Sara Cabibbo – Maria Lupi (a cura di), Relazioni religiose nel Mediterraneo. Schiavi, redentori, mediatori (secc. XVI-XIX), Viella, 2012



Abstract:

Il volume, curato da Cabibbo e Lupi ed edito da Viella nel 2012, si inserisce nell’ormai ricco filone di ricerca sul dialogo interreligioso nel Mediterraneo di età moderna: un tema, certo, ampiamente studiato, che tuttavia si presta a una tale varietà di approcci da rendere possibili ancora oggi ricerche originali. È questo il caso, a mio avviso, del testo in questione, che mi sembra particolarmente interessante almeno per tre motivi: innanzitutto per il vivo apporto che esso fornisce allo stato attuale delle conoscenze sul tema, grazie al ricorso a serie documentarie finora scarsamente utilizzate; in secondo luogo, perché copre un arco temporale insolitamente lungo (dal XVI al XIX secolo) e, infine, per la notevole varietà degli argomenti trattati, tutti legati, comunque, dal filo rosso dell’incontro-scontro religioso (in primo luogo tra cristianesimo e Islam).

Il volume, curato da Cabibbo e Lupi ed edito da Viella nel 2012, si inserisce nell’ormai ricco filone di ricerca sul dialogo interreligioso nel Mediterraneo di età moderna: un tema, certo, ampiamente studiato, che tuttavia si presta a una tale varietà di approcci da rendere possibili ancora oggi ricerche originali. È questo il caso, a mio avviso, del testo in questione, che mi sembra particolarmente interessante almeno per tre motivi: innanzitutto per il vivo apporto che esso fornisce allo stato attuale delle conoscenze sul tema, grazie al ricorso a serie documentarie finora scarsamente utilizzate; in secondo luogo, perché copre un arco temporale insolitamente lungo (dal XVI al XIX secolo) e, infine, per la notevole varietà degli argomenti trattati, tutti legati, comunque, dal filo rosso dell’incontro-scontro religioso (in primo luogo tra cristianesimo e Islam). Composto da nove saggi, il volume è sostanzialmente diviso in due parti: la prima (più ricca di contributi) incentrata sul cautiverio e sul riscatto dei captivi nel Mediterraneo tra XVI e XVII secolo, mentre la seconda ha come oggetto le relazioni fra le tre religioni mediterranee nella tarda età moderna, focalizzando l’attenzione sull’area maghrebina fra XVIII e XIX secolo. Gli autori seguono filoni di ricerca distinti, correlati alle loro diverse competenze tematiche e cronologiche: il lungo arco temporale di riferimento permette, così, di cogliere i mutamenti intercorsi in area mediterranea, tanto sul piano istituzionale quanto su quello culturale e delle sensibilità religiose. Non manca, infine, un riferimento alle terre del Nuovo Mondo, con una riflessione sui processi di evangelizzazione degli schiavi neri nel Chile e in Perù portati avanti dai padroni e dalle confraternite nel secolo XVII (si veda il saggio di Celia L. Cussen).

A fare da sfondo, dunque, le relazioni religiose nel Mediterraneo di età moderna, tematica su cui era possibile (e forse necessario) porsi da una prospettiva in qualche modo nuova. In effetti, tra le proposte interpretative mancanti, nel panorama storiografico, ancora in anni recenti vi era proprio una lettura laica delle opere coeve e della stessa documentazione prodotta, ad esempio, dagli Ordini religiosi “redentori” in età moderna: il contributo di Cabibbo e Lupi giunge in parte a colmare questa lacuna, attraverso lo studio di un trattato mercedario seicentesco (Ignacio Vidondo, Espejo catolico de la caridad divina y christiana con los cautivos de su pueblo, Pamplona, 1658), che permette alle autrici di tracciare un affresco dell’universo, insieme teologico e pratico, che caratterizzava l’opera della redenzione dei captivi tra Cinque e Settecento.

