Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus


Abstract: Stiamo davvero vivendo un tempo “speciale”, un passaggio d’epoca, una condizione che per la sua straordinarietà verrà – come si suol dire – ricordata nei libri di storia?
Cos’è un’epidemia? Che forme hanno lo spazio e il tempo in una condizione di “quarantena”, di “clausura”?
Come si vive, si lavora, si studia e si scrive, come ci si muove entro confini imposti?
Come cambia la percezione dei bisogni e della necessità, della salute e della malattia, delle libertà individuali e della responsabilità collettiva di fronte al rischio – alla paura – del contagio e alla consapevolezza della eccezionalità?

In questo spazio, in un momento così particolare, per una volta, vorremmo fare una cosa forse insolita per una rivista di storia: osservare il tempo attuale e i fenomeni che lo segnano attraverso sguardi obliqui e non per forza convergenti, allontanando e ravvicinando il punto di osservazione, condividendo interpretazioni, letture, esperienze e questioni di metodo che possano contribuire a riportare le inquietudini e le sollecitazioni del presente sul piano del confronto delle idee.

Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus

Una scuola sospesa

di Elisabetta Serafini

 

La sospensione delle attività didattiche in presenza mi ha colta nel mezzo di due percorsi di formazione: uno come insegnante di scuola primaria, precisamente in una classe quinta; l’altro come docente a contratto di Didattica della storia presso l’università di Roma ‘Tor Vergata’, per un corso rivolto a studenti di laurea magistrale. Ho scelto di proporre in questo spazio qualche riflessione che verte maggiormente sul primo ambito, non solo in quanto mia primaria occupazione, ma anche visti il mio diverso – e più centrale – ruolo in esso, l’età dei ragazzi e delle ragazze, il momento critico di passaggio dalla scuola primaria alla secondaria e tutte le problematiche che ne conseguono. Si tratta di prime considerazioni a caldo, nate in giorni di lavoro che non lasciano molto tempo per una riflessione distesa.

Fin dai primi giorni di questa lunga quarantena, mi è parso chiaro che la scuola fosse costretta a misurarsi, oltre che con una più evidente ricollocazione degli spazi, con una secondaria, ma non meno complessa e significativa, ridefinizione dei tempi della relazione educativa.

È venuto meno il tempo scolastico in termini quantitativi: gli orari in cui era già complicato far rientrare i contenuti e le attività della programmazione si sono drasticamente ridotti. Inoltre, al venir meno di un’articolazione oraria che oggi ci sembra ampia, si aggiungono le complicazioni date dagli strumenti che stiamo utilizzando. Sebbene, infatti, le tecnologie ci consentano di tenere vivo, in qualche forma, quel rapporto, introducono parallelamente in esso delle problematiche nuove che richiedono almeno di essere riconosciute, dato che nella maggior parte dei casi è impossibile risolverle.

I tempi di attenzione, già brevi e fragili quando ci troviamo a lavorare in aula, durante una video lezione in sincrono divengono ancor più compressi e densi di ansia, poiché vissuti nella consapevolezza della precarietà della connessione e dell’alta probabilità che quel fortunato momento in cui tutti riusciamo a essere contemporaneamente connessi possa interrompersi. Anche nel caso (fortuito) in cui questa ipotesi non si verifichi, avremmo comunque vissuto la nostra lezione in uno stato di agitazione, forse trasmettendolo ai nostri studenti. Accade però, per la prima volta, di poter parlare ininterrottamente per tempi più lunghi, poiché gli studenti sono ancora intimiditi dalle nuove forme della didattica, oppure – molto più brutalmente – perché possiamo ‘silenziare’ con un fatidico click tutta la classe. Quante volte abbiamo immaginato di poter compiere questo gesto quando eravamo in aula, associandolo alla pura magia! Eppure, adesso che possiamo farlo davvero, non riusciamo a fare a meno di quel rumore di sottofondo, delle singole voci, ma anche della voce del gruppo, attraverso la quale era possibile misurare l’efficacia dei nostri interventi, modulandone lo svolgimento. Eppure, adesso, quel silenzio assordante negli auricolari ci fa pensare che non ci sia più nessuno ad ascoltarci. Personalmente, mi sorprendo ad augurarmi che le lancette corrano velocemente verso l’istante in cui gli studenti riattiveranno i loro microfoni e riacquisteranno la facoltà di esprimersi. Negli ultimi giorni ho chiesto loro di non disattivarli più mentre parlo: preferisco sentire il ticchettio delle mani sul tavolo, il respiro sui microfoni e le voci della casa piuttosto che il rumore del vuoto. Soprattutto quando non ho di fronte a me neanche i loro occhi e i loro volti mentre mostro il mio monitor.

