New Feminism Now! §3 Neofeminism Now!

New Feminism Now! §3 Neofeminism Now!

Abstract: Come la Gender War e la Social Justice War dei 2010s, anche il femminismo mainstream dei 2000s, quello che spesso si è classificato come “Post-femminismo”, può essere visto come l’espressione, una manifestazione (privilegiata) delle strutture del sentire dominanti in occidente a partire dai 1980s e una espressione congiunturale della svolta neoliberale: «Post-femminismo» e neoliberismo, infatti, sono andati costituendosi di pari passo, in molti casi sovrapponendosi e manifestandosi come due facce dello stesso percorso, dando vita a quello che si può definire come “femminismo neoliberale”. Ma è veramente possibile un «neoliberal feminism»? Per le donne, è possibile, cioè, un’autentica giustizia sociale in un mondo inscritto in una cornice neoliberista? La questione è più complessa e storicamente interessante di quanto di primo acchito potrebbe apparire. Il fascino esercitato dalle politiche neoliberali sul femminismo, infatti, appare evidente quando si prende atto di come ogni market fundamentalism – la cui principale promessa è quella che dice che si può sempre essere tutto ciò che si desidera e lo si può fare in piena “autonomia” – si presenta come una “forza” per sua natura egualitaria e pro-diversity, proponendosi di rendere tutti uguali davanti al denaro. Aggiornando il mantra del liberalismo classico, per il quale il mercato è l’unica struttura autenticamente imparziale, oggettiva, in grado di considerare tutti gli individui come rational agent economici formalmente eguali, le politiche neoliberali si proponevano di abbattere quel sistema sociale (breadwinner liberalism), nel quale l’indipendenza e l’autonomia delle donne non erano parte integrante del suo funzionamento (e per il quale, d’altronde, «Woman’s Place is in The Home»), fluidificando secolari determinazioni oppositive e, quindi, garantendo un’autentica mobilità sociale, in modo che tutti – a prescindere dalla razza, il sesso, l’orientamento sessuale, la classe sociale etc. – potessero così accedere al mondo del lavoro sulla base del “merito” e delle effettive capacità individuali. Ma accettare i “doni” del neoliberismo per il femminismo significava ripudiare molte delle logiche e pratiche del femminismo storico, rinunciando ad ogni identificazione gruppale e ad ogni azione collettiva e schiacciandosi in una logica individuale in cui il bene “comune” delle donne si risolveva nel pensare ciascuna esclusivamente al proprio bene ed al proprio successo, nel pensare esclusivamente a se stesse ed al proprio interesse, non anche a quello delle altre donne. Se quindi è indubbio che la proletarizzazione e neoliberalizzazione delle donne abbiano contribuito (soprattutto in particolari contesti geografici e politici) ad un “miglioramento” della condizione femminile e favorito l’empowerment delle singole donne (non della donna in quanto tale), arricchendone lo spettro di possibilità esistenziali, culturali e sociali, allo stesso tempo non è affatto chiaro se la “feminization of the labor force” – cioè l’allargamento secondo le logiche neoliberali di tutte le sfere e posizioni del mercato del lavoro alle donne, come anche a tutti i generi ed etnie – abbia davvero ottenuto i risultati sperati, e soprattutto la pretesa “fine” dell’ineguaglianza. Si potrebbe, anzi, sostenere che il neoliberismo abbia realizzato non solo una “eguaglianza elusiva”, ma soprattutto abbia costruito i propri “successi” su di un vero e proprio motore della diseguaglianza. Quel che ci si può domandare, allora, è se il neoliberismo non abbia trasformato il femminismo (dei Sixties) nel suo contrario; un femminismo, cioè, dove la lotta per i diritti civili, “sociali”, è diventata un agone utilitaristico dove le donne lottano l’una contro le altre, non “insieme” contro chi le ha oppresse e le opprime, e quindi ognuna per sé, per il proprio profitto e sempre a discapito delle altre. Una “giustizia” che, trasformata in un “prodotto”, diventa una questione privata ed individualistica, una contrattazione che riguarda sempre “me, but not you”. I limiti che, allora, emergono da un femminismo che vuole essere inteso come neoliberale, e del quale condivide sia la logica sia la retorica – in particolare il (post)femminismo mediatico, mainstream e popolare –, si mostrano quando ci si domanda se sia realmente possibile rivoluzionare la visione mercificata, e pertanto sessista, delle donne, che ancora nei 2010s permeava molta della cultura del nostro tempo, allo stesso tempo, però, abbracciando una ideologia che vede nel competitiveness imperative, nella commodification of everything, e soprattutto nella mercificazione del sé e dei rapporti umani – con la loro trasformazione in strumenti speculativi – il compimento ultimo dell’umano.