Nel complesso è da notare il fatto che prevalgano gli strumenti interpretativi della storia culturale e, in alcuni casi, l’approccio filologico su quello meramente descrittivo. Per essere più precisi, gli autori, superando definitivamente la tradizionale impostazione quantitativa-seriale di parte degli studi pregressi sull’argomento – da Bono a Lo Basso, da Porres Alonso a Martínez Torres -, non si limitano ad effettuare una semplice “raccolta dati” a fini statistici, ma cercano di indagare le modalità di trasmissione della memoria e di autorappresentazione praticate dagli Ordini stessi. Non si chiedono più, ad esempio, quanti fossero i captivi che affollavano i bagni di Algeri o di Tunisi, a quanto ammontassero i prezzi medi dei riscatti, quanti fossero gli uomini e quante le donne e così via, ma si chiedono piuttosto cosa scrivessero i Mercedari riguardo al loro Ordine, come presentassero la loro opera e quali ragioni adducessero per difendere le proprie prerogative. In effetti, al centro dell’attenzione – almeno nella prima parte del volume – è senza dubbio l’Ordine di Nostra Signora della Mercede e la sua attività di redenzione dei cristiani captivi in Nord Africa tra Cinque e Seicento. Dicevamo che il libro si lascia definitivamente alle spalle il tradizionale approccio quantitativo-seriale: ciò è vero anche laddove si parli in qualche modo di “numeri”, come nel saggio di Enrique Mora Gonzáles, dedicato allo studio di tre libri di redenzione mercedari (quelli del 1575, 1579 e 1583), un saggio dal forte impianto analitico e, insieme, filologico sul significato e la genesi di tale documentazione. I «libros de cuentas» – altra cosa rispetto ai cataloghi di redenzione, dove erano annotati, tra l’altro, nomi, età, prezzi e tempi di schiavitù dei captivi riscattati – permettono infatti all’autore di gettare luce sulla complessa macchina organizzativa che stava dietro a ogni missione di redenzione e mostrano come ogni passaggio di denaro fosse scrupolosamente registrato ancor prima dell’inizio del viaggio. D’altra parte, il patrocinio regio di cui l’Ordine mercedario godette in Spagna (in particolare sotto gli Asburgo) non poteva che tradursi in una maggiore esigenza di rendicontazione e di controllo dei fondi raccolti e delle spese sostenute: era stato lo stesso Filippo II, infatti, a ordinare nel 1574 l’istituzione dei libros de cuentas. Non rinunciando, forse, ad esprimere un velato giudizio politico sulla questione, l’autore nota come grazie a tale provvedimento – inizialmente emanato per la sola provincia di Castiglia ed esteso, successivamente, a quella di Aragona – lo Stato, «por medio de las órdenes redentoras» si facesse ad un tempo «garante y legislador de las redenciones de cautivos» (p. 17).

Notiamo, per inciso, come possa rintracciarsi qualche sfumatura interpretativa, tra studiosi di estrazione laica da un lato, e studiosi appartenenti all’Ordine dall’altro, in merito all’opera di riscatto dei captivi. Proprio Mora Gonzáles, studioso e padre mercedario, prendendo spunto anche dalle informazioni contenute nei tre libri di conto suddetti, mette in risalto il carattere non speculativo dell’opera redentrice portata avanti dal suo Ordine in età moderna, a differenza di quanto accadeva in area italiana, dove il riscatto di captivi era affidato in buona parte a deputazioni laiche, le quali agivano per lo più tramite intermediari, interessati alle possibilità di lucrare su quelle transazioni. Al contrario, sottolinea lo storico mercedario, i frati di detto Ordine raccoglievano le elemosine e organizzavano le redenzioni «sin recibir ganancia alguna», ma solamente «por su profesión religiosa en vistas de un pago divino» (pp. 15 e 34). Di contro, Cabibbo e Lupi, dopo aver ricordato nel loro saggio che «una serie di provvedimenti […] confluiti nelle Costituzioni del 1585, vietarono ai redentori di lucrare sulle redenzioni, pena la perdita degli uffici e la scomunica latae sententiae» (p. 68), ipotizzano, tuttavia, che la redenzione narrata dal Vidondo si svolgesse in «un’atmosfera venata di sospetto e non del tutto cristianamente caritatevole». Esisteva, cioè, secondo le autrici, un rischio di «commistione fra negozio spirituale e negozio commerciale», a causa degli scarsi margini di manovra che i pardi redentori avevano per non contravvenire – anche in minima parte – alle norme della redenzione (p. 89). Ancora, Mora Gonzáles si dice convinto che i libros de cuentas rappresentino «una fuente imprescindible», ma allo stesso tempo denuncia il fatto che la storia che essi raccontano, seppur conosciuta, sia ancora oggi inedita e perciò «víctima, con mucha frecuencia, de generalizaciones». Gli fa eco Stefano Defraia, docente presso la Pontificia Università Gregoriana e direttore dell’Istituto Storico dell’Ordine della Mercede, secondo cui la captivitas christiana rimane ancora «un fenomeno in sospeso», sul quale è opportuno richiamare l’attenzione degli studiosi in modo da risparmiare loro «altre confusioni, affermazioni inesatte e giudizi affrettati» (p. 39). Il suo saggio si propone, allora, di mettere ordine nel complesso insieme delle fonti relative all’Ordine mercedario e costituisce un’anticipazione al grande lavoro di edizione critica, in corso di realizzazione, che andrà sotto il nome di Redemptionum ordinis de Mercede opera omnia: un progetto editoriale di ampio respiro, che vede impegnati diversi studiosi sotto la direzione dello stesso Istituto Storico mercedario. Con grande chiarezza e competenza filologica, Defraia prende in esame le diverse tipologie di fonti relative all’attività redentrice dell’Ordine mercedario: fonti giuridico-diplomatiche, fonti narrative e fonti artistiche, ognuna comprendente diversi tipi di documentazione. Presenta, poi, una riflessione sui principi storiografici e filologici a cui è ispirata la detta Opera Omnia e gli obiettivi che essa si pone: l’auspicio dichiarato è, evidentemente, quello che, sfruttando l’abbondante documentazione ancora inedita, «la produzione dei testi dell’azione redentrice della Mercede possa in più larga e diretta misura tornare alla luce» (p. 64).

