Flavio Giovanni Conti, I prigionieri italiani negli Stati Uniti, Il Mulino, 2012



Abstract:

La vicenda dei militari italiani durante la Seconda Guerra Mondiale è stata per decenni un tema “rimosso” dalla memoria collettiva e al di fuori dell’attenzione degli storici. Le ragioni che giustificano questo fatto sono molteplici e, senza entrare nel merito di tale aspetto, basti qui ricordare la volontà di “voler dimenticare” espressa da molti degli stessi protagonisti, le implicazioni politiche ed ideologiche, la situazione internazionale negli anni della Guerra Fredda.

La vicenda dei militari italiani durante la Seconda Guerra Mondiale è stata per decenni un tema “rimosso” dalla memoria collettiva e al di fuori dell’attenzione degli storici. Le ragioni che giustificano questo fatto sono molteplici e, senza entrare nel merito di tale aspetto, basti qui ricordare la volontà di “voler dimenticare” espressa da molti degli stessi protagonisti, le implicazioni politiche ed ideologiche, la situazione internazionale negli anni della Guerra Fredda.

Il fatto di aver combattuto su fronti diversi, l’Armistizio dell’8 settembre, il cambio di alleanze, l’occupazione dell’ex alleato tedesco, rendono per molti versi complicata la posizione italiana e ancora oggi problematica una valutazione serena dal punto di vista storiografico. A tutto questo bisogna aggiungere il peso delle scelte compiute dall’Italia negli primi anni del secondo dopoguerra, con l’adesione al blocco atlantico, l’uscita del PCI dal governo nel 1947 e la stupefacente vittoria della DC guidata da De Gasperi alle elezioni dell’aprile 1948. Tutti temi scottanti che fanno da sfondo al libro di Conti.

L’Italia, come noto, strinse un’alleanza con la Germania nazista nella primavera del 1939 (il “Patto d’acciaio”) per ritrovarsi pochi mesi dopo, al momento dell’attacco tedesco contro la Polonia, in una situazione del tutto inaspettata. La Gran Bretagna (e insieme a lei la Francia), a differenza delle precedenti esperienze (si pensi alla Cecoslovacchia), decise di andare a vedere l’ennesimo bluff di Hitler: fu, di fatto, l’inizio del Secondo Conflitto. Come ormai chiaro da molteplici studi né Hitler né tanto meno Mussolini credevano nella volontà britannica di impegnarsi in una guerra a difesa della Polonia e la stessa pubblicistica inglese e francese – nei mesi che vanno dall’autunno 1939 alla primavera del 1940 – si domandava se davvero valesse la pena di “morire per Danzica”.

Mussolini, al di là delle roboanti parole e della propaganda di regime che favoleggiava di un’Italia guerriera ed armata pronta a combattere, si trovò del tutto impreparato e fu costretto a dichiararsi “non belligerante”, una inedita definizione che cercava di marcare una distanza sostanziale dal termine neutralità inutilizzabile visto il patto firmato solo pochi mesi prima.

“La strana guerra” – come molti la definirono – si trascinò per lunghi mesi nei quali non avvenne nulla di militarmente rilevante, almeno fino a quando – con un’azione sbalorditiva – nella primavera del 1940 la Germania nazista mosse un attacco tanto rapido quanto micidiale contro la Francia, mettendo in ginocchio quello che era considerato uno dei più forti eserciti del mondo.

Con un Hitler ormai padrone a Parigi, l’ingresso dell’Italia nel conflitto era sotto tutti i punti di vista un fatto non più procrastinabile. Il 10 giugno 1940, dunque, Mussolini con il suo famoso discorso pronunciato dal balcone di Piazza Venezia “annunciò al mondo” l’intervento fascista a fianco dell’alleato germanico.

Nell’estate del 1940 sembrava chiaro a tutti gli osservatori internazionali che la guerra fosse destinata a concludersi con l’ennesima concessione a Hitler e con la conferma del sostanziale dominio tedesco in Europa. Il punto di vista del nuovo leader britannico, Winston Churchill, andava invece nella direzione completamente opposta e si proiettava verso una resa dei conti definitiva, il tutto perfettamente in linea con la strategia volta ad impedire l’instaurarsi della supremazia assoluta di una singola nazione nello scacchiere del continente europeo.

Le cose in seguito andarono come tutti sanno ma bisogna avere bene in mente questi aspetti che, uniti all’allargamento del conflitto (l’attacco tedesco all’Unione Sovietica e l’ingresso degli Stati Uniti in guerra nel 1941) e alle successive vicende italiane quali la caduta del fascismo, l’armistizio dell’8 settembre 1943 seguito dalla dichiarazione di guerra alla Germania e dalla controversa “co-belligeranza” con gli Alleati, appaiono dalla prospettiva della sorte dei soldati italiani fondamentali per comprendere la singolare situazione in cui complessivamente vennero a trovarsi i militari impegnati nei diversi fronti, dai ghiacci della Russia al deserto dell’Africa, dalla penisola balcanica al mare dell’Egeo.