§3 Neofeminism Now!From Social Feminism to Market Feminism

In qualche modo definibile come una manifestazione del Mainstream Feminism, del “Post-femminismo” e del Fourth Wave Feminism, quello dei Social Justice Warrior dei 2010s è un fenomeno che s’inscrive in un paesaggio storico radicalmente diverso da quello che andò originando il femminismo dei Sixties. Un paesaggio, cioè, definito da una profonda trasformazione storica, politica, culturale e soprattutto tecnologica, la quale ha contribuito a determinare una rimodulazione interna al femminismo, che, pur rimanendo nella sua sostanza progressista, ha visto negli anni spostare – per dirla con la celebre e controversa ricostruzione di Nancy Fraser – l’asse del suo centro, dalla critica sociale alla critica culturale, subordinando così «le lotte socio-economiche alle lotte per il riconoscimento», e le lotte per la redistribuzione a quelle per l’identità. Oppure – il che, da un punto di vista più propriamente marxista/marxiano e socialista, è forse lo stesso – le lotte comuni per l’emancipazione e per le questioni di genere sono state completamente separate dalle dinamiche della lotta di classe e da quelle dello sfruttamento economico e dall’oppressione patriarcali, facendosi sempre di più una questione individuale, quasi privata, e spesso fondata su di una logica esclusivamente “sentimentale” e sulla strategia del “self-care”, più che su di una logica «critica». Ed è così che in più di un’occasione la lotta di “classe” femminista si è trasformata, allora, in una serie di «lotte di genere» e «per il genere». A partire dai 2000s, allora, il femminismo è sembrato sempre di più perdere le sue connotazioni propriamente economico-politiche, per ridursi così ad una specificazione, declinata in senso individuale ed individualistico, delle “Identity Politics”. Per molti femminismi dei Sixties, ed in particolare quelli della differenza (radicale), non era possibile, cioè separare il piano politico, quello socioculturale e quello personale, mentre per post-femminsimo e/o il neofemminismo dei 2010s il piano si riduce a quello personale e culturale, escludendo, se non in seconda istanza) quello politico e sociale. D’altra parte, si potrebbe ben dire che questo è potuto avvenire anche perché le strutture del sentire dominanti in occidente a partire dai 1980s sono diventate espressione congiunturale della svolta neoliberale. Va da sé, allora, che i due fenomeni («post-femminismo» e neoliberismo) sono andati costituendosi di pari passo, in molti casi sovrapponendosi e manifestandosi come due facce dello stesso percorso. Anche per questa ragione parte dell’attivismo “social” dei 2010s, più che all’interno della logica Sixties dei Social Justice Warrior, sembra rientrare in quella ricategorizzazione delle lotte per i diritti sociali che andrebbe appunto definita come “Individual Justice Warrior”; un attivismo, cioè, per il riconoscimento dei propri diritti “individuali” – sì civili, ma non sociali – per potercela fare e realizzare desideri e bisogni con solo le proprie forze, senza l’aiuto di nessuno (neanche le altre donne) e così avere le stesse opportunità (equity) degli uomini ed eventualmente raggiungere il loro stesso “successo” individuale. L’idea era che, una volta garantita la parità delle opportunità, le differenze tra uomini e donne sarebbero come magicamente sparite e l’uguaglianza finalmente raggiunta. Per la cultura dei femminismi, allora, il fenomeno del Social/Individual Justice Warrior e quello della Woke Culture possono essere letti come una manifestazione di quello che dai 1990s a vario titolo è stato definito come “Post-Feminism”, “Neoliberal Feminism”, “Marketplace Feminism”, “Market Feminism”, “Social Media Feminism”, “Popular Feminism”, “Mainstream Feminism”, “Media-Ready Feminism” e infine, seppur in maniera certo più complessa e sfaccettata, anche “Queer Feminism”. È in questo senso, che molto del femminismo mainstream emediatico dei 2010s ha visto soffocare le molteplici anime del femminismo (liberal, leftist, radical, black, third world, intersectional, transnational etc., fino ad arrivare alle sue varianti transgender, cyber– e xeno-) da quella “(neo)liberal”, declinata secondo il rationale della nuova concezione del liberismo globale post-1970s e schiacciata esclusivamente sulla questione dell’«Equality» e delle «Identity Politics».

Lorenzo_MARRAS_Newfeminism_Now_parte-03-it-18Nov