Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus


Abstract: Stiamo davvero vivendo un tempo “speciale”, un passaggio d’epoca, una condizione che per la sua straordinarietà verrà – come si suol dire – ricordata nei libri di storia?
Cos’è un’epidemia? Che forme hanno lo spazio e il tempo in una condizione di “quarantena”, di “clausura”?
Come si vive, si lavora, si studia e si scrive, come ci si muove entro confini imposti?
Come cambia la percezione dei bisogni e della necessità, della salute e della malattia, delle libertà individuali e della responsabilità collettiva di fronte al rischio – alla paura – del contagio e alla consapevolezza della eccezionalità?

In questo spazio, in un momento così particolare, per una volta, vorremmo fare una cosa forse insolita per una rivista di storia: osservare il tempo attuale e i fenomeni che lo segnano attraverso sguardi obliqui e non per forza convergenti, allontanando e ravvicinando il punto di osservazione, condividendo interpretazioni, letture, esperienze e questioni di metodo che possano contribuire a riportare le inquietudini e le sollecitazioni del presente sul piano del confronto delle idee.

Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus

Passaggio in India in tempo di Coronavirus 

di Elena Tommaseo

Mi trovo in India, a New Delhi, dove vivo da diversi anni e da qui entro in questa nuova, perché così sicuramente sarà, pagina di storia della nostra umanità.

Tutto è accaduto così in fretta, nessuno di noi ha avuto il tempo per prepararsi mentalmente e tecnicamente ad un isolamento improvviso e quasi totale, e penso, se non avessimo internet?

Ogni Paese verrà segnato a modo suo, ogni individuo altrettanto, credo che tutto quello che questa esperienza ci lascerà, per chi ne uscirà incolume, sarà del tutto proporzionale al proprio atteggiamento; uomini e governi. Ha il sapore di un esperimento e, al di là della tragedia immensa, un momento interessante.

Io, con il cuore e il corpo qui, in quella che è, senza ombra di dubbio, la mia casa. Io, che però ho tanti affetti in Italia, che è, e sempre resterà, la casa nel mio cuore. Io che vedo partire questo virus impazzito ed abbattersi ferocemente proprio lì, dove vive la mia famiglia, dove vivono i miei parenti e gli amici di una vita. Da lontano assisto a questo tornado che s-travolge tutto con una velocità spaventosa, con il cuore in pena, mentre qui siamo immersi in una serie di avvenimenti interni, anche tragici, che già mi hanno ferito profondamente nell’anima, come mai avrei potuto credere, e continuano a far male.

Il 5 di Agosto, il governo ha revocato l’articolo 370 della Costituzione indiana del 1947, di conseguenza l’intera regione di Jummu&Kashmir è stata derubricata a «territorio dell’unione» facendola passare sotto il controllo diretto di New Delhi. Il Ladakh, che faceva parte della regione del Jummu&Kashmir, è stata scorporata e diventa un territorio a sé. Ora la popolazione dal resto dell’India avrà diritto ad acquistare proprietà nello stato federato e/o a stabilirsi in pianta stabile in una regione considerata off-limits dal 1947 al 2019. Dal 5 di Agosto 2019 il Kashmir si è trovato in un lockdown anticipato, senza telefoni, Internet e in coprifuoco e gli esponenti politici ai domiciliari.

Poi a Dicembre c’è  stato l’emendamento sulla Citizenship Act del 1955 (CAA), che riduce da 11 a 6 anni il periodo di residenza in India per poter essere eleggibili alla cittadinanza. Inoltre, nel caso di individui Hindu, Sikh, Buddhisti, Jainisti, Parsi e Cristiani arrivati da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh prima del 31 Dicembre 2014, e intesi come rifugiati politici provenienti da Paesi di maggioranza islamica, non si rende necessaria l’esibizione di documenti facendoli così passare da clandestini a cittadini. In questo caso il diritto di cittadinanza può essere reclamato anche dopo soli 5 anni di residenza. Il solo fatto che la comunità Musulmana non sia citata, rende di fatto clandestini i musulmani residenti in India dal 31 dicembre 2014 e deportabili coloro che non possono esibire un certificato di nascita, o quello dei propri genitori, sul territorio indiano prima della suddetta data.

In seguito a quest’ultimo provvedimento ci sono state proteste, violenze, studenti feriti, nelle metropoli indiane e qui, a Delhi, si è avuta anche una campagna elettorale locale pesantissima e pericolosissima, poi altre violenze, 53 morti in 3 giorni che hanno fatto precipitare nel buio la mia città stremata.