Oltre al tempo della coabitazione, ci manca il tempo della progettazione condivisa, quella che siamo abituate a stilare all’inizio di ogni percorso e costantemente in itinere, per agire in modo sensato, ponderare i passaggi quotidiani e meditarli. Ci manca anche se il tempo del lavoro si è espanso oltremodo. Lavoriamo tanto, da sole, spesso improvvisando (nella stesura di questo articolo ho scelto, riferendomi al mondo della scuola, di utilizzare il femminile plurale, non soltanto perché lavoro in un team interamente femminile, ma soprattutto perché nel sistema formativo italiano 4 insegnanti su 5 sono donne. Per questo si veda il rapporto Ocse Uno sguardo sull’istruzione).

Tuttavia, anche con tempi ridotti e fragili, la scuola continua a esistere, se non come edificio come comunità.

Il 26 marzo scorso, durante il dibattito seguito all’intervento della ministra Azzolina al Senato, si è affermato che «Una scuola chiusa non è solo un edificio chiuso: è una comunità che viene improvvisamente a mancare in quel territorio» (si veda il resoconto stenografico della seduta n. 203 del 26/03/2020).

Non si può non essere d’accordo col fatto che, in questa lunga clausura tra le mura domestiche, la scuola si collochi in un non luogo, un po’ come l’Ottavia di Calvino: una città-ragnatela, sospesa su un precipizio, che però è meno insicura di altre poiché i suoi abitanti sono consapevoli della loro posizione precaria. Ma una comunità non svanisce quando viene privata dei suoi luoghi fisici di aggregazione, una trama tessuta nel tempo non si dematerializza in modo repentino. Anzi, è proprio nel momento in cui viene a mancare il normale equilibrio che una comunità che possa davvero definirsi tale dimostra di esistere ancora, seppure nella ricerca di nuove forme di esistenza. A qualunque punto del loro percorso scolastico fossero, i nostri studenti hanno dovuto improvvisamente assumersi un carico di responsabilità maggiore, e diverso, rispetto quello a cui sono abituati. E noi adulti, docenti e genitori, abbiamo avuto forse una possibilità, nuova, di osservare quanto e come abbiamo saputo lavorare nella costruzione di quella rete che ora ci permette di non precipitare.

Abbiamo educato bambini e ragazzi come cittadini dell’oggi prima ancora di proiettare la loro cittadinanza verso un domani indefinito? Abbiamo costruito relazioni, promosso la convivenza civile e democratica prima ancora di insistere sui contenuti e sulle discipline? Abbiamo incoraggiato all’assunzione di responsabilità in relazione al gruppo? Quanto è stato efficace il nostro intervento sulla costruzione dell’autonomia? E non mi riferisco ovviamente all’autonomia nelle competenze digitali, quanto piuttosto a un’autonomia operativa in grado di sostenere la capacità di organizzare costantemente il proprio lavoro nella sua scansione giornaliera e settimanale, declinando ovviamente tutto ciò secondo le varie età cui facciamo riferimento. Prima ancora di esprimere una valutazione sul lavoro dei nostri studenti (come ci è stato richiesto fin dalla nota Miur 388 del 17 aprile 2020) che, pur messi a dura prova, stanno a ogni latitudine lavorando per portare a conclusione questo anno scolastico, siamo messe di fronte alla possibilità di valutare il nostro operato come comunità educante, in relazione al primo e più alto significato che va attribuito alla scuola.

Venendo a questioni più concrete della mia esperienza, ho da subito potuto beneficiare di un vantaggio nel contesto della scuola primaria, in quanto dallo scorso anno mi avvalgo dell’uso di una piattaforma digitale pensata per il primo ciclo di istruzione. La piattaforma, fino a poco tempo fa, veniva utilizzata per la condivisione di materiali digitali, al fine di supportare il lavoro a casa e sperimentare la classe capovolta, oltre che per consentire alla classe di familiarizzare con le tecnologie.

Questo vantaggio ci ha permesso di essere operative fin dal primo momento, non essendo necessario alfabetizzarci e alfabetizzare la classe all’uso di uno strumento digitale in una situazione di emergenza, e di poterci così concentrare maggiormente sul resto. Che consiste in non pochi importanti quesiti, con riferimento particolare alla storia: quali contenuti proporre? Affrontare nuovi argomenti o consolidare quanto si è già fatto? Ha ancora senso parlare del passaggio da monarchia a repubblica nell’antica Roma o ne ha di più abbandonare i contenuti della regolare programmazione per fornire chiavi di lettura più immediate della contemporaneità? Lezioni in sincrono o in asincrono? Quali tipologie di attività privilegiare?

È impossibile riportare in questa sede il complesso dibattito intorno alla necessità di un ripensamento dell’insegnare storia, della messa in discussione del modello trasmissivo che vede il docente spiegare il libro di testo e il discente studiarlo a menadito. Tuttavia, vorrei almeno richiamarlo per cercare di capire in che modo questa situazione possa giovare a un’accelerazione di questo processo o a un ripiegamento in direzione opposta.

