Gabriella Piccinni, Il ‘banco’ dell’Ospedale di Santa Maria della Scala e il mercato del denaro nella Siena del Trecento, Pacini editore, 2012



Abstract:

Il volume è il frutto di un attento lavoro di ricerca condotto da Gabriella Piccinni ed è articolato in una prima parte che affronta il tema del sistema creditizio senese in età medievale, e di altre quattro parti dedicate più nello specifico al banco dell’Ospedale di S. Maria della Scala.

Lo scopo del volume è quello di richiamare l’attenzione, attraverso un caso di studio ben documentato come quello senese, sul ruolo rivestito dagli ospedali più importanti, all’interno del sistema sociale ed economico sul quale si reggevano numerose città (soprattutto della parte centro-settentrionale della penisola) negli ultimi secoli del Medioevo, e di dirigere lo sguardo verso l’economia dell’assistenza, inserita in un complesso sistema di circolazione della ricchezza che si identificava, in buona parte, con la vita economica stessa di quelle città. Sullo sfondo è presente la lenta elaborazione dell’idea di una priorità del bene comune su quello personale. Un concetto cresciuto su principi già presenti nella legge e nella cultura romana, e alimentato dalla riscoperta delle opere etiche e politiche di Aristotele nella seconda metà del XIII secolo: la virtù della carità, nell’allegoria del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, volteggia sulla testa del “vecchio” che rappresenta il “Bene Comune”.

Lo scopo del volume è quello di richiamare l’attenzione, attraverso un caso di studio ben documentato come quello senese, sul ruolo rivestito dagli ospedali più importanti, all’interno del sistema sociale ed economico sul quale si reggevano numerose città (soprattutto della parte centro-settentrionale della penisola) negli ultimi secoli del Medioevo, e di dirigere lo sguardo verso l’economia dell’assistenza, inserita in un complesso sistema di circolazione della ricchezza che si identificava, in buona parte, con la vita economica stessa di quelle città. Sullo sfondo è presente la lenta elaborazione dell’idea di una priorità del bene comune su quello personale. Un concetto cresciuto su principi già presenti nella legge e nella cultura romana, e alimentato dalla riscoperta delle opere etiche e politiche di Aristotele nella seconda metà del XIII secolo: la virtù della carità, nell’allegoria del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, volteggia sulla testa del “vecchio” che rappresenta il “Bene Comune”.

Facendo nostri gli interrogativi della storica possiamo allora iniziare la lettura del volume chiedendoci cosa abbia a che vedere l’assistenza con il denaro, e tanto più con l’impresa, se ci riferiamo a un ospedale che svolge la sua attività in una città dell’Italia medievale. Non è, forse, risaputo che gli ospedali medievali nacquero come una pratica della carità, come l’estrinsecazione di una spiritualità messa gratuitamente al servizio dei bisognosi? E, infine, cosa comporta mettere in relazione ‘carità’ e ‘pubblico’?

Dagli anni Ottanta del secolo scorso la storiografia sul Medioevo e sulla Prima Età Moderna si è concentrata sulle origini di quello che oggi definiamo il welfare state. A livello sia nazionale che internazionale sono stati pubblicati numerosi studi sulla storia della povertà, dell’emarginazione e degli istituti dell’assistenza: in particolare, gli specialisti dell’età medievale hanno contribuito all’approfondimento dell’analisi del momento in cui l’idea di carità inizia a subire un processo di assimilazione all’interno della cornice dello Stato di diritto. Si è iniziato a riflettere, insomma, sul “welfare prima del welfare”. Ad esempio, il volume miscellaneo curato da Vera Zamagni, Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi edito dal Mulino nel 2000, che ha raccolto i contributi di oltre quaranta specialisti sul tema, evidenzia la molteplicità delle cause di disagio sociale e la conseguente necessità di reperire validi rimedi, per i quali risulta necessario l’impiego di ingenti risorse economiche unite alla capacità di farle fruttare efficacemente e di saperle allocare in modo adeguato.