L’emergenza Coronavirus ci ha colti in questa situazione interna, quasi non ce ne siamo accorti perché sembrava così lontano, o forse perché eravamo presi da cose terribili e così vicine, e anche perché era in programma la visita del Presidente americano Donald Trump del 24 e 25 febbraio…

Ma io lo sentivo come una presenza, un’ombra, che scivolando sarebbe arrivata anche qui.

E qui eccoci ora, molto probabilmente con grande ritardo, è arrivato anche il nostro momento. Siamo in lockdown dal 24 di marzo, idealmente per 21 giorni, ma in cuor mio so, e spero, che non sarà così. Le fonti ufficiali emettono cifre talmente basse che non le prendo nemmeno in considerazione, anche se negli ultimi giorni sono in veloce aumento, l’India deve ancora entrare veramente nel cuore del ciclone. Questi 21 giorni sono solo un banco di prova, ma fin dall’inizio il blocco ha delineato una situazione precisa; ci sono due Indie che si apprestano ad affrontare questo nemico comune; noi, quelli che stanno a casa, loro, e quelli che sono rimasti da mezzanotte del 24 marzo senza lavoro e senza denaro, senza una casa o stipati negli slums.

Nel suo discorso delle 20, il 24 marzo, il Primo Ministro ha dichiarato il lockdown ufficiale. Dalla mezzanotte l’intero Paese sarà sigillato, dalle metropoli ai villaggi, nessun mezzo di trasporto sarà disponibile, si potrà uscire solo per necessità imprescindibili, dovranno essere mantenute distanze di sicurezza. Gli approvvigionamenti degli essenziali non saranno un problema, ma aprire la porta di casa significherà aprire la porta al virus e se l’intero Paese non rispetterà il lockdown per 21 giorni, si ritroverà indietro di 21 anni.

Questo discorso ha messo subito in chiaro, per chi conosce anche un minimo la condizione sociale di questo Paese da 1 miliardo e 300 milioni di abitanti, che un’accetta stava tagliando in due la popolazione, di netto e senza pietà.

Nelle nostre “gabbie dorate” riusciamo a far entrare il cibo di cui abbiamo bisogno, se abbiamo un balcone possiamo anche stare all’aria aperta ed innaffiare i fiori al mattino presto, agitando la mano per salutare i vicini che sorseggiano il chai leggendo il giornale, possiamo collegarci con amici e parenti in qualsiasi momento, per sentirci meno soli, per dirci quanto ci vogliamo bene, e ce lo stiamo finalmente dicendo senza freni, possiamo leggere i nostri libri, guardare i film su Netflix e Prime, cucinare come non mai. Certo, c’è una privazione della nostra libertà, i risparmi si assottigliano e non ci sono le entrate, almeno per quelli come me che non sono dipendenti e che contano solo sulle proprie forze e salute, ciononostante possiamo contare sui risparmi, per il dopo ci penseremo dopo…

Ma due giorni dopo l’annuncio, attendendo rassicurazioni che non arrivavano, l’altra India ha compreso di essere sola, è stato comunicato un piano aiuto, che sostanzialmente rientrava in uno già esistente da decenni, un po’ più esteso, ma che parlava al futuro: stanzieremo, daremo, faremo…

La fame non può aspettare a lungo…

Di colpo tutto si è fermato, una misura preventiva logica ed inevitabile, ma non dobbiamo dimenticare il contesto sociale in cui ci troviamo qui ed è per questo che la cosa andava pianificata, per tutelare tutti.

In giorni normali, quando le nostre strade pullulano di vita, si può comprendere quante siano le persone che si guadagnano da vivere alla giornata. Potrei fare un elenco infinito, chi è stato in India lo sa bene, quasi non ce ne rendiamo conto tanto queste persone sono parte integrante della nostra vita di tutti i giorni e non le viviamo come un’eccezione. Per dare un’idea a chi non sa a che cosa mi riferisco ci sono i rickshaw puller, sia in bicicletta che a motore, ci sono quelli che vanno in bicicletta, di quartiere in quartiere, per raccogliere qualunque cosa possa essere riciclabile e poi rivenderla, per pochi spiccioli, ai centri di raccolta, ci sono i calzolai improvvisati sui marciapiedi, una benedizione se ti si apre un sandalo in corsa, i barbieri che appendono il loro specchietto ad un albero o a un muretto, ci sono quelli con la macchina da cucire a pedali che fanno le riparazioni ai vestiti e pantaloni… e potrei andare avanti all’infinito. Non dimentichiamo il carretto dei gelati, i migliaia di baracchini che offrono street food a tutte le ore, i ragazzi che fanno le consegne a domicilio per i ristoranti o gli alimentari, gli uomini che tutte le mattine si accovacciano con i loro pennelli che si offrono per imbiancare le case, così come i falegnami, gli uomini che all’alba si mettono in gruppi a disposizione del caporalato per andare nei cantieri (spesso anche donne) a trasportare merci o altro, chi vive di elemosina o di vendite ai semafori e dorme sui marciapiedi o sotto ai cavalcavia, gli hijra che irriverenti importunano la gente ai semafori e sugli autobus obbligandoli a pagare l’obolo, le domestiche a ore, il mio fioraio…

