”, e apprezzate invece da chi scrive possono fornire una via di uscita alla qual certa rigidezza al liberalismo anti-multiculturalista di Sciuto, dato che non  vi viene perduto il punto di principio, anzi a parere di chi scrive vi viene rafforzato con l’innesto di una configurazione hegelianeggiante storico-contestuale di identità culturali che non si separano, non si isolano dal proprio sfondo e anzi grazie a questo innesto rafforzano la propria estraneità ad una declinazione multiculturalista separatista distruttiva del liberalismo di principio e dell’identità dei singoli, titolari ‘etici’ dei diritti umani universali. “Il nostro tempo” (scrive Sciuto, p. 153) “sembra dunque stretto nell’alternativa tra una deriva comunitarista/multiculturalista, da un lato, e un soggettivismo individualista, narcisista ed egocentrico, all’altro. Due approcci solo apparentemente distinti ma che in realtà condividono un nucleo fondamentale: una sostanziale indifferenza nei confronti del destino dei singoli esseri umani. Per uscire da questa tenaglia è dunque urgente elaborare una prospettiva solidale, laica, libertaria e universalista: perché i diritti, se non sono universali, si chiamano privilegi”.

Nel capitolo dedicato all’Islam, definito in maniera un po’ radicale la “nuova religione europea” (cfr. p. 56 sgg.) torna con grande insistenza la tesi di Olivier Roy che l’Islam costituisca una “sfida alla laicità” (si veda per esempio p. 67 sgg. che introduce il tema del velo, che qui tralasciamo). L’espressione di Roy ripresa da Sciuto conferma la tesi sostenuta con voluta insistenza nella parte precedente del mio scritto. Il confronto di parte laica, liberaldemocratica, normativa, istituzionalmente interna all’orizzonte delle democrazie occidentali, con tutte le religioni, ivi compresa quella cristiana, ma in particolare con l’Islam, è condotto e deve essere condotto, come Sciuto comprende ed esprime con grande chiarezza, sul terreno dei valori democratici trascendentali e dei principi. Che un valore e una istituzione giuridica siano trascendentalmente democratici significa che la loro ‘origine’ storica (le costituzioni nate dalla Rivoluzione francese, per esemplificare al massimo) non si risolve e non si dissolve nel ruolo normativo istitutivo di un nuovo ordine politico. Sebbene abbia appena detto e volentieri confermi che Sciuto vede il punto che chiamiamo della trascendentalità e universalità della struttura della democrazia e delle sue costituzioni, compresa quella che ci governa (il che perfettamente si compone con la giusta radicalità del suo laicismo e del suo universalismo), ribadisco il già detto. Un qualche stimolo teorico eterogeneo, che ho che ho chiamato forse impropriamente relativistico pare che intervenga talvolta a disturbare la coerenza della sua posizione di fondo, provenendo da altre fonti ideologiche che, ipotizzo, potrebbero nascere in un certo femminismo antiassolutista perché antimaschilista, presente sullo sfondo del libro.

Tuttavia, per riprendere il filo del discorso, non si potrebbe parlare della “sfida” dell’Islam alla laicità, se quest’ultima non venisse tenuta ferma da Sciuto, come pure accade, quale perno del suo intero argomentare. Ogni sfida, compresa quella alla laicità (su cui tuttavia non mancano in Roy le incertezze, respinte dalla Sciuto, di un giudizio sulla islamofobia attribuita alla sinistra, a conferma della difficoltà di tener fermo il giudizio in un terreno scivoloso e semanticamente incerto anche quando si vorrebbe non recedere dai criteri del giudizio di principio) comporta uno scontro verticale e non si potrebbe applicare a delle “regole del gioco”, come si diceva sopra. Per questo motivo non si potrebbe non riconoscere importanza e validità positiva alle tante esemplificazioni storiche e sociologiche, talvolta di prima mano, che Sciuto introduce e sulla disponibilità a valutare il senso delle sfide concrete cui la laicità va incontro in un mondo sollecitato ad accettare (ad Occidente come ad Oriente) schieramenti non di singoli ‘per fede’ o ‘per fedi’, islamiche o cristiane o di altra origine e fisionomia. Nelle sue esemplificazioni Sciuto mostra di possedere una rigorosa saggezza pratica, animata comunque dalla volontà di salvaguardare la “strutturalità” del principio democratico laico.

