Paolo Fontana, Riti proibiti. Liturgia e Inquisizione nella Francia del Settecento, Carocci, 2013



Abstract:

Il Settecento è stato un «periodo particolarmente poco studiato dagli storici dell’Inquisizione» (A. Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Milano, Mondadori, 2006, p. 700); una lacuna ancora lontana dall’essere colmata, per quanto negli ultimi anni non siano mancate ricerche interessanti in questo campo. Tanto più significativo, dunque, appare il contributo di Paolo Fontana nel riportare alla luce una vicenda poco nota.


I libri liturgici francesi, dopo un periodo di sostanziale conformità al rito romano, furono sottoposti nel XVIII secolo a un’opera di “rigallicizzazione”, ossia a una revisione dei loro contenuti sbilanciata a favore di tradizioni e/o innovazioni locali. Ovviamente, ciò incontrò la disapprovazione della Santa Sede. In particolare, il Breviario di Parigi del 1736 e il Messale di Troyes del 1738 furono al centro di un lungo contenzioso, poiché – come motivavano i contestatori – i testi erano stati modificati rispetto alle edizioni precedenti, avvicinandoli pericolosamente a posizioni filogianseniste. Questi gli episodi ricostruiti da Fontana, che rispetta fedelmente l’ordine archivistico dell’inedito materiale documentario consultato, in modo tale da offrire al lettore la sensazione di trovarsi con lui in una sala studio e di scoprire insieme, a poco a poco, le carte. È un espediente grazie al quale è più facile prendere coscienza del lungo dibattito scatenatosi al tempo intorno alla questione, in un cumulo di ragionamenti e cavilli, a volte discordanti, affidati a pagine e pagine sedimentate nei depositi dell’Archivio della Congregazione della Fede e dell’Archivio Segreto Vaticano. Ma è una scelta che rischia parimenti di appesantire un po’ la lettura, poiché di quelle scritture conserva inalterata anche la ripetizione dei capi d’accusa e dei minuziosi pareri espressi dai membri della commissione inquisitoriale. Tuttavia, l’impostazione data al libro consente che, in definitiva, siano soprattutto i documenti a “parlare”, sollevando interrogativi e spunti di riflessione. In primo luogo, sui limiti che venivano posti all’autorità vescovile e sulle dinamiche di potere che si intrecciavano nell’ambito di un determinato territorio. Nel caso specifico, da Roma si riconosceva ai presuli la facoltà di riformare i libri liturgici, ma non quella di discostarsi oltremisura dal rituale ufficiale. Al di là della preoccupazione di mantenere una sostanziale uniformità nelle pratiche religiose, si sentiva il bisogno di rimarcare che i vescovi erano pur sempre dei sottoposti alla suprema autorità pontificia. Si tratta della ben nota lotta tra potere centrale e poteri periferici che, tuttavia, non conosce vincitori né vinti: c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo (se altri breviari non furono condannati – ricorda Fontana – fu perché le autorità ecclesiastiche non ebbero notizia della loro circolazione) e ci sono sempre troppi interessi da tutelare, confini che non conviene valicare (Parigi era una diocesi vasta e potente e la Corona di Francia non avrebbe accettato facilmente intromissioni da Roma, né quest’ultima avrebbe ammesso che la Corona intervenisse in questioni di fede). Il timore di conflitti giurisdizionali prende allora il sopravvento e la cautela appare, ancora una volta e anche in questo frangente, la chiave di volta dell’intero agire dei vertici romani. Così, sebbene Clemente XII auspicasse una condanna forte e chiara dei testi riformati, attraverso cui poter riaffermare la propria autorità, chi era stato chiamato a giudicare quei testi optò per un atteggiamento più tollerante, a tutto vantaggio del mantenimento della quiete. Il ricorso alle maniere forti con il clero francese, che continuava a difendere il proprio operato, avrebbe rischiato di far degenerare la situazione e non si poteva certo correre il pericolo che oltralpe germinassero ulteriori focolai scismatici. Del resto, i nuovi contenuti del Breviario di Parigi o del Messale di Troyes non erano condannabili in sé e per sé, bensì erano semplicemente male sonantes, caratterizzati cioè da un’ambiguità tale da renderli solamente sospetti di eresia. Non vi erano, insomma, elementi sufficienti per affermare con certezza che gli autori avessero volutamente “deformato”, più che riformato, i testi liturgici, con l’intento precipuo di avallare teorie eterodosse. Come affermò il frate cistercense Gioacchino Besozzi nella sua censura, le reali motivazioni che stavano dietro al loro agire potevano essere conosciute unicamente da Dio e, pertanto, un’azione repressiva nei loro confronti non era del tutto giustificabile. Le correzioni che si chiese di apportare ai testi, alla fine, furono minime. Ciò nondimeno, la riprovazione della Santa Sede risulta più che comprensibile se si considera che da quelle nuove edizioni erano stati rimossi proprio i passi con i quali generalmente venivano sostenuti il primato e l’infallibilità del papa o le prerogative della Chiesa romana, senza contare che gli autori erano dei noti appellanti e simpatizzanti giansenisti: tutti elementi fortemente indiziari. Eppure, nonostante il turbamento arrecato da tali circostanze, il Sant’Uffizio si dimostrò indulgente con i presunti responsabili. Certo, le innovazioni erano considerate pericolose e da scongiurare, ma l’esperienza aveva insegnato a non osteggiarle con eccessivo accanimento, per non rischiare di rinvigorirle e favorirne la diffusione, consegnando la società cristiana all’instabilità. Era invece necessaria una buona dose di duttilità, se si volevano preservare l’equilibrio sociale e mantenere saldo il controllo sul popolo dei fedeli. Il che implicava persino che si accettasse il male minore, quando poteva servire a evitare di incorrere in più gravi difficoltà. L’adozione di una strategia simile, in quel particolare momento, aveva lo scopo di porre degli argini alla corrente giansenista o di contenerne, in qualche modo, i danni. Che poi si fosse rivelata una strategia vincente è alquanto discutibile e Fontana preferisce non approfondire la questione. Di fatto, Parigi si candidò a diventare il fulcro della riforma liturgica di quegli anni, attraverso l’adozione e l’imitazione del proprio breviario da parte delle altre diocesi di Francia, mentre alla corte pontificia si preferì aspettare tempi migliori, che sopraggiunsero non prima del XIX secolo, nel corso del quale vi sarebbe stata una progressiva restaurazione del rito romano nei territori francesi. Ma c’è dell’altro: per dirla con Fabiana Veronese, l’Inquisizione settecentesca era «un’istituzione dalle armi spuntate» (F. Veronese, Tra crimini e peccati. La giurisdizione sui crimini di misto-foro nella Repubblica di Venezia. XVIII sec., in «Giornale di Storia», 9, 2012, ISSN 2036-4938, p. 9); un’istituzione in declino, la cui attività non era certo diminuita, ma che non disponeva più della forza o dei mezzi adeguati per imporsi con autorevolezza e le cui sedi periferiche sarebbero state, di lì a breve, smantellate. Il ricorso a una maggiore tolleranza, allora, più che un’abile tattica o un atto ispirato da cristiana carità, appare quasi una scelta obbligata.