Venire a Roma/Restare a Roma. Forestieri e stranieri tra Cinque e Settecento



Abstract:

Con il titolo Stranieri a Roma (secc. XVI- XIX), veniva inaugurata, nel 1993, l’uscita del primo numero della rivista «Roma moderna e contemporanea», che si apriva proprio con questa sezione monografica. In quell’occasione Liliana Barroero ed Irene Fosi sottolinearono la grande attualità del tema, la complessità delle fonti e la mancanza di studi specifici sugli stranieri a Roma fra Cinque e Settecento; le studiose suggerirono una direttiva per la ricerca: superare l’istituzione, intesa come confraternita nazionale o ospedale «per considerare più da vicino l’individuo e il suo gruppo di appartenenza, veicoli di scambio sociale e culturale con la ricettiva e polimorfa società romana».

Venire a Roma/Restare a Roma. Forestieri e stranieri tra Cinque e Settecento Università degli studi di Roma Tre, Dipartimento di Studi Umanistici. (28- 29 aprile 2014)

Con il titolo Stranieri a Roma (secc. XVI- XIX), veniva inaugurata, nel 1993, l’uscita del primo numero della rivista «Roma moderna e contemporanea», che si apriva proprio con questa sezione monografica. In quell’occasione Liliana Barroero ed Irene Fosi sottolinearono la grande attualità del tema, la complessità delle fonti e la mancanza di studi specifici sugli stranieri a Roma fra Cinque e Settecento; le studiose suggerirono una direttiva per la ricerca: superare l’istituzione, intesa come confraternita nazionale o ospedale «per considerare più da vicino l’individuo e il suo gruppo di appartenenza, veicoli di scambio sociale e culturale con la ricettiva e polimorfa società romana».

A distanza di più di vent’anni da quel contributo, il tema degli stranieri venuti d’oltralpe e dei forestieri provenienti dagli Antichi Stati Italiani in età moderna è ancora al centro dell’interesse degli storici. Gli organizzatori del seminario Venire a Roma – Restare a Roma. Forestieri e stranieri tra Cinque e Settecento – Sara Cabibbo, Maria Lupi, Domenico Rocciolo, Francesco Russo, Alessandro Serra– hanno voluto riprendere quella indicazione di ricerca per avviare un sondaggio sulla fisionomia di quanti si insediavano a Roma, attraverso documenti che ne testimoniassero le scelte matrimoniali, abitative, lavorative e religiose. Nelle intenzioni degli organizzatori, infatti, l’obiettivo specifico del seminario era quello di verificare se e come una ricerca su stranieri e forestieri possa indurre lo storico non tanto a riconsiderare le acquisizioni bibliografiche sul tema, quanto a porre nuove domande alle fonti e ad analizzare la documentazione ed il suo contesto di produzione alla luce di nuovi punti di vista.

Il seminario si è articolato in due giorni e tre sessioni, concepite per essere parallele e speculari le une alle altre. Nella prima ha prevalso l’attenzione alle fonti; nella seconda hanno trovato spazio i percorsi di mestiere, tema che ha dato spunto a nuove questioni storiografiche in parte emerse nella giornata precedente; infine la terza sezione è stata destinata agli individui e ai gruppi di altre religioni, soprattutto ebrei e moriscos. Il seminario è stato introdotto da Sara Cabibbo che ne ha delineato le linee guida, iniziando proprio dal tipo d’incontro: un vero e proprio seminario tra studiosi, organizzato per porre le basi di un laboratorio di ricerca in cui coinvolgere esperti di varie discipline. Ha inoltre indicato le parole-chiave – arrivare, abitare, lavorare, pregare, sposarsi, morire –, da cui erano partiti gli organizzatori del seminario, facendo tesoro dei recenti approcci sociologici e storiografici, attenti a mettere in luce i diversificati meccanismi dell’inurbamento in Antico Regime. L’attenzione a questi concetti-chiave consentirà di analizzare più da vicino le dinamiche della dislocazione di forestieri e stranieri a Roma, e di guardare a quest’ultima come ad una città aperta, nel cui tessuto abitativo – solo in parte costituito da romani autoctoni – si vanno progressivamente inserendo individui e gruppi provenienti da altre realtà territoriali. Un invito, quello della relatrice, a non considerare più quest’ultimi come immigrati, ma come fautori di un lungo processo di inserimento, di mediazione con i propri connazionali ed inurbamento all’interno della città; una prospettiva che, a sua volta, determina una riflessione sui concetti di identità e di confine- frontiera, vista la grande porosità dei confini in età moderna e la flessibilità che assume il termine di appartenenza.

