Martin Goodman, Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche, Laterza, 2009



Martin Goodman, Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà antiche, Laterza, 2009
Abstract: Roma e Gerusalemme è un titolo fortemente evocativo per il richiamo al libro di Moses Hess Rom und Jerusalem, die Letzte Nationalitätsfrage, pubblicato nel 1862 e considerato il testo ispiratore del sionismo socialista. Roma e Gerusalemme è ora il titolo del volume di Martin Goodman: un volume poderoso, di ben 738 pagine, arricchito di tavole e vario materiale iconografico, tradotto in italiano da Michele Sampaolo e dato in stampa per i tipi di Giuseppe Laterza e Figli nel settembre 2009.

Roma e Gerusalemme è un titolo fortemente evocativo per il richiamo al libro di Moses Hess Rom und Jerusalem, die Letzte Nationalitätsfrage, pubblicato nel 1862 e considerato il testo ispiratore del sionismo socialista. Roma e Gerusalemme è ora il titolo del volume di Martin Goodman: un volume poderoso, di ben 738 pagine, arricchito di tavole e vario materiale iconografico, tradotto in italiano da Michele Sampaolo e dato in stampa per i tipi di Giuseppe Laterza e Figli nel settembre 2009. Da subito questo volume ha fatto parlare di sé, non solo suscitando l’interesse di un pubblico di nicchia, ma anche incuriosendo trasversalmente altri e diversi contesti culturali. Ciò ovviamente ne ha decretato il successo, almeno editoriale. Per avere un’idea della sua popolarità basta ad esempio dare uno sguardo alla pagina internet di Google-Libri (relativa all’edizione inglese del 2007) per contare ben 47 recensioni degli utenti, quindi con un notevole numero di feedback. Cosa ha suscitato tutto questo coinvolgimento per il libro di Goodman?

Potremo attribuire il suo successo editoriale al modo di scrivere accattivante e coinvolgente dell’autore (per noi lettori italiani grazie anche al suo traduttore). Non si può trascurare certo la forte risonanza mediatica data a questo progetto, con l’allettante enfatizzazione del suo contenuto sotto forma di scoop. Ma senza dubbio ha suscitato la curiosità dei lettori anche la tesi che Goodman ha voluto dimostrare, egregiamente sintetizzata da Paolo Mieli nel titolo di un articolo per «La Repubblica» del 4 ottobre 2009: L’antisemitismo cristiano ha origini pagane.

Il fatto poi che questo interesse abbia abbracciato un pubblico di lettori piuttosto eterogeneo è anche esso sintomatico: stiamo parlando infatti non dell’ultimo romanzo di Dan Brown, ma di un saggio di storia, che troviamo in mano ad un impiegato che la mattina si reca a lavoro sulla metropolitana e sul banco di uno studente universitario dove – solo per citare un esempio – il dipartimento di Scienze storico-religiose della Sapienza organizzava il 10 dicembre 2009, una giornata di studio sul volume di Goodman, con la presenza – tra gli altri – del prof. Manlio Simonetti critico sulle posizioni dello storico inglese.

Niente di nuovo sotto il sole. É di qualche anno fa (2007) la riflessione di un seminario di studi titolato Apologia della storia o storia apologetica? Il mestiere dello storico, il metodo dell’archivista e il sensazionalismo dei media (gli interventi sono ora pubblicati in Vero e falso. L’uso politico della storia, a cura di M. Caffiero e M. Procaccia, Donzelli Editore, Roma 2008), in cui si evidenziava che ad un attuale «fame di storia» corrisponde un «cibarsi di fiction o di revisionismo spettacolare», e quando si parla di antisemitismo questo rischio è sempre in agguato. Per paradosso dunque proprio il successo e il conseguente uso pubblico di questo frutto del mestiere dello storico potrebbe renderne più difficile la sua stessa ermeneutica e favorire facili fraintendimenti o semplificazioni. Con la consapevolezza che anche io possa cadere in questa trappola, sarà mia cura tentare un approccio quanto più critico, sceverando la ricerca storica dalla sua enfatizzazione e nel contempo proponendo domande che piuttosto che semplificare possano aprire nuove piste di indagine.

