Solo una persona libera fa la storia. Gabrielle Suchon e la sfida del celibato volontario

Solo una persona libera fa la storia. Gabrielle Suchon e la sfida del celibato volontario

Abstract: Francia, periodo compreso tra il 1662 e il 1667. Una suora fugge dal suo convento. È una fra le tante monache forzate che da secoli riempivano i monasteri di tutta Europa ma, soprattutto, è la futura filosofa Gabrielle Suchon (1632-1703). Entrata giovanissima in convento per volere della famiglia, ad un certo punto della sua vita prende la decisione di sfidare le regole del tempo e sottrarsi alla vita monastica. Per questo, una volta evasa, si reca a Roma per chiedere al Papa di revocare i suoi voti. È così che finalmente ottiene la libertà per la quale aveva sfidato le leggi e le consuetudini dell’epoca, salvo poi perderla nuovamente. I suoi familiari impugnano la decisione papale presso il Parlamento di Digione e lei viene condannata a riprendere la vita monastica. Gabrielle Suchon, tuttavia, non si dà per vinta e, in cambio dell’impegno di vivere reclusa in casa, riesce ad evitare il ritorno in convento. A quel punto per lei inizia il tipo di vita che più di tutto desiderava: studio, insegnamento, scrittura. Per quanto tardivamente, e sotto lo pseudonimo di Aristophile, nel 1693 riesce anche a dare alle stampe un ragguardevole testo: Traité de la Morale et de la Politique. Qualche anno dopo pubblica un’altrettanta straordinaria opera: Du Célibat Volontaire ou la vie sans engagement (1700). Si tratta di scritti dalla grande rilevanza storica e teorica. Ancora oggi essi sono in grado di dare un importante contributo alla costruzione di una filosofia della libertà e di una critica delle istituzioni quale strumento principale di esercizio del biopotere. Siamo infatti in presenza di opere in cui, con raffinata tecnica argomentativa, si denuncia l’insidioso rapporto rintracciabile tra lingua, scienza e potere o, ancora, tra istituto del matrimonio, controllo sociale delle donne, organizzazione economica della società. Passando dall’analisi all’azione, Gabrielle Suchon propone una vera forma di lotta non violenta: contrappone alla norma/imposizione del matrimonio/monacazione quella singolare forma di “obiezione di coscienza” che ella individua nel “celibato volontario”. E questo senza trascurare il fondamentale diritto di poter definire il proprio rapporto con Dio a partire da scelte consapevoli e libere. Nel pieno dell’affermazione della Controriforma, e sotto la monarchia assoluta di Luigi XIV, la Gabrielle Suchon che, con il suo nome di battaglia, si era dichiarata “amante di ciò che è degno”, offre all’età moderna un’audace filosofia della libertà dalle non poco esplosive conseguenze teologiche.
La storia è ricchissima di nomi e di testi di filosofe, scienziate e intellettuali di ogni tipo che la plurisecolare consuetudine di ignorare o cancellare il contributo dato anche dalle donne alla nostra cultura ha reso invisibili. Tuttavia non c’è dubbio che, anche laddove le condizioni di vita di queste ultime sono state proibitive e l’accesso all’istruzione negato o neutralizzato, esse hanno attivamente preso parte alla vita intellettuale dell’epoca nella quale hanno vissuto. Anzi, spesso sono state in grado di rendersi protagoniste di interessanti operazioni di decostruzione del sapere dominante e di smascheramento del servizio che – come avrebbe detto Roland Barthes – ad esso rende quell’«organismo trans-sociale» che è la lingua. È questo il caso, ad esempio, di Gabrielle Suchon la quale va conosciuta e ricordata da una parte per la singolarità della sua biografia, dall’altra per l’importanza storico-filosofica del suo pensiero. In particolare, le va riconosciuta una straordinaria capacità di leggere «gli scritti dei sapienti» secondo il modernissimo principio in base al quale «essi possono conciliarsi con le differenti necessità delle anime così come gli oggetti materiali possono svolgere differenti funzioni». Ella si spinge addirittura ad affermare che «le deboli conoscenze che lo spirito del secolo ha a disposizione rendono fuori