È evidente che nell’emergere di interrogativi intorno alla tematica dei prodromi del welfare state nel Medioevo assume un ruolo decisivo la contingenza critica in cui ci troviamo a vivere in questi anni, analogamente a quanto accadde anche negli anni Settanta del secolo scorso, quando si registrò un picco degli studi sulle cause della violenta crisi economica del Trecento. Il modello che si è consolidato nel corso del tempo e che vede nell’economia il luogo della produzione della ricchezza e delega alla sola società civile la gestione della solidarietà (pubblica o privata, locale o internazionale che sia), rende più arduo coniugare l’economia al sociale, vivere l’esperienza della socialità umana all’interno di una normale vita economica, e ostacola la crescita di un’economia più sana e di una società più giusta e meno disperata. La recente enciclica di papa Benedetto XVI Caritas in Veritate ha evidenziato che “la carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono” – e, continua – ” l’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica”. Amartya Sen ha messo in discussione l’assunto che l’aumento della ricchezza, collettiva e individuale, indicata oggi con la locuzione ‘prodotto interno lordo’ (Pil) basti a garantire un aumento proporzionale del benessere che la società percepisce, perché ignora molte delle dimensioni e condizioni che sono fondamentali affinché le potenzialità individuali si realizzino. Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono anche economisti e studiosi del calibro di Stiglitz, Sen e Fitoussi unitamente agli altri membri della Commissione per la misurazione della performance economica e del progresso sociale, che hanno prodotto nel 2010 il rapporto su Mismeasuring Our Lives. Why GDP Doesn’t Add Up. The Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, il cui obiettivo è stato quello di allineare più correttamente gli indicatori del benessere a ciò che contribuisce effettivamente alla qualità della vita. Gli studi di storia dell’assistenza, come già accennato, del resto, sono molti e di natura molto varia.

Ai più tradizionali studi relativi al diritto ospedaliero, alla storia della medicina e della salute, dell’architettura e dell’arte (non va infatti dimenticato il cospicuo patrimonio artistico che gli ospedali riuscirono a mettere insieme nel corso degli anni), si sono aggiunti quelli sui luoghi di accoglienza dei viandanti e si sono intensificate anche le ricerche relative alle iniziative caritative laicali, sviluppatesi a partire dal XIII secolo, proprio sulla scia dell’attività ospedaliera. Un altro aspetto fondamentale delle indagini storiografiche sul tema dell’assistenza ospedaliera è quello legato all’intreccio con il potere politico locale: in questo senso gli ospedali divennero fin da subito importanti centri di potere e terreno di scontro aperto tra le diverse famiglie di notabili.

L’intento della Piccinni è quello di verificare le modalità e la sostanza economica dell’amministrazione di imprese ospedaliere, talvolta complicate e quasi sempre già polifunzionali, all’interno di una società che si presenta complessa come quella delle diverse città dell’Italia centrosettentrionale, cui non erano estranei né gli affari, né il denaro, né la spinta etica. La storia dell’ospedale senese prende avvio, inoltre, alla fine di un ciclo economico particolarmente florido per l’Italia intera, con rilevanti picchi demografici e la crescita delle realtà comunali che, come è noto, stavano raggiungendo il loro massimo sviluppo istituzionale, politico, sociale, economico.

In questo contesto, a Siena cambia rapidamente anche il modo di fare credito: un’attività che passa dalla clandestinità alla pubblicità delle botteghe dedicate. I banchi si trovavano nella strada centrale che costeggiava il Campo e andavano dalla piazza Tolomei fino alla porta Salaia, dunque, oggi, fino all’area della Croce del Travaglio e all’imbocco della Costarella dei Barbieri, che per un tratto si chiama ancora via Banchi di Sopra. Erano anche un vanto dei senesi perché davano “adornezza” alla piazza “che è la più bela che si trovi”: funzione evidentemente decaduta nella seconda metà del Trecento quando si ricordava con nostalgia “la strada da’ banchi che cominciava da la piazza de’ Talomei e veniva giù infino a porta Salaia, che né in Vinegia né in Firenze né in neuna altra terra in questo paese aveva una più bella via”.