Nell’introduzione Goodman ci presenta anzitutto il suo principale testimone, cioè Flavio Giuseppe, l’ebreo che fece fortuna presso la famiglia Flavia per aver profetizzato l’ascesa al trono imperiale di Vespasiano. Segue un prologo che descrive l’evento centrale su cui ruota la tesi di Goodman, vale a dire la distruzione di Gerusalemme del 66-70 d.C.

Roma e Gerusalemme è organizzato in tre parti. Nella prima – Un mondo Mediterraneo – l’autore presenta il contesto storico generale in cui sono collocate queste due città, luoghi per eccellenza di due «civilizations»: Roma, «la grandiosa capitale di un enorme impero in cui la vanitosa architettura degli archi di trionfo che celebravano imprese umane faceva concorrenza ai numerosi templi e santuari che ospitavano le immagini di molti dei» ; Gerusalemme, «la città del tempio», forte solamente del proprio «entusiasmo religioso» (52s). Roma era la capitale di un impero che rappresentava l’unità politica, Gerusalemme una delle città su cui essa esercitava il suo patronato. Entrambi si affacciavano sul Mare nostrum, emblema di un’unità economica, in quanto luogo e mezzo di scambio, grazie all’uso «di una valuta standard comune a tutte le parti dell’impero» (109). Ma il bacino mediterraneo nel I secolo d.C. aveva anche una sua unità culturale nella cultura greca, di cui anche i Romani erano beneficiari: il greco era la lingua della koiné. I Giudei di fronte alla cultura ellenistica si mostrarono più riluttanti rispetto ai Romani, perché rivendicavano radici più antiche dei Greci, anzi proprio dalla presa di distanza dall’hellenismos da parte dell’autore del 2° libro dei Maccabei nasce il concetto di ioudaismos. «Dopo una breve agitazione di aperta avversione alla cultura greca, i Giudei, come i Romani, la adottarono ai propri fini e la trattarono come completamente naturale» (122). Il greco fu infatti la lingua di scambio anche per gli Ebrei e Paolo di Tarso fu il perfetto esempio di un «giudaismo ellenizzato».

Anche rispetto ai legami sociali lo studioso inglese traccia una linea di demarcazione tra Roma e Gerusalemme: i «Giudei se ne stanno in posti separati a tavola, dormono appartati, rifiutano l’intimità con donne straniere» (129); norme rituali e tradizioni culturali che per esempio impedivano ai Giudei di essere soldati o di praticare matrimoni misti. Nonostante ciò essi vennero a contatto con molti altri popoli per mezzo della diaspora giudaica «presente sin negli angoli più remoti e ben consolidata».

Secondo Goodman, le relazioni economiche, i legami sociali e i fili di una cultura condivisa nel Mare nostrum, trovano il loro collante nella dominazione politica di Roma, che pure era in grado di preservare la diversità in seno al suo variegato impero. Attraverso un excursus sulla cultura giudaica, egizia e greca l’autore conclude che il mondo romano del I secolo è un mondo multiculturale e che tale varietà – seppure inevitabile – scaturiva da una politica di «tolleranza» dei costumi e persino delle religioni locali.

Nella seconda parte – Romani e Giudei – Goodman fa una disamina dell’identità giudaica e di quella romana. Questa «dipendeva in ultima analisi dal riconoscimento dello status di cittadino da parte dello Stato romano» (180), quella era un’identità sia religiosa, sia etnica: ci si poteva convertire al giudaismo, ma non si poteva divenire Ebrei, si restava pur sempre proseliti. L’essere Giudei dipende dalla nascita e in particolar modo dallo status della madre, come fu sancito nella legge rabbinica nel IV secolo d.C. Invece nel corso del I secolo d.C. Goodman segnala ancora esempi di una «auto-identificazione personale» che portò uomini come Izate a divenire «giudeo prima di tutto perché si pensava come giudeo» (188). Romani e Giudei si distinguono anche per l’importanza che danno al luogo: Roma è il centro politico, Gerusalemme è il centro religioso. Un altro ambito di confronto per Goodman è la memoria, il tempo e il senso del passato. I Giudei non scrivono di storiografia alla greca, i Romani di essa invece erano divenuti maestri; il primo giudeo a farlo può essere considerato proprio Flavio Giuseppe. Entrambi vivono la nostalgia per il passato, ma mentre per Roma il tempo è una mera concezione teoretica e lineare, per i Giudei esso ha una dimensione pratica ed esperienziale e rappresentabile in una spirale. La memoria nella cultura ebraica è prevalentemente orale in contrasto con quella greca – e dunque romana – che è scritta. Così l’escatologia giudaica è oltremondana, mentre è interpreta dai Romani come un ritorno alla perduta età dell’oro.

