Tra scrittura e oralità: le parole della performance art italiana nei decenni Sessanta e Settanta

Tra scrittura e oralità: le parole della performance art italiana nei decenni Sessanta e Settanta
Aboriginal ritual, theatrical performance

Abstract: Il saggio propone una prima mappatura e riflessione attorno all'assunzione della parola, scritta e detta, nelle pratiche della performance art italiana tra la fine degli anni Sessanta e per circa un decennio. Mentre le neoavanguardie letterarie e teatrali procedono verso un processo di frammentazione e nei casi più radicali di espulsione della parola, le sperimentazioni di artiste e artisti visivi, e in particolare le pratiche performative, evidenziano invece un interesse stratificato e mobile nei confronti della scrittura quanto dell'oralità. I due paragrafi che costituiscono il saggio funzionano non solo sotto il profilo della ricostruzione storica e della riflessione critica sui fenomeni indagati ma dialogano tra loro cercando d'individuare, oltre le posture dei singoli artisti e delle artiste, movimenti generali nella ricerca estetico-performativa italiana.

The essay proposes a first mapping and reflection around the assumption of the word, written and said, in the practices of Italian performance art between the end of the 1960s and for about a decade. While the literary and theatrical neo-avant-gardes proceed towards a process of fragmentation and in the most radical cases of expulsion of the word, the experiments of artists and visual artists, and in particular performative practices, instead show a stratified and mobile interest in writing as much as in orality. The two paragraphs that make up the essay work not only from the point of view of historical reconstruction and critical reflection on the phenomena investigated but dialogue with each other trying to identify, beyond the postures of individual artists and of the artists, general movements in the Italian aesthetic-performative research.

Le neoavanguardie letterarie e poetiche degli anni Sessanta e Settanta hanno cercato di far deflagrare la parola tendendola, dissezionandola, ingolandola, cercando di far emergere, svelandola, la lingua letteraria come «fenomeno patologico», per utilizzare le parole del poeta e critico Alfredo Giuliani durante il dibattito d’apertura del primo incontro del Gruppo 63 a Palermo. Successivamente, il poeta e artista Emilio Isgrò cancella le parole che scrive. Le annulla, come fa nel 1972 il critico Mario Diacono, estendendo questa posizione alla critica d’arte. Nello stesso momento l’altra arte che veicola parole, il teatro (musicale e non), procede ad esacerbare il rapporto scena-drammaturgia verbale attraverso diversi metodi, dalla scomposizione fonetica (Luigi Nono, Giuliano Scabia) all’adozione del puro nonsense (dal grammelot di Dario Fo alle estenuanti azioni “canore” di Gianni Colosimo) fino ad arrivare all’assenza di espressione verbale (Remondi e Caporossi). Come in un movimento riflesso, quell’«artefatto cognitivo complesso» che è la parola, frammentata, masticata ed espulsa, viene assunta nelle arti visive in modalità molto eterogenee. Ci sono le registrazioni delle discussioni private di Emilio Prini nei secondi anni Sessanta, le sonorità vocali dei Quadri parlanti di Remo Bianco e le riflessioni parlate di Luca Maria Patella nei Muri parlanti e nel Boschetto di alberi parlanti nei primi anni Settanta, descrizioni analitico-surreali che diventano nel tempo una produzione costante dell’artista, raccolte anche in libri (Io sono qui, 1975). Infatti, tra le produzioni degli artisti visivi si afferma anche il “libro d’artista”.

In particolare però sono le pratiche della performance art ad avviare più stretti rapporti con la parola scritta e/o detta, anche se ad un primo sguardo non sembrano esserci molti punti di contatto tra loro. Pensando alla performance e alla body art storica le immagini ricorrenti sono quelle di corpi silenti, le cui espressività sono spesso veicolate da condizioni radicali, sotto il profilo della resistenza fisica tanto quanto quello degli enunciati concettuali che sottendono. Il focus delle azioni performative, sull’evento o sul corpo come materiale, sembra perlopiù abdicare sia al linguaggio verbale sia a quello scritto nelle loro possibili declinazioni. In realtà, i punti di contatto sono molteplici e riguardano diversi aspetti. Ad esempio, possiamo riscontrare come l’avvio della performatività nelle arti degli anni Sessanta avvenga spesso attraverso la parola: il passaggio dall’azione musicale a quella performativa nella musica gestuale è contraddistinto dall’abbandono del codice musicale in favore della descrizione puramente verbale (Giuseppe Chiari, Walter Marchetti), le performance di Chris Burden non hanno disegni preparatori ma accurate descrizioni verbali delle azioni da compiere. Nella performance Oracle (Galleria Schema, Firenze 14 maggio 1975) Burden, nascosto dietro delle tende, racconta lo svolgimento di una sua performance precedente. Lo script di una passata performance diviene così “testo” della nuova. Altre volte la concisione dello script permette di trasformarlo nel titolo della performance (Fare qualcosa con il corpo e il muro di Giuseppe Chiari, 1967). Il passaggio dal disegno, dal codice musicale, dal più classico copione, allo script puramente descrittivo è uno dei segni della cosiddetta performative turn su cui non ci si è abbastanza soffermati a nostro avviso. Guardando oltre però, e riferendoci al filosofo Andy Clark, i processi cognitivi sottesi al linguaggio verbale riguardano la corporeità e il suo rapporto con ciò che la circonda (dall’ambiente agli altri soggetti). La tensione tra questi elementi solca tracce mnestiche, disloca e spazia i processi di conoscenza incorporati nelle pratiche motorie che le rendono possibili. Così la scrittura si fa azione (performativa).

Per comprendere le intermittenze linguistiche ed operative che i nessi tra verbalità/scrittura e pratiche della performance art mostrano e veicolano, possiamo suddividerle in due macro-categorie: scrittura e oralità. Nella prima includiamo le parole scritte e/o dipinte durante le performance (azioni-scrittura) e le scritture corporali che incarnano le possibilità del linguaggio verbale (o le rifiutano). Pratiche molto eterogenee che hanno spesso in comune una messa in immagine della parola. Nella seconda inquadriamo invece le parole dette e i diversi tipi di formati che designano (letture, dibattiti, conferenze, discussioni, telefonate ecc.) e i rapporti che instaurano con forme precise di scrittura come la fiaba e il mito. Scrittura e oralità sono i due elementi in gioco riguardanti quest’assunzione della parola nelle vicende della performance art che in questo saggio intendiamo indagare, soffermandoci sul contesto italiano tra i decenni Sessanta e Settanta del Novecento.

D_Vergni_Tra-scrittura-e-oralità_13_01