Giulia Iannuzzi, Geografie del tempo. Viaggiatori europei tra i popoli nativi nel Nord America del Settecento (Viella, 2022)

Giulia Iannuzzi, Geografie del tempo. Viaggiatori europei tra i popoli nativi nel Nord America del Settecento (Viella, 2022)


Abstract:

Lo studio di Giulia Iannuzzi si propone di riflettere sulle conseguenze che l’incontro settecentesco tra viaggiatori del Vecchio Mondo e popoli nativi nordamericani ha sulla concettualizzazione europea dell’idea di temporalità storica, nella sua veste secolarizzata. L’approccio metodologico-disciplinare adottato dall’Autrice colloca la monografia in questione, da un punto di vista storiografico, nell’ambito degli studi di storia culturale del tempo.

La scelta di circoscrive la ricerca al quadrante geografico e storico-culturale del Nord America si accompagna alla selezione, esposizione ed esame di una specifica categoria di fonti privilegiate: si tratta di un corpus costituito da relazioni, trattazioni storiche e resoconti di viaggio, frutto di esperienze dirette, di prima mano, e sostanzialmente redatto in lingua inglese – sebbene il riferimento a precedenti francesi, di frequente ripresi dagli autori anglofoni citati, sia analiticamente messo in luce.

Merito di Iannuzzi è porre in evidenza e problematizzare – anche grazie al supporto di un ricco apparato iconografico – quegli aspetti che rendono la questione in oggetto non priva di ambiguità, complessità e zone di confine e, per tale motivo, inadatta a essere ricompresa nel quadro di banali riduzionismi e semplicistiche opposizioni dicotomiche.

A garantire la scrupolosa conservazione e la valorizzazione storiografica di tale stratificazione è in primo luogo proprio la tipologia di documenti presi in considerazione. Se la trattatistica e le opere compilatorie dedicate al Nuovo Mondo sono spesso prodotte sulla base di fonti indirette e resoconti di terzi, i testi elaborati nel corso del “lungo” Settecento da viaggiatori, amministratori o politici sono, al contrario, frutto di un contatto diretto e personale di chi scrive con i nativi. Grazie al carattere empirico della conoscenza che ne è alla base e all’origine, essi consentono, allora, di ragionare su alcuni nodi dialettici peculiari dell’incontro euro-americano nella tarda età moderna.

Se a fare da sfondo all’interesse proto-etnografico che il Vecchio Mondo rivolge alle società insediate sul continente americano è senza dubbio il progetto europeo di espansione e dominio coloniale, risulta dunque chiaro come l’intento conoscitivo che guida le relazioni di viaggio vada letto alla luce di precisi vantaggi contingenti che si declinano tanto a livello individuale – perlopiù in termini di tornaconti economici e/o carrieristici –, quanto sul piano istituzionale. Infatti, la possibilità di concretizzare gli obiettivi amministrativi, politico-diplomatici, scientifici, militari e commerciali – si pensi, per esempio, alla ricerca del tanto agognato passaggio a nord-ovest tra Atlantico e Pacifico, che avrebbe agevolato i traffici con l’Asia –, che nutrono i disegni politici imperiali, dipende anche dall’accuratezza e dall’attendibilità dei resoconti nel delineare i tratti distintivi dell’alterità americana, tracciandone un puntuale profilo storico-geografico. D’altronde, che l’esigenza di definire le coordinate spaziali e temporali del territorio del Nord America e dei suoi abitanti sia dettata da motivazioni prettamente utilitaristiche e da una consapevole volontà di controllo, emerge con evidenza negli accounts della spedizione esplorativa compiuta tra 1804 e 1806 in Louisiana da Lewis e Clark – che, per tale motivo, finiscono per fungere da spartiacque nell’attività di ricognizione dell’epoca.

Si comprende allora come il primato gnoseologico sia funzionale al successo e alla supremazia culturale e politico-economica nell’ambito della competizione tra potenze coloniali rivali – in primis quelle britannica, francese, spagnola e russa –, seppur in alcuni casi non escluda il prestito e il riuso di documenti redatti da viaggiatori di paesi concorrenti.

La natura delle fonti primarie prese in esame, frutto appunto dell’osservazione sul campo, – il riferimento a tal proposito è, in particolare, all’opera storica di James Adair e al terzo viaggio di James Cook, finanziato dall’Ammiragliato britannico – si rivela una cornice efficace per rimarcare e discutere il rapporto dialettico che, nel processo di storicizzazione dell’altro, si instaura tra i dati derivanti dall’esperienza diretta e le informazioni sedimentate nel palinsesto culturale e libresco preesistente. I tentativi di verbalizzazione dell’incontro con i nativi lasciano intravedere la consapevolezza dei limiti delle generalizzazioni e dei pregiudizi alla base delle immagini stereotipate tradizionalmente associate, nei dibattiti europei, ai “selvaggi” del Nuovo Mondo. Sebbene i resoconti settecenteschi non trascendano del tutto da tali tipizzazioni ampiamente diffuse in epoca moderna e, talvolta, finiscano per proporne di nuove, l’importanza – in termini di riuscita di accordi diplomatici e commerciali – attribuita a una descrizione fedele delle culture, dei costumi, dei sistemi amministrativi e di governo e delle vicende storiche dei popoli nordamericani, porta con sé la necessità di rendere conto delle specificità e della varietà dei vari gruppi incontrati.