Circa il concetto di comunità in queste due «civilizations» Goodman ricorre alla metafora di «dea» per Roma e di «sposa di Jhwh» per Gerusalemme; infatti per i Romani lo Stato era la res publica, per gli Ebrei lo Stato perfetto era espresso «in termini di religione e di subordinazione a Dio» (231), ossia di theokratia. Entrambi le comunità sono costituite intorno ai legami di parentela, la famiglia, le amicizie e il patronato, che lo studioso inglese descrive attraverso un serrato confronto. Quindi passa in rassegna la due visioni antropologiche descrivendo la prassi della contraccezione, dell’aborto, dell’infanticidio, del suicidio, il concetto di al di là e di resurrezione e le pratiche di sepoltura. La cosmologia e il discorso morale, l’esercizio della giustizia, il governo, l’esercizio della politica e del potere e perfino lo stile della vita quotidiana di Roma e Gerusalemme servono a completare il quadro di confronto, fino a giungere a declinare il valore della guerra come distintivo della cultura romana e quello della pace – o meglio sarebbe dire di shalom, del tutto diversa dall’idea romana di pax – come sommo valore della cultura ebraica.

L’elenco puntiglioso di queste diversità conduce l’autore a porsi la domanda se possano essere state queste differenze in qualche modo responsabili dell’ostilità che distrusse Gerusalemme. Nel decimo capitolo Goodman cerca di trovare una risposta esaminando le circa trenta citazioni sui Giudei testimoniate dagli autori latini prima della distruzione di Gerusalemme. In un contesto che l’autore riconosce di tolleranza verso i Giudei, seppure nel corso del I secolo d.C. si manifestarono alcuni episodi di espulsione (19 e 49 d.C.) Goodman si sofferma su due citazioni, la prima di Cicerone e la seconda di Seneca, in cui ha intravisto un’ostilità romana nei confronti del popolo israelitico. La domanda che a questo punto occorre farsi è se queste due testimonianze possono considerarsi come la prova di un antisemitismo romano. Così testualmente si esprime Goodman:

«Ma pur essendo i Giudei tollerati, sono più rare, negli scritti latini di fine Repubblica e inizio impero, le espressioni di apprezzamento per i loro costumi. Non c’è luogo in cui si esprima ammirazione per le qualità che erano considerate tipiche di altri “barbari” come i Germani e i Daci: non c’è nulla sui Giudei come nobili selvaggi o raffinati guerrieri» (440).

Le argomentazioni fino a qui addotte da Goodman mirano certo a dimostrare che la diversità tra queste due «civilization» debbano aver condotto – o quanto meno favorito – allo scontro del 66-70 d.C. in cui Gerusalemme ebbe la peggio. Ma a ben guardare egli mai attribuisce a queste testimonianze un mero valore di antisemitismo. Da bravo storico Goodman sa che metodologicamente l’argomento ex silentio non ha nessun valore probante; in altre parole il fatto che non si trovi traccia di testimonianze positive sui Giudei, non può da solo condurre a conclusioni sul piano generale. Infatti occorre tener presente che solo due, delle più di trenta testimonianze pervenuteci sui Giudei, sono ad essi avverse, per cui l’unica conclusione che possiamo formulare è che Cicerone e Seneca in quel particolare frangente storico e contesto sono stati ostili ai Giudei. Sono convinto che non fosse intenzione di Goodman caricare queste due testimonianze di una valenza simbolica così elevata, né fare di esse i prodromi dello scontro, infatti solo qualche pagina più avanti lo storico inglese scrive: «In realtà è abbastanza difficile individuare una ragione particolare per cui i Giudei possano aver suscitato una speciale ostilità da parte dei Romani prima della ribellione scoppiata nel 66» ; e ancora: «Tutta la documentazione fin qui esaminata sulla generale tolleranza verso i costumi tradizionali giudaici ha trascurato l’elemento più notevole, e meno discutibile, di quella tolleranza, e cioè l’esonero per i Giudei di Roma dalla norma valida per tutti i cittadini dabbene che dovessero pregare gli dei della loro società» (444).

