Ripensando la mia Storia. Le ragioni di un percorso #1


Abstract: Con questo numero il Giornale di Storia inaugura la sezione dal titolo «Ripensando la mia Storia. Le ragioni di un percorso» che ospiterà le testimonianze di coloro che amano e che scrivono di Storia. Abbiamo chiesto a un nutrito gruppo di storici e di studiosi che in passato hanno collaborato con il Giornale di descriverci quale è stata l’opera artistica o letteraria, l’avvenimento personale, ma anche l’incontro, che ha avuto un particolare valore nel loro percorso formativo e culturale.
Vorremmo proseguire l’iniziativa proponendo ai nostri lettori di scriverci inviando alla posta di redazione le proprie testimonianze, le pagine più belle e significative verranno pubblicate nei prossimi aggiornamenti all’interno di questa sezione.

Sotto il sole

Ci sono dilemmi in cui un semplice articolo fa la differenza, nel caso specifico l’indeterminativo “un” ci salva dal dover scegliere – cosa d’altronde impossibile – “il” romanzo, film, testo teatrale che è stato determinante per quello che siamo e che facciamo. Ciononostante anche individuare un’opera di fiction tra le tante è cosa difficile. Imbarazzo della scelta e vuoto totale si fondono a creare un bianco panico: titoli e pagine, immagini, suoni e voci si accalcano e poi scompaiono. Fino a quando un ricordo affiora e resiste e infine si impone, con decisione, quasi con forza – e deve averne tanta per riemergere dall’angolo della memoria in cui è stato a lungo compresso.

Romanzo breve o racconto lungo, Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani è un testo che non so bene collocare nella mia storia, avrò avuto 15 o 17 anni quando l’ho letto la prima volta. Di altri libri ho ricordi più precisi – intendo dire dell’esperienza del libro: ricordo quando e dove ho letto Se questo è un uomo (in tenda, in montagna), ad esempio, o la notte insonne in cui ho divorato il Corsaro nero o, ancora, i giorni dell’Assedio di Lisbona. Di Uomini sotto il sole, invece, non ricordo nemmeno l’edizione, in casa non ce l’ho, sarà a Padova dai miei, probabilmente. Eppure basta niente e mi è subito chiaro perché questo testo breve e intensissimo si è fatto largo tra letture altrettanto o forse più importanti, ed è proprio per il suo essere un testo universale, in cui si racchiude il dramma senza tempo – eppure così concreto in ogni tempo – dell’umanità reietta, abbandonata, offesa dalla guerra, in fuga e in cerca di speranza.

Kanafani è uno scrittore palestinese, nato ad Acri nel 1936 e morto a Beirut nel 1972, in un attentato di cui è stato accusato il Mossad. Era un militante (un intellettuale militante) del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, ora verrebbe senza meno definito “terrorista” – le categorie analitiche si piegano alle necessità dei tempi e all’arguzia degli opinion-makers di turno.

Uomini sotto il sole racconta il viaggio verso il Kuwait di tre palestinesi, migranti clandestini (ma non si diceva così, probabilmente, nel 1963). Il viaggio avviene nella cisterna di un’autobotte, il passaggio della frontiera tra Iraq e Kuwait va fatto con il coperchio chiuso, nella cisterna l’aria è poca e il caldo è quello del deserto su cui, fuori, corre la strada. Il ritmo del racconto segna il tempo degli uomini nella botte da quando viene chiusa a quando viene riaperta. Potete anche leggere più velocemente o saltare le righe ma non c’è scampo. Il camion corre, si ferma, il passeur è bloccato nell’ufficetto delle guardie di frontiera, sovrane assolute nel loro piccolo regno e despoti come sanno essere le guardie, specie quando esercitano il loro potere sui confini, le soglie, la terra di nessuno, i territori occupati, le aree di conflitto. Scherzano, giocano con timbri e carte, si divertono col passeur – che suda e corre sotto il sole per stare nei tempi.

Il tempo è certamente il protagonista di queste pagine di Kanafani. Ma se Uomini sotto il sole è riuscito a incastonarsi nella memoria, e a resistere intatto dopo tanto, è per via degli uomini e delle loro storie evocate nel sole del deserto e nel buio della cisterna. E per via della violenza e dell’arroganza del potere esercitato sulla vita dell’altro con la crudeltà o con la sciatteria di chi si sente irresponsabile perché rinuncia alle proprie responsabilità (alla propria umanità, per dirla con Hannah Arendt).

Raccontare storie, come mi è capitato di fare (a prescindere dal mio imbarazzo a dirmi “storico”), ha certamente a che fare con la coscienza di questa violenza e con la consapevolezza che a forza di scavare – negli archivi come nei deserti – anche le tracce dei dimenticati, dei “senza storia”, finiscono col venire fuori.

 

Benedetto FASSANELLI