Il capitolo dedicato all’“aporia dell’identità” (p.87 sgg.) dei singoli come coloro ai quali soltanto si possono imputare i diritti inalienabili dell’individuo contro la pretesa di attribuire una qualsiasi esistenza plausibile ai “diritti di gruppo”, il cui rifiuto è in Sciuto radicale, ruota opportunamente sulla contrapposizione del “paradigma dell’autonomia” e del “paradigma dell’eteronomia”. Il primo ha come punto di partenza l’individuo, la persona che sceglie non solo tra le tante la propria fede, ma anche tutte le componenti che liberamente e autonomamente entrano a comporre, scomporre e ricomporre nell’orizzonte sociale, la propria identità. Qui e solo qui il diritto universale e fondamentale interviene a contenere, circoscrivere e comporre l’orizzonte della identità autonoma. Il secondo invece “definisce una volta per tutte in maniera chiusa le caratteristiche di una data identità collettiva e pretende che solo chi le soddisfi tutte, esclusa ogni scelta individuale, possa definirsi a pieno titolo membro del gruppo, trasformando automaticamente in eretici tutti quelli che se ne allontanano”. Non si può che condivider in pieno l’idea che il “diritto di gruppo” è il prodotto di una imposizione altrui, più o meno anonima o personale e che, all’opposto, il diritto difende l’autonomia e la libertà di ogni singolo solo in quanto solo la singola persona sceglie e definisce la propria identità. Il gruppo che si arroga un suo presunto diritto lo fa negando le scelte libere delle singole persone. La scelta è volta per volta e persona per persona molteplice, ma deve essere anche unitaria, e il diritto universale la difende in quanto tale, perché esso preserva l’unità di una reale molteplicità, affinché da libera essa non divenga identità coattiva, imposta ad altri. Il diritto dei singoli unifica e mantiene libere ossia autonome le loro singole identità. Il punto è espresso chiaramente e, nell’economia del libro, essenziale. Per questo motivo è molto presente nella bibliografia generale sul tema. Colpisce ancor più, forse proprio per la centralità del tema dell’identità nella contrapposizione tra singolarità personale e gruppi, ma senza ridurre di un solo grado l’accordo con Sciuto, l’assenza di una qualche considerazione verso la tesi famosa di Sigmund Freud sul “narcisismo delle piccole differenze”, che vede gruppi di individui quasi uguali in conflitto tra loro con la scomparsa di ogni ruolo per l’identità del singolo, fagocitato dallo scontro tra i ‘quasi uguali’. Credo di poter intuire che Sciuto abbia temuto, non senza qualche ragione, che l’innesto di una prospettiva teorica psicoanalitica avrebbe indotto ad una ristrutturazione del libro, il quale ruota, con estrema insistita concentrazione, intorno alle questioni di teoria istituzionale di una democrazia liberaldemocratica, e delle sue condizioni strutturali, sociologiche e politiche. Manca ogni spazio, direi ogni possibile aggancio ad una prospettiva psicologica di tipo psicoanalitico che, pure, offre un’occasione non piccola come quella, ben nota, che abbiamo ricordato: l’impianto normativo ha escluso ogni possibilità di delineare una qualche ‘psicologia del multiculturalista’, compreso quella psicoanalitica che avrebbe aiutato a comprendere il formarsi della dinamica dei gruppi con le proprie culture ‘quasi simili’, con i conflitti che ne discendono e , soprattutto, il ruotare di tutta la dinamica sociale su rivendicazioni culturali di gruppo idiosincratiche e reciprocamente ostili.