luogo la pretesa di disquisire sulla condotta tenuta da Dio nei confronti delle sue creature». Gabrielle Suchon nasce nel 1632 a Semur-en-Auxois (Borgogna-Francia) e muore a Digione il 5 marzo 1703. La sua è una famiglia della piccola nobiltà di provincia e sembrerebbe che siano stati i suoi genitori, nella fattispecie la madre (suo padre era morto nel 1645), ad obbligarla ad entrare in convento non ancora adolescente. Ella fu dunque monaca domenicana fino almeno all’età di 35 anni, momento in cui «trovò abbastanza coraggio per affrontare da sola e senza comunicarlo a persona» un viaggio fino a Roma per chiedere al papa che i suoi voti fossero sciolti, cosa che, in effetti, il papa fece. Fu la famiglia, invece, ad opporsi. Per questo fu portata davanti al Parlamento di Digione il quale stabilì che dovesse rientrare in convento. Non si sa come ella riuscì a sottrarsi a tale sentenza, senza tuttavia poter scampare alla sua precedente condizione di reclusa. Fu così che visse per tutta la sua vita in casa di sua madre conservando addirittura l’uso di portare «una sorta di velo». È plausibile pensare che questo fu il prezzo che ella fu disponibile a pagare per potersi dedicare a ciò che veramente le interessava: studiare, scrivere e insegnare. Altrimenti detto, la sua storia di evasa, la sua vita di reclusa più o meno volontaria, gli scritti che ella firmava con un nome di battaglia (Aristophile), hanno certamente contribuito all’affermazione della modernità in quanto momento in cui – come Immanuel Kant ha sintetizzato nel suo immortale saggio su Che cos’è l’Illuminismo (1784) – gli uomini e le donne «imparano ad osare» e, così facendo, sanciscono la loro uscita dallo «stato di minorità». Del resto, se così non fosse, non potrebbero esistere tutte quelle libere condotte che rendono possibile l’amore per gli altri e addirittura per Dio. L’essere umano porta in sé il carattere del suo sovrano, che altro non è che la libertà e la franca disposizione di tutti i suoi movimenti al punto che si può dire con un buon grado di verità che la libertà dell’essere umano è la più delicata opera uscita dalle mani di Dio. […]. Egli, conoscendo grazie alla sua prescienza che quello avrebbe peccato trasgredendo le sue leggi, non gli ha tolto il potere della sua libertà, poiché si tratta di uno dei più preziosi tesori dell’anima razionale e Dio è troppo giusto per sottrargliela per il semplice fatto che molti ne avrebbero abusato. È grazie alla libertà che Dio è amato, glorificato e servito, che il prossimo è soccorso e assistito nei suoi bisogni; è per suo tramite che le leggi possono esistere, le Repubbliche essere governate, i crimini puniti e le buone azioni ricompensate; è infine la molla che mette in moto ogni cosa. […]. Dio ha dato così convintamente la libertà all’essere umano che, se anche lo volesse, non potrebbe distruggerla a causa del fatto che la volontà, che ne è la fonte, non si troverebbe più nel suo essere naturale se essa fosse privata della libertà. L’una non può cessare di esistere senza che la stessa cosa accada all’altra, poiché la volontà non è altro che una potenza libera di scegliere i mezzi che le sono necessari per raggiungere i fini che si propone. Come si può constatare, la monaca forzata evasa dal convento in un periodo storico in cui alle suore non è nemmeno concesso dichiarare la propria volontà di rinunciare alla loro condizione, intende fondare una filosofia della libertà che sia allo stesso tempo prassi, metodo finalizzato al concreto raggiungimento dell’esercizio della propria autorità. Essa prende forma nelle seguenti opere: il Traité de la Morale et de la Politique (1693), e il Du Célibat Volontaire (1700). Il primo scritto mira, in effetti, a dimostrare che le donne possiedono le capacità necessarie all’esercizio della libertà, della scienza e dell’autorità. Tuttavia, Gabrielle Suchon è ben consapevole che esse «trascorrono la loro vita nella privazione» della possibilità di mettere a frutto tali capacità. Da un punto di vista della tecnica argomentativa è molto interessante il modo attraverso cui