Complessivamente 1 milione e 200 mila soldati italiani conobbero l’esperienza della prigionia che, certamente, non fu uguale per tutti: terribile la sorte dei militari catturati in Unione Sovietica, durissima l’esperienza di chi finì in mano tedesca all’indomani dell’8 settembre 1943. Circa la metà dei prigionieri, 600 mila unità, furono catturati dalle forze Alleate, in primis Gran Bretagna e Stati Uniti.

Il libro di Flavio Giovanni Conti si occupa in maniera specifica quei 51 mila soldati che furono imprigionati in America. Gran parte di essi furono catturati nel nord Africa nella primavera del 1943 e il generale Eisenhower – allo scopo di evitare che l’esercito alleato impegnato nella campagna d’Italia dovesse custodire e mantenere una massa enorme di nemici – decise di trasferirne una larga parte in territorio americano.

Lo studio di Conti si occupa quindi di questa particolare vicenda dividendo in due parti il volume: la prima, dedicata agli aspetti generali, narra della cattura, del trasferimento negli Stati Uniti, dell’organizzazione e la dislocazione dei vari campi di prigionia, del trattamento riservato ai soldati, senza trascurare aspetti non secondari quali l’atteggiamento dell’opinione pubblica e la posizione della influente comunità italo-americana, rafforzata da una presenza cattolica radicata. La seconda parte della ricerca è invece incentrata su di una minuziosa ricostruzione della “vita vissuta” in alcuni dei più importanti campi di prigionia, per terminare infine con una articolata analisi della vicenda relativa al rimpatrio dei soldati italiani, destinato a concludersi nei primissimi mesi del 1946.

Mentre sulla sorte dei soldati finiti in mano sovietica e tedesca sono stati pubblicati in anni non lontani pregevoli studi, mancava certamente un lavoro d’insieme sulla specifica vicenda relativa ai prigionieri italiani negli Stati Uniti, un vuoto che questo libro viene a colmare nel migliore dei modi. L’autore, infatti, non cade nel facile tranello di basare il suo corposo libro (circa 540 pagine, corredato anche di tabelle e foto di grande interesse) sulla memorialistica o, peggio, su interviste “a posteriori”, pur tenendo conto di questo genere di fonti e anzi utilizzandole non di rado tra le pagine. Il nucleo centrale della ricerca è costituito – come dovrebbe sempre essere – da una solida documentazione di archivio che spazia largamente dalle fonti italiane a quelle americane, fonti che l’autore dimostra di saper maneggiare in modo appropriato. La lista degli archivi consultati è molto lunga e appare inutile ripeterla in questa sede, se non per accennare almeno alla sterminata documentazione presente all’Archivio Centrale dello Stato, in quello storico-diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, in quello dello Stato Maggiore dell’Esercito e, last but not least, ai National Archives, in USA, e in altri archivi americani dove a quanto pare Conti non si è limitato ad una visita fugace.

Ai due grandi nuclei degli archivi italiani e americani (e a una miriade di “archivi minori”, inclusi alcuni fondi privati) si aggiungono naturalmente le ricche collezioni delle pubblicazioni ufficiali, gli archivi fotografici e un uso oculato delle fonti giornalistiche e dei periodici contemporanei.

Insomma, ci troviamo di fronte ad una ricerca completa, che tiene conto certamente degli studi precedenti (pochi a dire il vero) e della ricca bibliografia dedicata agli aspetti generali, con un occhio alla memorialistica e alla stampa, ma sostanzialmente basata su di una completa documentazione archivistica ben selezionata e usata in modo critico.

Sebbene le implicazioni politiche ed ideologiche dell’intera vicenda meriterebbero un diverso livello di approfondimento, risulta inevitabile farvi un seppur breve accenno. E’ del tutto evidente, infatti, che la prigionia in Unione Sovietica o in Germania fu ben altra cosa rispetto a quella in terra americana: per chiarire questo aspetto non c’era bisogno di un lavoro come questo. Rimanevano però aperte alcune questioni come – tanto per citarne una delle più suggestive – la consapevole volontà di mostrare ai prigionieri il “modello americano” sia pure nel contesto della vita di un campo, in vista del dopo, del rientro cioè in Patria, in mesi in cui accanto ad una guerra vera aveva già iniziato a prendere corpo la guerra fredda. E’ una operazione di propaganda neppure tanto velata dove giocano un ruolo chiave (altro aspetto nuovo e in genere trascurato) sia la comunità italo-americana che la chiesa cattolica.

Si tratta di un approccio che aggiunge molto alla ricostruzione puntuale degli avvenimenti, della “vita vissuta”, degli aspetti oggettivi che caratterizzarono questa specifica esperienza di prigionia e che già da soli basterebbero a giustificare il valore di questa ricerca.

In ogni caso, sia che si guardi al lavoro con occhio comparativo (confrontando dunque l’esperienza della prigionia in America con quella in Russia o in Germania) sia che lo si utilizzi solo come strumento di analisi per comprendere meglio quello che fino ad ora gli storici conoscevano per grandi linee, siamo certamente di fronte ad un libro destinato a rimanere un punto di riferimento proprio per la ricchezza dei contenuti e per la mancanza di studi simili: un vuoto, lo ripetiamo, che questo lavoro di Flavio Giovanni Conti viene a colmare nel migliore dei modi.