Poiché nel titolo abbiamo voluto evocare quella dimensione della considerazione storica intorno al multiculturalismo, che è una, peraltro legittima, vittima del normativismo, osserviamo qui che forse non avrebbe nuociuto al libro una più ampia apertura ad una considerazione rivolta ad una comprensione storica più diretta, meno saltuaria, del multiculturalismo, oltre alla pur utile esemplificazione giornalistica e alla sollecitazione di libri innestati nell’attualità. Nella parte finale del libro (in ogni senso cruciale e condivisibile) Sciuto mette a confronto con coraggio e indipendenza di giudizio il cosmopolitismo e il multiculturalismo, vedendo nel primo le condizioni di una confutazione del secondo. Anche in queste pagine (105 sgg.) si torna a praticare da parte di Sciuto una prospettiva finale e risolutiva del tutto condividibile di tipo universalistico contro i detrattori multicuturalisti dell’universalismo. É indubbio infatti che il modello sociale del “monoculturalismo plurale” di cui ha parlato Amartya Sen rappresenti la confutazione pratica dell’universalismo sociale, umano, istituzionale, tanto quanto il cosmopolitismo ne rappresenta la più radicale affermazione ultranazionale.

Credo di poter concludere con una presa di posizione teorica che non coincide con quella di Sciuto, sebbene non intenda svalutare il suo coraggioso “manifesto”, ma solo aggiungere elementi di una possibile complicazione, forse di una attenuazione più di stile teorico che di principio, del suo rigore superindividualistico in tema di anticulturalismo gruppale. Questo comporta certamente un mutamento di teoria rispetto a Sciuto che, tuttavia, rafforza per altra via il suo punto universalistico (e umanistico) di principio (cfr. il paragrafo 5.8 dedicato alla “prospettiva cosmopolitica”, in part. pp. 142-3). Sciuto prende le mosse da Seyla Benhabib per introdurre, discutere, criticare e (blandamente, bisogna ripeterlo) respingere le tesi di Habermas. Non sarebbe vero che gli obiettivi di un’identità collettiva sia meno rilevanti “dei valori di un’articolazione morale ed estetica del sé, perché essenzialmente “non può esserci un ‘io’ senza un ‘noi’. Habermas (Struggles for Recognition in tne Democratic Constitution, 1994, cit. a n. 61) accoglie esattamente questo schema: “Non è necessario un modello teorico diverso dal liberalismo classico per contemplare i diritti dei gruppi, perché (scrive) l’integrità di una persona giuridica individuale non può essere garantita senza proteggere le esperienze intersoggettivamente condivise e il contesto di vita nel quale la persona si è socializzata e ha costruito la sua identità”. Sciuto obietta che questo è certamente vero a patto che i diritti sociali, vitali, storici di una persona vengano “considerati secondari rispetto ai suoi diritti umani fondamentali”. Solo una prospettiva cosmopolitica coerente e radicale si attesterebbe, secondo Sciuto, oltre ogni aporia del liberalismo che riconosce i diritti di gruppo senza cedimenti sul criterio della accettazione della autonomia e della libertà degli individui, al vaglio della quale far passare qualunque richiesta di diritti collettivi: una blanda posizione antihabermasiana, abbiamo detto, che, comunque non respinge i diritti dei gruppi in quanto tali.

Assumo da Habermas e faccio mia la tesi che i diritti dei gruppi, da prendere come rispetto istituzionalmente garantito di prerogative che non si contrappongono all’individuo, né rischiano di danneggiarne l’autonomia, ma allargano la sfera culturale e identitaria di quello che come individuo resta saldamente al centro delle garanzie giuridiche dell’ordinamento politico, non comportino affatto una fuoriuscita dal liberalismo classico. Mi è successo di tornare a pensare quel che ho pensato a fronte della costante contrapposizione compiuta da Sciuto della teoria e della prassi liberaldemocratica dei diritti fondamentali attribuiti ad ogni singolo, alle pretese ultraindividuali anche solo più che individuali di chi non respingono i diritti dei gruppi. Siamo veramente certi che la liberaldemocrazia e i diritti umani fondamentali difendano un singolo, ogni singolo preso nella sua rigorosamente atomistica condizione esistenziale e istituzionale, o invece il valore semantico di “singolo” eccede i limiti un poco ideologici che gli attribuisce Sciuto? Non c’è bisogno di essere hegeliani (nulla vi sarebbe di strano, se è vero che in Hegel l’illuminismo contrattualistico ha esibito i suoi limiti, peraltro) per porsi questa domanda. Habermas pensa, si è visto, ad una identità che si costruisce contestualmente e socialmente. Sciuto, d’altra parte si oppone frontalmente ai diritti di gruppo che ospita tale contestualità delle identità individuali, ma si deve notare criticamente nei suoi confronti che, per quanto sia inaccettabile la pretesa dei diritti di gruppo di infrangere l’unitarietà giuridica di uno Stato, sembra comunque  farle difetto la sensibilità storica, ossia il gusto di affondare nella profondità storica in cui si radicano le esperienze intersoggettive, e il contesto di vita, e l’irruzione di una identità personale che non cessa di essere di ogni singolo per il fatto che si allarghi e si approfondisca lo spessore semantico e politico di ogni soggettività democratica singola.