Nel corso del Settecento, l’esperienza dell’alterità obbliga, dunque, a riconsiderare le modalità e le categorie elaborate fino a quel momento in ambito europeo allo scopo di riassorbire, neutralizzare e dominare l’assolutamente diverso da sé, rappresentato dai nativi: si pensi ai termini “selvaggio”, “primitivo” e “barbaro”, di cui Iannuzzi ricostruisce la nascita e gli usi nell’epoca dei Lumi. Di fronte alla complessità storica e culturale delle società altre, messa in luce dalla curiosità proto-antropologica e filosofica che guida l’approccio dei viaggiatori europei, il concetto di “selvaggio”, nella sua applicazione al contesto americano, tende a subire torsioni significative e a contribuire a dare luogo a una nuova declinazione dei rapporti euro-americani, articolata e non priva di sfumature. Tanto il mito del buon selvaggio, quanto le teorie stadiali del progresso ampiamente diffuse nel XVIII secolo, pur costituendo il bagaglio intellettuale di partenza di chi stila le relazioni di viaggio e, dunque, pur influenzandone l’osservazione, finiscono per divenire oggetto di riletture e ripensamenti, dal momento che in molti casi si rivelano strumenti ermeneutici inadeguati nel confronto con la concretezza delle società in questione. La tesi, resa celebre da Lafitau, dell’identificazione tra nordamericani e antichi, accanto alla netta opposizione tra selvaggio e uomo civilizzato e all’equivalenza tra i popoli nativi e un’umanità incivile e arretrata – mancante di sviluppo e passato e collocabile, nel processo di perfezionamento e civilizzazione, in una tappa ben distante da quella paradigmaticamente rappresentata dall’Europa settecentesca –, si trova costretta a fare i conti con ciò che viene osservato: le stesse idee di progresso e modernità si stratificano e assumono tonalità nuove, come mostra per esempio la riflessione dedicata alle frontiere di genere.

Di notevole interesse è un’ulteriore duplicità ben discussa dalla monografia in questione. La storicizzazione dell’altro finisce per assumere una doppia forma: da un lato, si delinea come dibattito sulle origini degli abitanti del Nord America – si pensi alla nota querelle sulla discendenza ebraica dei nativi e all’opposizione tra ipotesi monogenetiche e poligenetiche –, dall’altro, come tentativo di creare un archivio al servizio della futura memoria. La consapevolezza, da parte degli osservatori contemporanei, del venir meno della pretesa purezza originaria dei nativi, a seguito dei processi di ibridazione culturale implicati dalla colonizzazione europea, e la presa d’atto del declino demografico e dell’incipiente estinzione delle popolazioni native, a causa della contaminazione epidemiologica – si pensi, in via esemplificativa, alla circolazione di malattie infettive esportate dall’Europa, come il vaiolo e la sifilide –, fanno sorgere l’urgenza di documentare l’alterità americana, percepita come prossima alla scomparsa. Parallelamente, esse contribuiscono a far emergere la categoria di “europeo”, nell’ambito di una gerarchizzazione in cui l’eurocentrismo epistemologico rivendica il proprio monopolio conoscitivo del passato – costruito in forma testuale-discorsiva e di frequente frutto di un lavoro a più mani –, squalificando il sapere nativi e i loro sistemi autoctoni di registrazione del passato – spesso legati a forme orali e rituali di comunicazione. Tuttavia, non mancano forme di relativizzazione culturale e diventa sempre più evidente come il viaggiatore, parte integrante dell’oggetto osservato, produce in esso un cambiamento e, a sua volta, esce modificato da tale interazione.

Una dimensione centrale del processo di storicizzazione dei nordamericani è, inoltre, quella linguistica-comunicativa, che si lega non solo al dibattito sulla natura più o meno razionale di questi popoli – finendo così per contribuire, come appena accennato, a forme di comparazione e gerarchizzazione –, ma anche alla disquisizione sulle loro origini. A tali aspetti Iannuzzi dedica un’attenzione particolare, attraverso lo studio di alcune figure centrali nell’ambito della mediazione linguistico-culturale, della querelle sull’oratoria e sull’eloquenza dei nativi – intese come riflesso di una loro abilità a livello razionale – e della raccolta e documentazione di liste di vocaboli ed espressioni all’interno dei resoconti.

Infine, l’Autrice conclude lo studio ragionando sugli usi culturali del tempo a venire, inteso come vero e proprio campo di prova per il sapere storico, a livello epistemologico e metodologico. L’idea di un futuro malleabile dall’azione umana è diretta conseguenza degli effetti della rivoluzione scientifica e delle esplorazioni geografiche settecentesche – si pensi all’intimo legame tra le teorie stadiali e una concezione lineare, unidirezionale, continua e teleologica della storia, riducibile a nessi di causa-effetto prevedibili e al cui apice si trova l’Europa moderna. Parallelamente, il futuro assume la funzione di laboratorio ideale – da cui, si noti bene, i nativi vengono deliberatamente esclusi –, in cui è possibile, in via ipotetica e immaginaria, mettere alla prova l’efficacia di sistemi politici e amministrativi. Inoltre, la lettura del tempo a venire nei termini di estrapolazione utopica e translatio imperii mostra, ancora una volta, come il caso dei nativi nordamericani si inserisca in una riflessione di più ampio respiro, pur conservando una propria specificità, riconducibile, in questo ambito, alle concezioni cicliche della civilizzazione.

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