La prima sessione – Archivi e tipologie documentarie – è stata coordinata da Angiolina Arru, che ha ricordato la straordinaria congerie di fonti che offre la città di Roma agli storici, riferendosi in particolare agli stati delle anime e alle posizioni matrimoniali. Tipologie documentarie del tutto inesistenti nel resto d’Europa, esse hanno sottratto all’oblio della memoria nomi, cognomi, vicende biografiche, che hanno consentito agli storici di ricostruire parentele, reti famigliari, profili biografici, rivelatisi alla base della microstoria. Quali sono oggi, si è chiesta la studiosa, le nuove domande che possiamo rivolgere a questa inesauribile fonte? All’interrogativo ha risposto per primo Francesco Russo, dottore di ricerca in Storia del cristianesimo, con la relazione “Sono et non sono di comunione”. Le tracce dei forestieri negli Stati delle Anime, in cui ha utilizzato questa fonte per condurre una ricerca di taglio demografico per individuare la presenza straniera in alcune parrocchie di Roma: quelle “esterne” come S. Maria del Popolo e S. Lorenzo in Lucina; quelle centrali come S. Vincenzo e Anastasio a Trevi, Ss. Dodici Apostoli e la chiesa del Palazzo Colonna. Dall’indagine è emersa la significativa presenza di piemontesi, toscani, napoletani, siciliani e maltesi, giunti a Roma per inserirsi nel commercio cittadino o nella Curia. Premettendo che la fonte non indicava sempre la patria d’origine, i dati di rilevazione prescelti (nome di battesimo, nome del pater familias, età dei minori, nazionalità e lavoro), hanno confermato che romani e non romani convivevano stabilmente all’interno della città: un’indicazione che è stata ribadita anche dalle altre informazioni, fornite dagli stati delle anime, sui mestieri e i matrimoni degli individui censiti.

Russo si è poi soffermato sulla parrocchia di S. Maria del popolo, tra la cui popolazione in costante crescita si trovano registrati 220 forestieri: una presenza costante fino agli anni Venti del Seicento, scesa nel decennio successivo a 130 individui, quasi tutti provenienti dal Granducato di Toscana. Diverso il trend della parrocchia di S. Lorenzo in Lucina in cui gli stati delle anime registrano nel medesimo periodo un costante calo della di forestieri. Quanto alla distinzione per genere si constata un’iniziale parità di uomini e donne a cui fa seguito negli anni successivi una maggioranza di maschi, per lo più scapoli: un dato, registrato in quasi tutte le parrocchie analizzate (fa eccezione S: Maria del Popolo), sulla base del quale Russo si è chiesto se il matrimonio tra forestieri e romane non rappresentasse una possibile strategia di’inurbamento. Per quanto riguarda il mestiere, gli uomini, soprattutto se giovani, si impiegavano come domestici e garzoni, osti, tavernieri, affittacamere e – nel caso dei Toscani – lavoratori nelle vigne. Nel campo della ristorazione e dell’accoglienza erano attive anche molte donne, che non di rado gestivano in prima persona l’attività.