Al di là delle ovvie considerazioni sulla didattica a distanza e sul fatto che non possa in alcun modo sostituire la complessità e multisensorialità della relazione educativa, dovremmo cercare di identificare quello da cui guardiamo oggi come un punto di vista privilegiato, forse perché un po’ arretrato rispetto a quello da cui siamo abituate a guardare la scuola, almeno per identificare l’indispensabile e l’irrinunciabile.

Non abbiamo dubbi riguardo al fatto che, se le lezioni in asincrono forniscono la possibilità di essere godute quando e come è possibile, dall’altro fanno sì che si cristallizzi definitivamente il modello trasmissivo, privandoci della reciprocità, ossia dell’elemento che consente a noi insegnanti di fare le nostre proposte a partire dalle conoscenze pregresse e dagli interessi della classe, di calibrare man mano il nostro intervento, che consente agli studenti di crescere insieme e di comprendere il valore di quell’insieme.

Penso poi di non essere stata l’unica a doversi misurare con l’inutilità di assegnare attività basate soltanto sulla verifica dei contenuti acquisiti: questi ultimi sono ora più che mai a portata di mano, forse è meglio dire a portata di click. Allora vale la pena insistere sulle capacità di concettualizzare, di mettere in relazione, di elaborare mappe, grafici, tabelle, periodizzazioni, perché no, anche con l’ausilio di libri e Internet. E cogliere l’occasione per riflettere, noi, tra di noi, e con loro, su un serio orientamento all’uso delle risorse digitali, per il quale le metodologie e gli strumenti della ricerca storica sono il riferimento per eccellenza.

Nel caso non ci fossimo ancora mosse in questo senso, siamo costrette a farlo ora. Forse con qualche effetto benefico.

Per certi versi è stato interessante osservare in che modo ragazze e ragazzi abbiano iniziato a destreggiarsi tra le attività proposte, nel quadro di una progettazione che – per quanto “improvvisata” – ha cercato di stimolare la loro creatività e la capacità di collaborare anche a distanza: le lezioni capovolte in cui loro stessi hanno illustrato un nuovo argomento, le conversazioni a coppie in cui si pongono reciprocamente domande su una questione studiata ed esprimono un giudizio sulla preparazione reciproca, la lettura di libri a contenuto storico con discussione a ogni capitolo e relativa realizzazione di grafici temporali, la costruzione di slide sulla storia del territorio e della propria scuola con l’ausilio della famiglia e di interviste telefoniche o video. Ciò non faccia pensare a un’esaltazione della didattica a distanza, quanto a un suo utilizzo il più possibile attivo e collaborativo.

Ma forse ancor di più è stato commovente avere la percezione di una crescita improvvisa, nella consapevolezza della loro forza e della loro fragilità. Loro stessi mi hanno riportato alla memoria le parole di Liliana Segre che, in una lezione tenuta al Teatro degli Arcimboldi per le scuole milanesi vista in classe, con sguardo deciso e con parole vibranti, ricordava a ragazzi e ragazze la forza di cui sono capaci e che spesso gli adulti non riconoscono loro.

Tuttavia, oltre gli aspetti positivi che è possibile cogliere in questa complessa situazione, non è difficile scorgere i drammatici costi.

Per quanto noi insegnanti stiamo, nella maggior parte dei casi, cercando di raggiungere i nostri studenti attraverso tutti i canali possibili, non riusciamo a essere presenti, si sa, quanto lo siamo a scuola. Ma non siamo gli unici assenti: come noi, non sono presenti compagni e compagne di classe, e sappiamo quanto il gruppo possa essere di sostegno nelle attività.

La scuola sta perdendo i contatti con ragazzi e ragazze in difficoltà non soltanto a causa del divario digitale. Sono i divari sociali e culturali quelli che stanno incidendo maggiormente sullo sgretolamento della relazione educativa e della comunità scuola.

C’è da chiedersi quali siano le reali necessità della scuola, oltre ai fondi per devices, piattaforme digitali e formazione digitale dei docenti: in primo luogo, quando si tornerà in aula, pensare a seri progetti di inclusione, volti a creare comunità educanti; e ancora, per il corpo docente, una formazione disciplinare specifica che non consideri il digitale come strumento neutro, giustapponendolo ai contenuti, ma lo metta in relazione con le metodologie peculiari di ogni singolo ambito.

Più in generale, per colmare i divari all’interno del sistema scolastico nazionale, prima ancora che quello digitale, a emergenza conclusa bisognerà congelare il processo di regionalizzazione avviato dalle richieste di autonomia differenziata.