ella spiega questa singolare condizione delle donne: «la privazione suppone sempre nel soggetto che la subisce una capacità naturale di acquisire e possedere il bene di cui egli è privato». Secondo la filosofa le donne sono quindi destinatarie di reiterate azioni di espropriazione delle loro abilità e possibilità. Il che, da una parte dimostra che esse posseggono – esattamente come gli uomini – le capacità che non vengono loro riconosciute, dall’altra svela l’origine socio-culturale della loro condizione di subordinazione. A suo parere, la più temibile fra le privazioni storicamente inflitte alle donne è quella in conseguenza della quale esse si ritrovano nell’ignoranza. In effetti, è prima di tutto dall’inaccessibilità all’istruzione e alla conoscenza che scaturisce l’impossibilità di autodeterminarsi e la conseguente condizione di dipendenza dall’«imperioso potere degli uomini» che così assurgono al ruolo di «giudici e maestri» che «mai cambierebbero gli usi che essi hanno deciso». In questa situazione, alle donne non resta che esercitare una fondamentale forma di libertà: rivendicare la condizione di «nubili per volontà propria» e, quindi, dedicarsi allo studio e alla propria elevazione spirituale sottraendosi al matrimonio in quanto spazio nel quale la loro subordinazione nei riguardi degli uomini si aggrava e legittima. Il punto di vista di Gabrielle Suchon è assolutamente inedito. Si tratta di una rivendicazione molto specifica e di grande significato politico e culturale. Del resto, ella la presenta come una «vocazione che pertiene ad una Chiesa Militante». In effetti, si tratta della rivendicazione di un «nuovo tipo di famiglia» in grado di onorare certamente quella «celeste» ma soprattutto di competere in valore con quella riconosciuta dalle leggi e dalla religione. Gabrielle Suchon è una filosofa dalle importanti e colte letture. Così, quando si tratta di legittimare anche sul piano della filosofia politica la sua filosofia della libertà, si richiama esplicitamente a San Tommaso. A quel punto ella ricorda che è quest’ultimo che sottolinea che un’azione «propriamente umana» si distingue da un «atto semplicemente naturale» derivato dalla «mera facoltà sensitiva», in quanto essa è un dispositivo intenzionale, ovvero il prodotto congiunto della volontà e della libera ragione. Il diritto alla libera scelta scaturisce quindi dal fatto che è «naturale per ogni creatura essere dotata di intelligenza e ragione» e, poiché ha specificamente a che fare con la possibilità di «contrarre impegni con se stessi», si tratta di quel diritto senza il quale tutte le forme di impegno – che di fatto rendono possibile la vita delle società e il rispetto delle leggi – non potrebbero esistere. In effetti, nessun impegno verso terzi può realizzarsi se non si è nelle condizioni di poter «scegliere e amare ciò che si sceglie», ovvero rispondere della propria persona alla persona che si è veramente. D’altro canto, ella presenta il celibato volontario come una disposizione d’animo «così importante e generosa» da non poter provenire che da «anime illuminate» e, quindi, generare la convergenza tra «inclinazione e ragione», ovvero tra desiderio e vita concretamente vissuta. Ecco perché il celibato volontario è così rilevante proprio dal punto di vista filosofico e, in particolare, dal punto di vista filosofico-linguistico. Esso mette al centro la parola e il suo potere performativo molto più di un sacramento. Un impegno è in sé una promessa, una parola tenuta a diventare realtà, fatto, azione, materializzazione delle inclinazioni più recondite. Ma l’impegno certamente più significativo è quello che si prende senza dover ottenere «l’accordo di una seconda o terza persona», condividere «beni e dimore» o «svolgere un rito davanti alla Chiesa». Come del resto insegna l’Aristotele chiamato acutamente in causa dalla nostra filosofa, «ciò che è bene non è qualcosa di uguale per tutti» e, quindi, la scelta che lo riguarda non può dipendere dal dover «far ricorso ad un’autorità estranea» a noi stessi. D_Chiricò_Solo-la-persona-libera-fa-la-storia-