Il secondo intervento, Le posizioni matrimoniali nel XVII secolo, è stato presentato da Benedetta Albani – dottoressa di ricerca e attualmente collaboratrice del Max – Planck -Institut für europäische Rechtsgeschichte di Francoforte – che ha lavorato sulle posizioni matrimoniali, i cosiddetti «processetti», anch’essi conservati presso l’Archivio storico del Vicariato di Roma. La fonte – un corpus di 610 posizioni matrimoniali tra 1608 e 1624 che contiene i documenti presentati dai nubendi per l’ottenimento dell’autorizzazione al matrimonio – fotografa un momento particolare della vita dei futuri sposi in cui non c’era certezza che la richiesta sarebbe stata esaudita. Si tratta di un tipo di documentazione, ha sottolineato la studiosa, che ha avuto da parte degli storici italiani minor attenzione gli stati delle anime. Nel caso di matrimoni che coinvolgevano i forestieri, essa offre indicazioni interessanti perché si richiedeva anche la deposizione dei testimoni, per evitare eventuali casi di bigamia. Quanto ai dati rilevati – nazionalità, sesso e occupazione – la presenza di matrimoni fra romani è esigua (29% per gli uomini e 51% per le donne). Estremamente varie le nazionalità (africana, turca, francese), con un presenza tedesca e fiamminga decisamente molto elevata, legata ai mestieri dell’arte pittorica e figurativa; poco presente quella slava. A proposito Albani ha sottolineato l’influenza dei pontefici sulla committenza di opere d’arte e sull’impiego di maestranze, così incisiva da determinare la predominanza di una nazionalità. Dopo essersi rapidamente soffermata sui mestieri degli stranieri e sui settori in cui si trova traccia di essi (corporazioni, edilizia, arte dei medici e degli speziali, appannaggio – quest’ultima dei romani), e alluso ai legami fra il nuovo forestiero i membri sua famiglia d’origine già stanziati a Roma, la relatrice ha poi illustrato i dati che emergono dai matrimoni: le unioni tra straniero/a nativo/a erano prevalenti rispetto a quelle fra nativi; seconde però a quelle tra due individui entrambi forestieri. Per gli immigrati da terre più lontane (africani e turchi) si registra un certo numero di conversioni, mentre svizzeri, spagnoli e fiamminghi appaiono più disponibili a matrimoni misti. Le donne romane risultano più inclini ad un matrimonio misto rispetto ai romani probabilmente perché maggiori erano le garanzie offerte da uno straniero operoso che, con le nozze e l’acquisizione della dote, poneva fine alla sua condizione di immigrato. Albani non ha riscontrato rioni specifici nella città in cui queste nuove coppie andavano a risiedere: tutte le parrocchie registrano infatti la presenza di coppie miste. Le relazioni dei testimoni hanno poi confermato che il tessuto residenziale permetteva, se non incoraggiava, relazioni di amicizia tra le famiglie anche prima del matrimonio, sicché il rione e la parrocchia si riconfermano luoghi ad altissimo potenziale sociale per persone provenienti da contesti, nazioni ed esperienze diverse.

In continuità con questo intervento si è posta la relazione Le posizioni matrimoniali nel XVIII secolo di Domenico Rocciolo, direttore dell’archivio storico del Vicariato di Roma. Sottolineando che la storiografia ha bisogno di fare un passo in avanti rispetto ai tradizionali approcci demografici per capire chi fossero davvero i protagonisti di queste carte e per comprenderne la storia, il relatore ha suggerito di accostarsi alla posizioni matrimoniali non per tracciare una storia del matrimonio ma per individuare identità e storie di vita di uomini e donne, dal momento che dietro ogni carta c’è una persona. Proprio in rispetto di queste identità Rocciolo ha riportato alcune suggestioni provenienti dalla documentazione: come la definizione di vagantes – ben diversa dal termine odierno di vagabondi – attribuita a tutti coloro che non facevano di nessuna città la loro dimora. Individui privi di documenti che vivevano di elemosina, i vagantes furono oggetto di particolare attenzione da parte delle autorità ecclesiastiche per evitare casi di bigamia, come dimostrano una notifica del Vicariato e diversi interventi del S. Uffizio. Ricordando che molte altre informazioni in materia di suppliche e dispense matrimoniali si possono ricavare dagli archivi della Penitenzieria Apostolica, Rocciolo ha poi ricordato le richieste inoltrate al vescovo da parte dei nubendi per una riduzione delle pubblicazioni matrimoniali, in cui era anche allegata una documentazione che ne giustificava la motivazione. Sulla base delle sue indagini e delle sollecitazioni nate dalle fonti, il relatore ha poi invitato a porre attenzione al lessico della documentazione in cui figurano i termini di miserabilissimi, esposti, proietti, orfano, poverissimo. Si tratta allora di comprendere le realtà di vita di questi soggetti, per i quali la mancanza di un mestiere denotava la loro definizione; e si tratta anche di mettere a fuoco gli atteggiamenti di ostilità, maldicenza e calunnia della popolazione: atteggiamenti riscontrabili, ad esempio, nella definizione di disertori – molto lontana dalla nostra accezione – che ci fa interrogare su come era percepito uno straniero che si impiegava nella carriera militare pontificia, generalmente ambita dagli stranieri. Un invito dunque, quello di Domenico Rocciolo, ad affinare le domande e gli strumenti di ricerca per accostarsi al tema della componente straniera e forestiera della popolazione romana.