Per ritornare a questioni più strettamente didattiche, un ulteriore aspetto sul quale ho ragionato a lungo, anche cambiando prospettiva con lo scorrere dei giorni, è il rapporto col presente: quale spazio dargli nella didattica? Sono giunta alla conclusione che nella scuola primaria sia opportuno cercare di equilibrare la doverosa attenzione all’attualità, la sua lettura in chiave storica, con le ansie e le fragilità proprie dell’età, e in questo senso ho operato; per la didattica universitaria mi sono mossa invece in direzione diametralmente opposta. Mi si presentavano infatti da un lato la possibilità di far riflettere gli studenti sui piccoli e grandi imprevisti (per usare un eufemismo) dell’insegnamento, dall’altro quella di usare il presente come laboratorio.

È stata mantenuta la struttura del corso, con una parte di lezioni frontali (partecipate) e una parte di laboratori. Il numero non alto di partecipanti ha consentito di condurre le lezioni secondo modalità non troppo distanti da quelle tradizionali; una maggiore sofferenza c’è stata per i laboratori, che sono stati necessariamente ristrutturati.

Paradossalmente questa strana didattica a distanza mi ha portata a un contatto più intimo col gruppo di ragazze e ragazzi: l’ingresso nei rispettivi spazi domestici, l’iniziare le lezioni informandosi reciprocamente circa le proprie condizioni di vita, di studio e di lavoro, sono tutti elementi che ci hanno condotti a riflettere insieme su quanto sia importante considerare la relazione anche nella dimensione universitaria e su quanto gli studenti siano poco abituati a farlo, tanto che talvolta faticano a rispondere.

Nel lavoro sviluppato nell’ambito dei laboratori, volto alla ricerca delle false notizie diffusesi in questi giorni, e più in generale all’uso degli strumenti della disciplina come bussola per orientarsi nell’infodemia del web, è emersa con maggiore evidenza l’importanza di valutare anche in questo contesto attraverso un processo e non in una sola soluzione collocata alla fine del percorso.

Sappiamo che la valutazione è una delle note più dolenti della didattica a distanza: ci viene richiesta obbligatoriamente dal Ministero, che non riesce contemporaneamente a fare troppa chiarezza in merito. D’altro canto il buon senso ci induce a pensare che questo sia più il tempo di lavorare per tenere in piedi le relazioni piuttosto che quello di valutare.

Riusciamo con molta difficoltà a ridurre la complessità del momento a un giudizio, figuriamoci a un voto. Facciamo fatica ad adattare la valutazione complessiva del lavoro che i ragazzi stanno svolgendo agli strumenti che generalmente utilizziamo. E soprattutto, perché un processo di valutazione sia efficace è necessario coinvolgere in esso tutti gli attori della relazione educativa. Discenti compresi. Tanto più che sono loro a chiedere chiarezza in questo senso, in modo diverso in ogni ordine e grado di istruzione.

Una chiarezza che non siamo ancora in grado di restituire perché non si è fatta ancora nelle nostre teste: non abbiamo individuato con precisione obiettivi, criteri, modalità e strumenti.

Nella gran parte dei casi cerchiamo di rassicurare dicendo che la valutazione non è il voto e non è il voto a contare ora. Che importa restare in contatto e continuare a concreare pur sapendo che non è esattamente così.

Penso dunque che sia estremamente importante e urgente compiere un passo verso la precisazione dei criteri e delle modalità di valutazione, per poi comunicarli in modo chiaro agli studenti e alle famiglie. Ma credo anche che l’unica valutazione ad avere un senso ora sia quella formativa, quella che include gli studenti nel processo e li induce ad auto valutarsi ma a valutare anche noi e la scuola; una valutazione sincera che noi docenti compiamo su noi stessi, a prescindere dal nostro grado di competenza digitale; ma anche una valutazione che il sistema formativo nazionale compie sulle sue differenziazioni regionali, che spinga al miglioramento e non costituisca soltanto uno spauracchio che convince gli studenti ad alzarsi dal letto la mattina.

Perché un processo di valutazione così conformato si realizzi è necessario che, sopra ogni altra cosa, nella scuola al tempo del Coronavirus continuino a restare vive la relazione, la reciprocità, l’intersoggettività; che ogni docente continui a vedere dietro quei monitor persone che faticano a gestire uno spazio e un tempo nei quali si mescolano indistintamente e confusamente gli ambiti della loro vita; che vengano mantenute vive le relazioni tra bambini e ragazzi e non messe in secondo piano rispetto a quella tra docente e discenti; che vengano incentivate la creatività e le proposte da parte di questi ultimi, sperimentando percorsi motivanti, anche se non perfetti e ineccepibili. Ma soprattutto mi sembra di fondamentale importanza continuare a coltivare momenti di scambio umano ed emotivo, perché sono quelli che reggono la nostra scuola sospesa, sono le funi della nostra Ottavia.

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Foto di E.P. Serafini