Non si tratta di praticare il “ponziopilatismo”, per usare una irrituale espressione di Sciuto, ma piuttosto di proporre una seria correzione della modalità rigida vagamente punitiva della sua difesa liberale dell’individuo e della questione dei modi della presenza del problema dei diritti dei gruppi entro l’orizzonte normativo rigorosamente universalistico. Che pensiamo di fare: togliamo il sabato agli ebrei? Cancelliamo l’obiezione di coscienza dei medici, che certamente crea problemi e disagi alla eguaglianza tra i cittadini e rischia di punirne severamente le aspettative loro assegnate per legge, ma che ciononostante e con grande spirito di solidarietà e di altruismo, chiede di essere vista insieme a tanti fenomeni di identità ultraindividuale, e, per questa via, andrebbe comunque rispettata? Neghiamo il diritto a rifiutare il servizio militare per motivi etici o religiosi? Mi chiedo infine se la stessa Sciuto, dopo aver riproposto una versione  contraddittoriamente fluida e diveniente del nucleo normativo dell’integrazione politica (forse trascurando che possono essere aggiornati i contenuti del nucleo normativo stesso di una costituzione, ma i valori invece no, non vanno affatto “quotidianamente scelti”, come scrive, ma vanno tenuti trascendentalmente fermi a ‘sfidare’ la contingenza storica) non accolga silenziosamente la tesi di Habermas, che faccio mia , quale risposta corretta alla posizione di Sciuto, quando parla  della condivisione di un “nucleo normativo minimo, costitutivo di ogni demos” (p. 146). Ipotizzo che la singolare espressione (singolare perché la normatività di un demos costituzionalmente istituito e garantito, è semplicemente una normatività pura, è il normativo in quanto tale) ospiti l’espressione un poco oscura del fatto che quel nucleo che riguarda e difende i singoli cittadini di un ordinamento liberaldemocratico sia definito “minimo” perché sotto di esso non si può scendere. E ciò a ragione del fatto che lo strato di storia che entra nella fisionomia costitutiva di ogni singolo (le esperienze condivise, il contesto di vita di una persona, l’identità vitale, esistenziale e psicologica che la sottrae alla astrazione della singolarità vuota, facendone comunque un personaggio che nella filosofia politica di Hegel ha travolto le astrazioni del contrattualismo atomistico), è quell’elemento che non giustifica né autorizza l’istituzionalizzazione dei diritti di gruppo: ma certamente spiega come i diritti umani fondamentali siano una realtà che merita di essere riconosciuta come tale, nel senso specifico che in essa si rendono concreti elementi di vita dei singoli che arricchiscono persino la dimensione normativa di un concreto demos liberaldemocratico, saldamente impiantato sui diritti umani fondamentali e universali. Anche la storia singola e collettiva fa parte delle condizioni trascendentali che formano la struttura formale, valoriale, etica e in primo luogo giuridico-politica di una società liberaldemocratica. Sciuto sembra, come si diceva, averlo un poco trascurato nel suo non casuale “Manifesto”. Ogni manifesto corre il rischio di essere assertivo, impositivo, insufficientemente aperto ed elastico sul piano teorico. Questo, d’altra parte, è il suo merito e insieme il suo limite.