Tutte queste persone, e quelle che non ho citato, si sono ritrovate immediatamente, senza possibilità di guadagnare una sola rupia, il loro cibo di oggi arriva dal loro guadagno di ieri, o quasi, e comunque anche i baracchini dove poter mangiare con 20 centesimi non esistono più…

Ecco, queste sono le persone che, a due giorni dal lockdown, hanno pensato che l’unico modo per poter mangiare fosse tornare al loro villaggio, che solitamente raggiungono una o due volte l’anno, in treno. Loro, i migranti, che poi qui siamo quasi tutti migranti… hanno cominciato a mettersi in cammino, con i bambini sulle spalle, alcuni senza il minimo bagaglio, si sono incamminati percorrendo le autostrade deserte, passando prima sotto le finestre delle nostre case, riuscendo ai check point ad ottenere di lasciare la città sigillata. Dopo due o tre giorni è stato deciso di mettere loro a disposizione dei bus ed ecco che a migliaia si sono riversati alle stazioni degli autobus a lunga percorrenza, con l’unica protezione un fazzoletto sul viso, e nemmeno tutti. Lì, accalcati a spingersi, con la polizia che cercava di regolarne i movimenti, anche loro a rischio della propria incolumità. Scene che non avrei mai voluto vedere, mettermi nei panni di queste persone… Certo, di scene molto peggiori ne vediamo tutti i giorni nei reportage di guerra, dovremmo essere abituati, ma guardandole pensavo alle persone che incontro ogni giorno, a quelle persone che vengono, spesso dalla borghesia, trattate senza il minimo rispetto o considerazione, persone che la vita ha già duramente colpito, ma che non si rassegnano, persone che adesso pagheranno il prezzo più alto per una colpa che non hanno perché, diciamocelo, questo virus è entrato nelle nostre vite, se pur innocentemente, attraverso chi sta bene, chi può prendere un aereo, una nave da crociera, chi viaggia per business o per piacere. Loro no, loro erano immobili sulla scacchiera che ci vede come pedine in continuo movimento.

Ora hanno raggiunto i loro villaggi remoti, molti sicuramente portando con sé, senza saperlo, un virus che andrà a colpire luoghi che probabilmente non ne sarebbero mai stati toccati, un virus che ucciderà i loro nonni e forse anche i loro genitori perché, se ancora non abbiamo ben chiaro quali siano le ancore di salvezza qui nelle metropoli, quello che è sicuramente chiaro è che nei villaggi non ci saranno strutture in grado di aiutarli.

Si è verificato qualcosa che poteva, se non effettivamente essere del tutto evitato, perlomeno pesantemente contenuto, se ci si fosse organizzati per tutelare i più svantaggiati prima di effettuare questa drastica, se pur assolutamente necessaria, manovra.

Probabilmente, nella storia del Coronavirus in India, si parlerà solo di noi, noi che alle 17 di domenica 22 marzo, ci siamo affacciati alle finestre o sui balconi, a battere mestoli sulle pentole ed applaudire il personale medico, noi che il 5 aprile, alle 9 di sera, per 9 minuti, abbiamo tenuto le luci di casa spente e abbiamo acceso le candele, di nuovo, affacciati ai balconi o alle finestre. Noi che facciamo quello che ci viene chiesto, diligentemente, alcuni con l’aria divertita, altri inneggiando a divinità e Nazione, altri ancora con un senso di spiacevole malessere che deriva dalla paura di essere giudicati anti nazionalisti dai vicini in un momento così difficile e delicato dove, ogni minimo segnale di dissenso, ti condanna ad un giudizio spietato.

Stasera toccano i lumini, perché, così ci è stato detto, NON SIAMO SOLI, e lo dimostreremo con questa performance, sempre noi, quelli che stanno per cenare, quelli che hanno balconi e finestre, quelli che hanno i lumini ed un interruttore da spegnere, quelli che faranno il filmino con il telefono, per postarlo sui social, l’unico vero mezzo per non sentirsi soli, noi…

Clicca sulle immagini per poter accedere alla photogallery. Il reportage fotografico, tranne che per le prime due foto: “distribution” & “exodus” è a cura dell’autrice.

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