Il fatto che Goodman abbia indugiato su queste due testimonianze, certamente uniche nel loro genere, non autorizza a passare a facili deduzioni riguardo forme di antisemitismo già nel I secolo a.C. I media invece estrapolandole dal contesto argomentativo dello storico, ne hanno fatto un vero cavallo di battaglia. Ciò solleva nuovamente la questione dell’uso pubblico che in tale circostanza è stato fatto della storia o, sarebbe meglio dire, della scrittura della storia. Questa volta l’intento non era politico, ma quantomeno pubblicitario: presentare un saggio storico con lo scoop di un Cicerone o un Seneca antisemiti vende certamente di più che sciorinare una serie di cause e concause che hanno determinato lo scontro fra due civiltà.

È nella terza parte – Conflitto – che Goodman entra nel vivo del tema, descrivendo la situazione socio politica della Giudea tra il 37 a.C. – anno in cui Gerusalemme passò sotto la dominazione romana – e il 70 d.C. Il file rouge che demarca questi 107 anni non è certo l’ostilità dei Giudei contro Roma, poiché solo alcuni episodi incrinano questo periodo di coesistenza pacifica tra le due «civilizations». Una fu la rivolta guidata da Giuda il Galileo, all’epoca del censimento delle proprietà ordinato dall’imperatore Tiberio (6 d.C.), un’altra quella guidata da un certo «mago» Teuda, di entrambi i tentativi di insurrezione e di quanto esigui furono gli esiti, testimoniano sia Flavio Giuseppe sia gli Atti degli Apostoli (si veda il discorso di Gamaliele al Sinedrio in Atti 5, 35-38). Un altro episodio più drammatico si registrò quando l’imperatore Caligola decise di collocare nel tempio di Gerusalemme una propria statua che la popolazione avrebbe dovuto adorare (40 d.C.): solo la prematura morte di Caligola spense quella scintilla di rivolta. Al di là di «sporadici incidenti» Flavio Giuseppe ricorda altri episodi di contrasto interni alla società giudaica, a proposito dei quali così si esprime Goodman:

«In realtà, prescindendo dalle turbolenze create da briganti e fanatici religiosi, fu la stessa classe locale di governo a rendersi responsabile di gran parte del disordine diffuso nella società giudaica durante gli anni in cui maturò la rivolta del 66 d. C, non perché non gradisse il governo romano (da cui traeva benefici) ma perché la debolezza dei governatori Romani che si successero lasciò ampio spazio alle fazioni interne alla élite sostenuta da Roma perché si combattessero fra loro per il potere. […] i Giudei ribelli furono per lo più impegnati non tanto a lottare contro i Romani quanto a combattersi l’un l’altro» (465s).

Occorre certo rilevare con Goodman che le turbolenze fino al 66 non fanno pensare ad una società sull’orlo della ribellione per sessant’anni, ma bisogna anche tener presente che l’unica fonte di cui disponiamo per raccontarci i fatti è Flavio Giuseppe che, pur essendo giudeo, scriveva per la fama e l’onore della famiglia che lo aveva protetto. Non mi sembra un argomento sufficientemente probante l’attendibilità della nostra unica fonte il fatto che «fra i suoi lettori c’era lo stesso Tito, e sarebbe stato poco saggio scrivere del generale qualcosa di patentemente falso, visto che Giuseppe contava sul patronato imperiale» (503); infatti è vero pure il contrario: sarebbe stato poco saggio scrivere qualcosa di sgradito a Tito. Purtroppo per questa vicenda storica non possiamo ricorrere al criterio della molteplice attestazione di fonti indipendenti, per cui occorre essere cauti nel formulare conclusioni.

Continuando la sua analisi lo storico inglese osserva che nella diaspora i Giudei godettero i medesimi privilegi degli abitanti di Gerusalemme. In violazione di una generale epoca di “tolleranza” e di convivenza pacifica si segnala solo l’episodio del 38 d.C. ad Alessandria dove si arrivò

«alla stigmatizzazione dei Giudei della città come intrusi stranieri e poi ad un vero pogrom, con il confinamento dei Giudei in un quartiere della città, che divenne a tutti gli effetti un ghetto, e con il saccheggio delle loro case e delle loro botteghe» (478).