L’intervento successivo è stato condotto da Irene Fosi (Università di Chieti-Pescara) e Daniel Ponziani (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede). La loro relazione I Decreta del S. Uffizio: stranieri davanti agli inquisitori si è articolata in una prima parte in cui Ponziani si è soffermato sulla storia del S. Uffizio e sulle carte che sono conservate nel suo archivio, mettendo in evidenza le finalità del Tribunale, nato con la bolla Licet ab initio del 1542, e le piste di studio in materia teologico -dottrinale, ma anche amministrativa e giudiziaria, che le sue fonti offrono. Sulla base della sua esperienza di ricerca condotta presso il S. Uffizio, Fosi ha proposto, come via di conoscenza e approccio alla storia e alle procedure di questo Tribunale, una metodologia che comporti l’incrocio di più fonti: la corrispondenza, le suppliche, le Decretali. Per il Seicento gli studiosi possono avvalersi dei numerosi volumi rubricati, contenenti i nomi degli stranieri: prima, indispensabile, tappa per rintracciare fra le maglie del Tribunale gli individui e seguirli come veri e propri case studies. In questa nuova ottica, completamente rovesciata rispetto a quella tradizionale, fondata sulle fonti normative, è possibile vedere straniero muoversi nel contesto del Sant’Uffizio, prima e dopo eventuali denunce: un approccio che consente non solo di seguire il percorso individuale, ma anche – nella lunga durata – il mutato atteggiamento del tribunale rispetto ad alcuni crimini, derivante da una serie di circostanze. La percezione del crimine, lo status dell’accusato e la sua identità professionale, la congiuntura internazionale e i rapporti della Chiesa con altre potenze europee, la presenza o meno del pontefice alle decisioni del S. Uffizio, determinavano infatti un continuo oscillare tra atteggiamenti lassisti o persecutori, di cui la studiosa ha potuto registrare continuità e involuzioni nel corso dei suoi studi. Fosi si è soffermata poi sulla «geografia della conversione», sulle sinergie tra cardinal Vicario e sant’Uffizio laddove si verificasse un caso non di competenza di quest’ultimo, come la sodomia, e sulla normativa che, a partire dalla bolla Contra ereticos, vietava espressamente l’ingresso in Italia a quanti provenivano da paesi non cattolici. Limitati numericamente furono i casi di eretici espulsi o invitati ad uscire dai confini dello Stato a seguito della decretata espulsione, nei cui confronti mancò di fatto una ferrea e incontrovertibile cacciata. Le espulsioni e la messa in atto delle normative dipesero molto dai periodi e dallo status dei protagonisti: alla cacciata degli stranieri si preferì infatti un’azione preventiva di persuasione volta alla conversione. Fosi, infine, ha indicato alcune linee di ricerca per ricostruire la presenza di stranieri attraverso la documentazione del S. Uffizio: elaborare una casistica più evidente, ricostruire le reti di collaborazione dell’Inquisizione, facendo emergere l’apporto di professionisti, medici, cardinali che fungevano da supporto alle pratiche d’indagine sugli stranieri.

Nella seconda giornata del seminario, divisa in due sessioni, si è dato spazio ai gruppi, nazionali, religiosi, etnici. Il primo panel tematico, coordinato da Maria Lupi, è stato inaugurato da Alessandro Serra, dottore di ricerca e borsista presso l’Université de Liège, con la relazione Nationes, Stati, “piccole patrie”. Dinamiche associative e scelte devozionali dei forestieri, incentrata sulle confraternite nazionali. Sottolineando come l’aspetto comunitario rappresentasse il collante di queste strutture laico -devozionali, Serra ha rilevato come le confraternite nazionali mitigassero il senso di sradicamento dei forestieri, ponendosi al contempo come strumento di controllo dell’alterità e struttura di accoglienza e controllo degli inurbati. Sul piano storiografico e metodologico, il relatore ha proposto di superare i fondamentali studi di Fiorani, basati sull’accoglienza degli stranieri censiti su base nazionale poiché da indagini recenti è emerso che soltanto in prima battuta i forestieri si orientavano verso le confraternite nazionali di riferimento. Piuttosto che antesignane dell’odierno welfare, esse appaiono viceversa, come un ente complesso e multifunzionale, che si radicava in un contesto in cui la vocazione universalistica del potere pontificio comportava, implicitamente, la possibilità per chiunque arrivasse in città di sentirsi a casa propria; di conseguenza, ogni comunità aveva un proprio modo di percepirsi ed essere percepita rispetto alla città, dando vita ad una struttura composita dell’identità comune. Serra si poi soffermato sui culti e le pratiche nazionali liturgiche di alcune confraternite (Fiorentini, Bergamaschi), che costituiscono un importante indicatore dei percorsi di costruzione delle identità dei forestieri a Roma.