Riguardo al saggio di Cabibbo e Lupi, dedicato – come detto – al trattato del mercedario Vidondo, va detto che esso riveste particolare interesse perché tale opera, seppur nota, presenta pochi rimandi nella storiografia e ciò denota la mancanza di un’analisi specifica. Agli occhi delle autrici essa è non solo una cronaca dell’organizzazione e dello svolgimento della redenzione del 1654 ad Algeri, ma è anche – o forse soprattutto – rappresentazione dell’Ordine, che segue i canoni della tradizione memorialistico-agiografica cristiana, è testimonianza dell’operato dei frati e del loro approccio ai captivi in terra d’Africa e al mondo musulmano in generale. Le autrici ne rintracciano anche le ragioni della composizione, che appaiono essenzialmente “difensive” (contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, all’Ordine non mancavano detrattori e concorrenti). Ma se il contenuto è di tipo dottrinale, gli scopi sembrano essere, invece, «molto pratici: favorire la raccolta di elemosine e offerte per riscattare più prigionieri possibili» (pp. 74-76). Di grande interesse anche l’altro saggio, a firma di Berta Pallares, che prende invece in esame il trattato del frate mercedario Gabriel Gómez de Losada: in questo caso la finalità del trattato è soprattutto quella di «dar a conocer los sufrimientos de los cautivos e informar a otros redentores» ma, anche qui, altrettanto importante è il proposito di «encender la compasión de los fieles de todas las clases sociales en busca de ayudas», ovvero, di elemosine e donazioni a favore della redenzione.

Il libro presenta diversi altri contributi, dedicati, ad esempio, al fenomeno della schiavitù di musulmani ed ebrei a Malta tra Cinque e Settecento, o a quello della schiavitù nera nell’America latina – in particolare in Cile e in Perù – e all’importante ruolo delle confraternite votate all’evangelizzazione degli schiavi neri in quei territori nel secolo XVII. I saggi della seconda parte del volume, infine, differiscono in parte dai precedenti, sia per tematica, poiché indagano più specificamente sulle relazioni e sulle diverse modalità di interazione tra le tre religioni mediterranee, sia per ambito cronologico, che appare spostato più verso la tarda età moderna, giungendo fino alla prima metà dell’Ottocento. L’ambito geografico rimane quello del Maghreb (Egitto compreso), ma cambiano i protagonisti: con il mutare degli scenari politici e dei rapporti di forza tra gli Stati delle due sponde del Mediterraneo, parallelamente all’espansionismo coloniale europeo, vediamo agire, oltre agli Ordini religiosi, diplomatici, rappresentanti delle istituzioni civili e religiose, ma anche membri delle élites musulmane.

Nel complesso, ciò che emerge chiaramente è che non ci troviamo di fronte a una dicotomia, ma piuttosto a una «escala de grises»: la frontiera tra Cristianità e Islam appare, cioè, come il luogo in cui i grandi ideali (teoricamente) incorruttibili «se difuminan por el contacto y el oportunismo pragmático» (p. 13), come testimonia la presenza cospicua di rinnegati in alcune città maghrebine tra Cinque e Seicento. Nel solco di quanto mostrato da una storiografia ormai consolidata, che va da Bennassar a Mafrici, da Kaiser a Fiume, tutti gli autori insistono sul fatto che Cristianità e Islam, con le loro divisioni interne, non si comportavano come due blocchi compatti ma agivano piuttosto secondo «la mejor conveniencia del momento» e che il confine che separava i due mondi era, di fatto, assai permeabile. Un libro di grande interesse, dunque, che si presta ad essere letto anche dai non specialisti del tema, grazie a una trattazione chiara e scorrevole nei diversi contributi, il che naturalmente è un gran pregio. Il testo diventa, così, a tutti gli effetti un’occasione di arricchimento culturale, senza per questo rinunciare al rigore storiografico.