Ho riportato questa pericope alla lettera per notare come Goodman per descrivere i cruenti provvedimenti e la marginalizzazione giudaica nella città egiziana si serva di termini apparentemente anacronistici, operando uno spostamento semantico da un preciso contesto storico ad un archetipo metastorico. Mi riferisco in particolare ai due lemmi che ho evidenziato in corsivo (pogrom, ghetto) e la cui connotazione travalica la stessa lingua italiana in quanto usati anche nella lingua di Goodman. Ciascuno di essi infatti identifica una precisa contingenza storica. Il termine “ghetto” usato per la prima volta a Venezia all’inizio del ‘500 e diffusosi con la bolla Cum nimis absurdum (1555) di Paolo IV, indica la reclusione dei Giudei in una zona circoscritta della città. Il termine “pogrom”, di derivazione russa (paġròm), significa letteralmente “devastazione'” con esso vengono riconoscete le sommosse popolari antisemite con i conseguenti massacri e saccheggi, avvenuti in Russia tra il 1881 e il 1921 al tempo degli Zar, con più o meno celata legittimazione delle autorità. Come si legge nel dizionario on-line della Treccani, per estensione il termine ha assunto il valore di «qualunque azione di persecuzione esercitata contro minoranze etniche o religiose con l’appoggio più o meno manifesto dell’autorità centrale». L’uso del termine nella lingua corrente è stato decontestualizzato nel tempo e nello spazio, per cui in tal senso, possiamo affermare che il primo pogrom contro il popolo ebraico è quello compiuto nel 38 d.C. ad Alessandria d’Egitto.

Alla medesima conclusione potremo giungere riguardo al termine “ghetto” che come io stesso ho potuto appurare può applicarsi a contesti quattrocenteschi precedenti dunque a quello veneziano e romano, ma ad essi del tutto analoghi se non fosse perché questo termine non era stato ancora coniato. Certo l’uso traslato – direi quasi metonimico – di un lemma che ha la sua origine in un preciso luogo e tempo andrebbe di volta in volta verificato, ma talvolta è più immediato per il mestiere dello storico servirsi di stereotipi capaci di ricreare un certo Sitz im Leben a scapito di una esatta – ma forse tediosa – ricostruzione dell’evento.

Nel capitolo 11° Goodman descrive gli eventi della rivolta e della guerra, che in modo icastico rappresenta come una campagna intrapresa «per far sì che i Giudei continuassero ad immolare regolari sacrifici al loro Dio a Gerusalemme per il benessere dell’imperatore», ma conclusasi «rendendo del tutto impossibile qualunque sacrificio» (506).

La guerra giudaica segna la svolta della politica di Roma nei confronti di Gerusalemme: «lo Stato romano non avrebbe permesso che il Tempio di Gerusalemme fosse ricostruito allo stesso modo» (512), motivo per cui si verificarono gli scontri dei sessantacinque anni successivi. Tale enorme rifiuto rispetto alla prassi religiosa antica, rivela «uno speciale pregiudizio contro i Giudei» e ha come conseguenza che la caduta di Gerusalemme rappresenta non solo una vittoria sulla Giudea ma sul giudaismo. Una serie di “segni” avvalorerebbe la tesi dello storico inglese: tra gli altri oggetti esibiti nella processione trionfale di Vespasiano e Tito (il candelabro d’oro, le pale dell’incenso, altri arredi del tempio) è soprattutto il rotolo della Torah ad avere un chiaro significato simbolico. Di carattere meramente religioso – ma simbolico anch’esso – fu invece la nuova tassa imposta da Vespasiano a tutti i Giudei, ovunque vivessero: è il fiscus Iudaicus, una tassa di due dracme a testa da versare annualmente al Campidoglio come prima era versata al tempio di Gerusalemme. Così pure le numerose monete coniate dai Flavi con l’incisione Iudea capta avevano l’intento di rafforzare la propaganda di un’impresa che legittimava la conquista e la conservazione del potere imperiale, «affermando di aver sconfitto un pericoloso nemico» (528). Infine «il fatto che dei rappresentanti del nemico sconfitto fossero rinvenibili non solo sulle lontane frontiere dell’impero [Palestina] ma anche dispersi in tutto il mondo civilizzato, inclusa la stessa capitale», con la loro stessa soggezione «davano testimonianza della realizzazione del nuovo imperatore». Da qui si origina anche l’argomentazione che nel IV secolo portò Agostino a sostenere che ai Giudei «doveva essere consentito rimanere nella loro fede erronea dentro la cristianità, ma in uno stato di miseria [forse sarebbe meglio dire di soggezione o servitù!], per essere testimoni viventi della verità della Chiesa» (528).