Le confraternite sono state anche al centro dell’intervento di Audrey Virot (Université Paris-Sud), dal titolo Le peregrinazioni delle confraternite francesi (secc. XVI-XVII) . La studiosa si è soffermata sulle ragioni che spingevano i francesi a recarsi a Roma: il pellegrinaggio sulla tomba degli apostoli, la frequentazione della Curia per ottenere una grazia, e infine l’arte: il più forte motore attrattivo che condusse artisti, curiosi e turisti ante litteram ad affollare la città nel corso del Rinascimento. Bretoni, lorenesi e borgognoni costituivano una presenza uniforme nella città, riunendosi in numerose confraternite. Soffermandosi in particolare sui Bretoni, tra i primi a risiedere stabilmente a Roma, Virot ha illustrato le dinamiche socio-politiche che caratterizzarono la presenza della comunità francese a Roma, a partire dalla metà del Cinquecento: quando la casata dei Valois, con Caterina de’ Medici, dette inizio ad una strategia di rappresentanza e visibilità francese nella città del papa, come dimostra la percentuale dei benefici concistoriali a favore dei cardinali francesi, e la donazione di alcune case presso Palazzo Madama nel 1589 per fondare una nuova chiesa. Come pista di ricerca per rintracciare la popolazione francese, Virot ha suggerito infine le carte degli ospedali romani, dal momento che i pellegrini e i viaggiatori francesi malati non erano accolti presso gli ospizi della natione.

Nel corso del suo intervento Per una statistica dei musicisti europei a Roma tra 1650 e 1750: saggio dai dati raccolti nel database “Musici”, Michela Berti (Université de Liège –Marie Curie Program) ha presentato un database ancora in costruzione, realizzato grazie ad una ricerca statistica sulla presenza dei musicisti a Roma. La categoria si presenta quanto mai emblematica per lo studio degli stranieri e dei fenomeni di migrazione: musici e musicisti europei infatti erano soliti soggiornare in Italia per affinare la propria tecnica, approfondire il proprio stile musicale, in un clima di continui scambi culturali. Dopo aver illustrato la metodologia seguita nell’indagine, che ha registrato la presenza di 500 musicisti ultramontani (cantanti, strumentisti, costruttori di strumenti, ecc.) a Roma, Venezia e Napoli, Berti ha segnalato che l’arco cronologico preso in esame è quello del maggior afflusso a Roma di musici d’oltralpe (soprattutto da Germania e Francia, Fiandre e Portogallo). Ciò per una serie di fattori e occasioni (l’apertura di teatri, la strutturazione degli oratori e delle cappelle musicali, il carnevale) che incentivarono quella presenza a Roma di musici stranieri, spesso di lungo periodo, che raggiunse il suo picco o negli anni Ottanta del Seicento, quando l’immagine musicale di Roma si va cristallizzando, a vantaggio dell’apertura di un fiorente mercato professionale della musica. Berti ha infine presentato due casi di studio riguardanti una famiglia di musicisti ed un cantore della cappella Pontificia.

Nella relazione Il lavoro “mobile”. Modelli e percorsi di mobilità professionale Eleonora Canepari (University of York) ha preliminarmente definito il concetto di lavoro in Antico Regime, caratterizzato da una forte mobilità professionale, da un dinamismo disinvolto che permetteva di cambiare frequentemente mestiere, dalla dicotomia tra lavoro “corporativo” e lavoro svolto fuori dalla disciplina delle corporazioni, ed infine dalla discontinuità e, spesso dalla mancata remunerazione: elementi che sfuggono dal classico modello di occupazione e dalle sue fonti per diventare oggetto di ricerca della microstoria. Sulla base delle proprie ricerche, Canepari ha proposto una metodologia rivolta a ricostruire i percorsi biografici, che consente di seguire l’individuo nei cambiamenti di lavoro, misurandone così l’effettiva mobilità.. La studiosa ha infine presentato un database realizzato per analizzare le carriere mobili a Roma fra il 1647 e il 1725, basato sul fondo dell’Ospizio Apostolico del San Michele e sui dati forniti dai poveri nel momento dell’ammissione: lo scopo era quello di dimostrare, pena l’espulsione come vagabondo, l’impossibilità di lavorare a causa dell’insorgere di una malattia. Da questa fonte, che registra quasi esclusivamente uomini, emergono indicazioni interessanti su una serie di mestieri e sulle diverse condizioni di precarietà di ciascuno di essi.