Anche oggi, come nel passato, quando diciamo “banca” pensiamo a un’impresa che svolge un’attività d’intermediazione tra chi ha soldi da prestare e chi ha bisogno di soldi. La banca gestisce soldi di risparmiatori privati. Ovviamente tra i suoi doveri primari vi è quello di rimborsare i clienti che chiedono la restituzione del denaro che le hanno affidato e di fornire denaro a coloro ai quali concede un prestito, e per fare questo, quando presta, deve farsi corrispondere un interesse maggiore rispetto a quello che essa paga verso chi glielo ha affidato: questa modalità è presente anche nel banco senese. Come sottolinea Luciano Palermo (La banca e il credito nel Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 5) insieme alla circolazione monetaria, nell’età medievale, era ben presente anche il mercato del credito; in esso la moneta era offerta e domandata in prestito, e insieme alla moneta poteva essere oggetto di prestito di qualsiasi altro bene dotato di un valore d’uso o di scambio. La moneta e il credito – continua Palermo – passarono lungo i secoli medievali attraverso varie fasi di crescita e di crisi; ma nelle città e nelle regioni in cui la loro presenza era meglio organizzata e regolamentata, anche per il sopraggiungere di strutture aziendali di tipo bancario, essi poterono svolgere nel modo migliore le proprie funzioni a supporto del sistema degli scambi e dei processi di crescita. Federigo Melis distingueva nettamente le attività creditizie dall’attività bancaria: il credito al consumo o il credito che le aziende mercantili si scambiavano reciprocamente non richiedeva la specializzazione bancaria; l’attività bancaria vera e propria esigeva invece la formazione di un’azienda di tipo nuovo, diversa dalla tradizionale compagnia polifunzionale basso medievale e avente come obiettivo principale la creazione del profitto finanziario. Tale tipologia di azienda pur essendo presente in varie forme in altre regioni italiane e soprattutto a Venezia, nacque in Toscana, cioè in quel territorio che nel basso medioevo “aveva conseguito progressi notevoli nel campo bancario, superando ogni altro paese” (La banca pisana e le origini della banca moderna, con una introduzione di L. De Rosa, a cura di M. Spallanzani, Firenze 1987, p. 256).

Quindi, l’attenta elaborazione della Piccinni dei dati relativi al libro del debito nuovo 1347-1377 acquistano ulteriore interesse alla luce di queste considerazioni, accompagnando il lettore nei meandri delle attività finanziarie dell’Ospedale. Come sottolineava ancora Melis, i registri della contabilità sono in grado di riprodurre, a vantaggio dello storico che se ne serve, gli elementi costitutivi dell’attività economica dell’azienda in tutte le sue forme, insistendo, dunque, sulla necessità di studiare il livello della cultura ragionieristica di coloro che tenevano i registri della contabilità aziendale e la sua evoluzione nel tempo proprio perché ciò avrebbe consentito una ricostruzione assolutamente attendibile delle iniziative aziendali e dei risultati ottenuti. Lungo questa direttrice si può inserire il bel lavoro di Pierre Di Toro e di Roberto Di Pietra (Amministrazione e contabilità nel XV e XVI secolo. Lo spedale senese del Santa Maria della Scala attraverso i libri contabili, Cedam, Padova 1999) in cui viene ricostruita la vicenda dell’Istituzione senese e la ricostruzione del suo sistema contabile operante tra il XV ed il XVI secolo fornendo interessanti motivi di riflessione su di un’età che altrimenti appariva nota prevalentemente attraverso lo specchio del trattato pacioliano e dei suoi innumerevoli commentatori. A maggior ragione i risultati contabili presentati dalla Piccinni appaiono, dunque, anche sotto questa luce ancora più sorprendenti.

Nel linguaggio condiviso del bene comune tanto i poveri, protetti dall’Ospedale, quanto i deboli, protetti dal Comune, sottintendevano una visione globale della società in quanto, nel momento stesso in cui ne includevano le debolezze, individuavano l’intera collettività.

Come scrive Piccinni: “Quel denaro, perciò, l’ospedale lo aveva usato per costruite un sistema che gli aveva consentito per diversi decenni nel cuore del Trecento di raccogliere il risparmio dei cittadini (a vari livelli sociali), di farlo fruttare e di far funzionare con esso una parte importante dell’assistenza e un sistema di prestiti sistematici allo Stato che lo depauperò – si diceva – ma che, nonostante tutto, non lo portò alla rovina. Ecco, così, l’ospedale alla fine del Quattrocento indirettamente traghettato anche verso un impegno nel piccolo prestito al consumo. Eccolo riconfermare, in chiusura della nostra – ma non della sua – storia, una funzione centrale ogni volta che, in città, si aveva a che fare con la carità pubblica, da una parte, e con il mercato del credito, dall’altra. Ecco le sue casse aprirsi nel XIV come nel XV secolo, per far uscire e per accogliere denaro, sempre in accordo con il Comune di Siena e ancora in nome della garanzia sociale dovuta ai ‘poveri’ della città, cioè alla collettività che con quella parola veniva riassunta nella sua interezza”.