La domanda posta da Goodman a questo punto è: quale fu il motivo di una così dura preclusione alla ricostruzione del tempio? Infatti pur tra le divergenze delle politiche imperiali verso i Giudei – ad esempio la tassa dei due denari non fu sempre rispettata dai vari imperatori –, la «glorificazione della distruzione del tempio di Gerusalemme rimase elemento integrante della figura pubblica di ogni imperatore» (529). La causa non va ricercata nei Giudei, ma nella politica di Roma. L’apice di tale politica è ben rappresentata dalla riedificazione di Gerusalemme da parte dell’imperatore Adriano, ma chiamandola Aelia Capitolina: era un goffo tentativo di ellenizzare i Giudei, che non portò altro che un’ennesima rivolta e una nuova schiacciante vittoria di Roma (132-135 d.C.), con l’ordine dell’imperatore che i Giudei dovessero «cessare di esistere come nazione nella loro patria» (564).

Nel capitolo 13° Goodman riflette su un nuovo gruppo giudaizzante, che subito da esso si distinse e che nel corso di quattro secoli divenne la concezione vincente a Roma, il cristianesimo. Questa nuova fede si pone sullo sfondo – e neppure troppo – del conflitto tra Roma e Gerusalemme. Dopo un excursus necessariamente sintetico – e talvolta superficiale – sull’evoluzione di questa nuova religio, Goodman arriva a concludere che i cristiani vollero distinguersi dai Giudei soprattutto dopo il 70 d.C. per evitare di subire la loro damnatio memoriae. Un sociologo delle religioni come Enzo Pace spiegherebbe questo fenomeno di separazione semplicemente affermando che «un sistema di credenze si costituisce attraverso un complesso processo di definizione dei propri confini in relazione continua, dialettica con un ambiente» (E. Pace, Raccontare Dio. La religione come comunicazione, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 58). Il successo definitivo della Chiesa fu decretato da Costantino che legittimò il cristianesimo con l’intento di avere nell’impero «un Dio, una Parola, un sovrano» e facendo di Costantinopoli una «nuova Roma» e una «nuova Gerusalemme». Goodman conclude che ai Giudei di tutto l’impero non rimaneva altra chance che «imparare a vivere dentro una società sempre più cristiana, e a vedere il loro status di estranei nel mondo mediterraneo fissato per molti secoli a venire» (656). Anche in questa circostanza mi pare che lo storico inglese abbia troppo semplificato la sua tesi, dimenticando che se Costantino riconobbe con l’editto di Milano del 313 il cristianesimo come religio licita, fu Teodosio con l’editto di Tessalonica del 380 che riconobbe il cristianesimo come unica religio licita nell’impero. Ho l’impressione che Goodman tenda a caricare di un valore simbolico un fatto o un personaggio facendolo assurgere a fulcro unificatore di determinate svolte storiche. Oserei quasi parlare di funzione mitopoietica della narrazione storica, poiché si cerca di creare un mito archetipo che possa olisticamente rispondere a siffatti passaggi storici, con il rischio però di depauperare una realtà più complessa e poliedrica.

L’ultima domanda – e forse anche la principale – a cui Goodman cerca di dare una risposta è quella formulata nell’epilogo: «Perché dunque il mondo romano al tempo di Costantino divenne tanto più ostile agli Ebrei e al giudaismo di quanto fosse stato al tempo di Gesù, tre secoli prima?» (657). Entrando nel cuore della questione Goodman da la sua interpretazione sull’origine dell’antisemitismo, non declinando solo il registro delle radici teologiche dell’antigiudaismo cristiano, ma attingendo con uno sguardo retrospettivo al poliedrico vaso delle cause politiche, sociali, economiche. Seguiamo il suo percorso dimostrativo.