La terza e ultima sessione, dedicata a Ultramontani, Ebrei, Moriscos e presieduta da Marina Caffiero, si è aperta con la relazione Mercanti eretici di Angela Groppi (Università “La Sapienza). Il punto di partenza da cui la studiosa s’è accostata al tema è stata quella della circolazione delle merci, a cui – contrariamente che per il Medioevo – la storiografia di età moderna ha dedicato scarso interesse. Poco studiate sono infatti le ripercussioni che la riforma protestante ha avuto sui flussi commerciali per il territorio italiano, soprattutto per quanto riguarda lo Stato della Chiesa. I flussi umani e commerciali protestanti dal Cinquecento in poi furono oggetto del controllo dell’Inquisizione romana, attenta ad evitare il contagio delle dottrine eretiche. E tuttavia, nonostante la rigida normativa espressa ad esempio dalla bolla di Pio V, che riguardava anche le attività commerciali, nella prassi si riscontra una situazione ben diversa, fatta di tacite convivenze e di mancanza di rispetto nei confronti dell’intransigenza normativa dei pontefici. L’impossibilità di controllare tutti i mercanti stranieri, da un canto, e la necessità di non ostacolare commerci e scambi, dall’altro, fecero dunque sì delineasse un delicato equilibrio tra presenza eretica e la chiesa di Roma: una sorta di tolleranza de facto, sintomatica del mutare degli atteggiamenti di Roma verso lo straniero. Il controllo dell’istituzione ecclesiastica sui mercanti stranieri si mutò in strategia persuasiva in vista di possibili conversioni, che solo in caso di effettivo pericolo per la Chiesa si trasformava in denuncia e repressione. Sintomatica di questa situazione è la documentazione conservata presso l’archivio dei Pii Stabilimenti francesi a Roma, che ha evidenziato la presenza di gruppi di mercanti calvinisti, stabili a Roma da decenni. L’importante era non dare scandalo per non incappare nella denuncia e nella cacciata dalla città» ; gli interessi riuscirono così a moderare il rigore, avendo come risultato ultimo un doppio registro dettato dal conflitto tra interessi economici ed esigenze di salvaguardia della fede.

Giovanna Sapori (Università di Roma Tre) ha presentato la relazione La presenza degli artisti nordici fra Cinque e seicento. Costanti e variabili, ricordando che il viaggio a Roma era compiuto da artisti, pittori, architetti, stuccatori, incisori, e stampatori, di ogni nazionalità: soprattutto francesi e tedeschi, giunti per studiare l’antico, i maestri moderni ed ovviamente per cercare lavoro. A partire dai dati emersi dalla schedatura di una raccolta di biografie di artisti del Nord dal Quattrocento in poi, la studiosa ha ricostruito la provenienza degli artisti e la loro condizione sociale, ricavando anche notizie sulle modalità del viaggio, le tappe effettuate, la sistemazione a Roma (in locanda, o presso un prelato o dei connazionali), la specializzazione dell’artista e come egli cercava lavoro. Presentando i risultati della ricerca, si è soffermata sui «lavori- ponte»: come il mestiere di cartonista, che pur essendo ben diverso da quello di pittore, era alla base del curriculum e parte di una faticosa gavetta che non di rado poteva condurre al successo». Dai curricula analizzati appare una certa uniformità nelle aspirazioni degli artisti, ossia dipingere un’opera destinata all’esposizione in pubblico, come una pala d’altare per una chiesa, che offriva dunque una visibilità totale. Sapori si è infine soffermata sulla provenienza sociale degli studenti, molto eterogenea. Per quest’ultimi, come per gli artisti, l’esperienza italiana si poneva come un valore aggiunto sul curriculum, un momento formativo di estrema importanza per la sua carriera di un artista. La ricerca è ancora in corso, ha concluso la relatrice, e proprio la prosecuzione dello studio prosopografico dei pittori si pone come corsia preferenziale per indagare le commistioni tra individui stranieri e pittori romani in età moderna.

Nel suo intervento Ebrei forestieri a Roma (secc. XVII-XVIII) Micol Ferrara (Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma) ha presentato una sua ricostruzione multimediale del ghetto di Roma dall’istituzione all’ampliamento leonino, per ricollocare le persone nei luoghi in cui vissero: un prodotto realizzato attraverso le fonti conservate presso l’Archivio storico della Comunità Ebraica di Roma, l’Archivio di Stato di Roma e l’Archivio Storico del Vicariato di Roma, che non soltanto ricostruisce come il ghetto è cresciuto su se stesso, ma che dà conto dell’avvicendarsi di donne e uomini ebrei stabilitisi a Roma in epoche diverse. Particolare attenzione la Ferrara ha dedicato alla Scola Nova, dalle cui carte sembrano emergere molti dati utili a rintracciare nomi, date e provenienza di questo eterogeneo inurbamento di ebrei. Ripercorrendo la storia delle numerose sinagoghe esistenti prima della costituzione del ghetto – dense di un’eterogenea umanità fatta di tedeschi, francesi, catalani, romani e non romani – la relatrice ha ricordato come la normativa imposta da Paolo IV e i suoi successori stabilì un solo luogo di culto. Le cinque Scole (Scola Nova, Scola Tempio, Scola Catalana, Scola Castigliana, Scola Siciliana; solo nel 2011 le ricerche di Giancarlo Spizzichino hanno documentato l’esistenza di una Sesta Scola fuori dal ghetto, più precisamente nel ghettarello) furono così accorpate in un unico edificio. Le fonti esaminate dalla studiosa presentano interessanti e variegate tipologie documentarie come gli istrumenti stipulati a Roma dagli ebrei, materiale relativo al ruolo delle confraternite o le carte inerenti dispute tra le Scole. L’indagine potrà estendersi attraverso lo studio delle reti di parentela, ricostruibili su base onomastica, e sui mestieri più diffusi, fra cui si possono già individuare quello, prevalente, di commerciante, negoziante venditore; per le donne invece di cucitrici e maestre. Un’indagine onomastica basata sulla documentazione delle Scole potrebbe essere integrata con i dati provenienti dai protocolli notarili nel prosieguo della ricerca. A conclusione, Ferrara si è soffermata sulla sua attuale ricerca sulla famiglia Toscano, banchieri, giunti da Firenze a Roma nel XVI secolo, dove aprirono un Banco a Piazza Navona. Costoro legati alla Scola Nova – le donazioni effettuate sono ben documentate nelle ricerche di Daniela Di Castro – investirono nel ramo immobiliare, acquistando porzione di case in Via Rua, allora la via più lunga del ghetto, tanto che una piazza del ghetto ne prese il nome “piazzetta dei Toscano”. Giunti da località differenti, gli ebrei non romani si insediarono stabilmente. L’ arrivo di ebrei forestieri a Roma, comunque, non seguiva la sola direttrice del Ghetto, ma poteva dirigersi verso la casa dei catecumeni e neofiti, in questo caso l’indagine della studiosa ha interessato 4 anni campione: il 1705, il 1735, il 1765, il 1795.