I Giudei al tempo di Gesù pur vivendo sotto la dominazione romana non si sentivano oppressi da essa. Anzi la potenza di Jhwh era manifestata nella possanza del tempio e garantita dalla pace romana, che consentiva ai Giudei di esercitare il culto come avevano fatto i loro padri. Questa tolleranza fu messa in discussione solo dopo la rivolta del 66 d.C., per cui da parte di Roma un’azione di polizia di routine divenne un’azione punitiva a motivo di una escalation di colpi di Stato verificatosi a Roma e che vide Vespasiano incoronato del potere supremo. A questo punto la demonizzazione della nazione sconfitta dal condottiero Flavio da oggetto di propaganda politica, divenne un marchio indelebile che ebbe i suoi effetti per secoli e che nessun imperatore ebbe interesse di cancellare. Tale demonizzazione fu certo favorita dal fatto che i Giudei costituivano un gruppo ben distinto nella città di Roma, facilmente individuabile dunque come capro espiatorio anche a motivo del fiscus Iudaicus dei due denari, pagato da ogni Giudeo: una sorta di marchio o signum Iudaicum ante litteram. In tale contesto l’antisemitismo cristiano fu solo «un sottoprodotto dell’ostilità di Roma nei confronti dei Giudei». Tenendo distinto l’antigiudaismo con le sue valenze ideologiche e religiose dall’antisemitismo, Goodman intravede in un lessico virulento, usato già dai Romani contro i Giudei, l’inasprimento di tale atteggiamento. Egli evidenzia alcuni lemmi già nei titoli del 12° capitolo, ma sarebbe interessante, sulla scia dei lavori di Giacomo Todeschini, riguardanti il lessico antigiudaico usato nel basso Medioevo, fare un riscontro sistematico sugli attributi e gli epiteti che si affiancano al popolo giudaico a partire dall’epoca classica quasi a divenirne un topos, per poi isolarne la loro valenza semantica a secondo del contesto storico o geografico.

Meno convincente mi pare l’ultima spiegazione che Goodman da alla domanda di partenza. É certamente vero che «i cristiani avevano bisogno non solo di negare la loro ascendenza ebraica, ma di attaccare il giudaismo nel suo insieme» (663); ma non è affatto vero che ciò si verificò dopo il 70. Già nel primo concilio di Gerusalemme (circa del 40 d.C.) Paolo di Tarso si pone in aperta opposizione con Giacomo, capo della comunità di Gerusalemme, riguardo alla rottura con le tradizioni giudaiche. Senza voler entrare nello specifico di questa vicenda, vorrei solo rilevare ancora un procedimento mitopoietico di Goodman che fa diventare il pagamento del fiscus Iudaicus il momento della rottura e separazione tra Cristiani e Giudei e quindi implicitamente il momento di una più forte ostilità dei Cristiani nei confronti dei Giudei. Ancora una volta mi lascia perplesso questo tentativo di reductio ad unum, come se attorno al conflitto e alla distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. potesse ruotare la spiegazione di diversi eventi. Di fatto le costruzioni teologiche antigiudaiche del II e III secolo cristiano, che non bisogna dimenticare attingono alle fonti neotestamentarie del I secolo, assunsero una vita propria e divennero sempre più ostili, passando la loro eredità al Medioevo e traghettando fino ai nostri giorni pregiudizi ancora vivi nella nostra società che continuano a scatenare guerre e conflitti. Potranno veramente mai coesistere in una medesima pagina della nostra storia la corona di alloro e la menorah in bronzo, con una “e” che fa quasi da anello di congiunzione tra Roma e Gerusalemme, come è rappresentato nella sovraccoperta dell’edizione italiana del libro di Goodman? O dovremo continuare a vedere – come nella quarta di copertina – la Iudea capta piangere sotto la palma? Moses Hess con il suo socialismo etico credeva nel 1862 che tale lacrime millenarie potessero essere asciugate; oggi, dopo sessant’anni dalla ricostituzione di uno Stato ebraico indipendente in Palestina, ci continuiamo a chiedere se la sua fosse solo un’utopia.