Nel suo intervento Insediamento e socialità dei moriscos nella città del papa Bruno Pomara Saverino (dottorando di Storia Moderna presso l’Universitat de València) ha presentato i primi risultati della propria ricerca su una tematica pressoché sconosciuta nella storiografia italiana. Ex musulmani rimasti in Spagna dopo la reconquista, e oggetto di conversioni di massa tra Quattro e Cinquecento, mai chiarite del tutto tra quattrocento, i moriscos. furono espulsi tra 1609 e 1614 dando vita ad una diaspora che coinvolse 300.000 individui. Soggetto storico controverso, mai espulsi da Paolo V contrario poiché considerati un possibile nemico disposto ad allearsi con i turchi, e processati dal Sant’Uffizio non come infedeli – poiché erano battezzati – ma come apostati, essi non furono in genere considerati come un gruppo omogeneo, ma furono oggetto di un modus procedendi ad personam. Le politiche pontificie tendenzialmente ne ostacolarono la condizione di stanziali, soprattutto per gli individui adulti, accogliendo solo i bambini; ma d’altra parte lo scoraggiamento dell’ondata migratoria (le autorità portuali bloccarono li bloccarono a Civitavecchia) non riuscì a frenare lo stanziamento a Roma di individui che di fatto erano cristiani cattolici. Accolti in Toscana dove vennero impiegati per ripopolare le maremme grossetane, i moriscos approdati sulle coste si diressero a Roma, riponendo fiducia nell’intervento del papa, evidentemente considerato un interlocutore più mite del sovrano spagnolo. Pomara ha individuato nel rione Campo Marzio di Roma il nucleo della comunità morisca a Roma, come appare dalla documentazione delle parrocchie di S. Maria del popolo, S. Lorenzo in Lucina ed altre che ospitavano la colonia spagnola romana. Questi luoghi costituivano dunque per loro una grande attrattiva perché vedevano nella presenza dei connazionali una possibilità d’appoggio, e collaborazione con gli spagnoli, anche nobili ed ecclesiastici. Un dato che emerge dalle fonti è infatti, per esempio quello, di vedove di moriscos che affittavano case di proprietà a sacerdoti spagnoli. Al contrario, Roma non si identificò mai con questi soggetti espulsi dalla Spagna, ed essi restarono “clandestini” per la città, anche se gli stati delle anime ne registrarono la presenza. Nei registri del 1614 si trova la dicitura indi «spagnolo m.», dove la m sta per morisco. Soprattutto di provenienza castigliana (i moriscos di Valenzia si convertirono per lo più all’islam), questi soggetti e gruppi sono difficili da rintracciare perché si sono dissolti fra gli spagnoli, parlando questa lingua, vestendo alla spagnola e praticando la religione cattolica; difficile quindi individuare senza ombra di dubbio i moriscos, tanto più che essi preferivano non esibire la loro doppia appartenenza e che i parroci li hanno spesso registrati come spagnoli, senza dare notizia delle loro attitudini religiose. Lasciando in sospeso la domanda se i figli di matrimoni misti sono da considerarsi moriscos, Pomara ha poi messo in luce i meccanismi di stanziamento di questi individui a Roma, registrandone la presenza alle messe domenicali o negli ospedali e ricordando le donazioni testamentarie fatte soprattutto al S. Giacomo, sede dell’unica cappella che conservasse una statua di San Giacomo Matamoros. L’incremento della mortalità emersa dalla documentazione negli anni 1621-1623, accompagnato da un congelamento della natalità dovuto a numerose morti bianche, lasciano ipotizzare secondo Pomara hanno che l’ambiente abitativo dei moriscos, (la zona del borghetto vicino al porto di Ripetta) fosse particolarmente malsano, ideale focolaio di epidemie circoscritte. Quanto ai mestieri da essi svolti, erano umili: scaricatori di porto, come sembra testimoniare la residenza nei pressi di Ripetta, ortolani e contadini, ciabattini. La frequenza dei sacramenti diventava, allora, uno strumento di legittimazione pubblica per i moriscos di Roma; battezzarsi e sposarsi qui significava per loro, accusati di essere cattolici “a metà”, fare pubblico sfoggio della propria fede, mostrarsi a tutti come buoni cristiani. Nei battesimi prevalevano le madrine italiane, poche spagnole e pochissime morische; nei matrimoni, viceversa, i testimoni risultano essere più moriscos che spagnoli, probabilmente perché la legittimità dell’unione era ricercata tra i vicini – conosciuti nella precedente vita spagnola – che potevano testimoniare sulla mancanza di matrimoni pregressi.

Nell’intenso e vivace dibattito che ha chiuso le due giornate seminariali, sono stati riassunti i nodi problematici espressi dalle relazioni e le piste d’indagine da seguire per il futuro (riflessione sul lessico, identità “meticcie”, prosopografia, fonti). Concordi ad accostarsi ai fenomeni dell’inurbamento e della ricostruzione della composita popolazione romana nell’ottica indicata dalla relazione iniziale e perseguita dai relatori, i partecipanti al seminario si sono mostrati interessati a continuare la ricerca. L’indagine proseguirà dunque nel prossimo anno, anche con l’apporto di altri studiosi che hanno già manifestato il loro interesse.