Una storia di corpi: Loro 2 di Paolo Sorrentino

Una storia di corpi: Loro 2 di Paolo Sorrentino


Una storia di corpi: Loro 2 di Paolo Sorrentino
Abstract:

Ho vissuto una esperienza psicologica, ma anche emotiva, culturale e persino antropologica, di ambivalenza e anche di vero e proprio disagio nel dar seguito al progetto di vedere e di recensire Loro (2018), l’ultimo film di Paolo Sorrentino, il regista italiano internazionalmente noto e meritatamente riconosciuto nella sua bravura, anzitutto ma non solo formale (penso per esempio alla densità carnale dei colori della sua fotografia). Tale disagio si è nutrito della attrazione che chiamerei civile verso la visione del film, un’attrazione cui si è temporaneamente contrapposta una forte resistenza a vederlo e che me ne ha tenuto lontano fin quando, grazie ad un piccolo compromesso di cui subito dirò, il secondo corno della mia incertezza disagiata ha prevalso ed ho infine fatto quel che in fondo desideravo fare. La mia resistenza era animata da una sorta di scrupolo morale (si badi: morale, non moralistico) e politico: lo scrupolo, di cui riconosco volentieri la fragilità a fronte della serietà e dell’evidente, rigoroso impegno del regista (un impegno di cui tuttora fatico a definire la caratteristica specifica), di tornare a vedere rappresentata la complessa e inquietante, spesso oscura vita pubblica italiana, cui Sorrentino aveva rivolto la sua attenzione con Il divo del 2008 dedicato a Giulio Andreotti. Lo scrupolo, dicevo, nasceva dal non voler dare alcun ulteriore contributo, neanche critico, alla ben nota figura antropologica e politica cruciale nella vicenda storica e politica, e nello spirito pubblico, del nostro paese in anni recenti e ancora oggi. Lo scrupolo e la resistenza si legavano anzitutto all’essere quella figura essenzialmente e costantemente risolta nella vita sempre incarnata, ossessivamente esterna, di attore regista e complice di una messa in scena di se stesso finalizzata al consolidamento dei propri interessi. Questa, mi sembrava e mi sembra, sia stata la vita di Silvio Berlusconi e proprio questa vita mi sembrava di intuire, da quel che si veniva a sapere del film, che Loro raccontasse in immagini. L’uomo, la cui presenza è ancora vivace nel panorama pubblico del nostro paese e nella immaginazione degli italiani, è stato attivo in anni  folgoranti che sono oramai alle nostre spalle con una potenza di ‘debordamento’ e di invasione dilagante degli spazi pubblici e anche privati, psicologici, oggi ridottasi ma che è ancora capace di attrarre se non di sedurre la volontà di rappresentazione di un grande regista, e insieme  di sollecitare le resistenze di chi, come chi scrive, ne ha dato e ne dà un giudizio negativo, se non avverte addirittura una vera e propria repulsione nei suoi confronti.

Quello che si potrebbe definire il rapporto di Berlusconi con la storia italiana nella specifica declinazione dell’italianità che in lui ha preso forma, e che ha toccato, contaminato, anche coloro che ne avvertivano e ne respingevano l’intollerabilità e la dannosità per lo spirito del nostro paese, ha coinvolto l’attenzione del regista capace di registrare e di documentare con la forza dell’immaginazione quel che della vita italiana è stato per molti anni prepotentemente visibile. Ma lo stesso rapporto lambisce e in qualche misura investe il recensore critico del film su Berlusconi, che finisce per riconoscere un coinvolgimento a cui non può sottrarsi, nella speranza ‘civile’ che dalla visione di Loro la propria comprensione del fenomeno Berlusconi risulti consolidata anche grazie alla comprensione del senso del film. Loro non è Il caimano di Nanni Moretti del 2006, la cui potenza letteralmente esplosiva era sorretta e animata da una esplicita volontà di denuncia e di messa in allerta di fronte al fenomeno Berlusconi, di cui si avvertiva e si metteva in scena quasi profeticamente sia il pericolo di una svolta a destra, sia anche il rumore di fondo di uno sconvolgimento antropologico del tessuto del paese del tutto nuovi rispetto al passato. Ma anche Loro di Sorrentino, se letto per quello che è (non un film di denuncia, il cui procedimento intrinsecamente ambiguo, ossia il suo essere con e contro il mondo berlusconiano, riassume bene la cifra stilistica complessiva), può far emergere, lungo un percorso diverso da quello di Moretti, la criticità di una denuncia di un contesto storico e politico che a prima vista e forse di proposito rimane nascosta, lasciando sconcertato e perplesso lo spettatore attento, dalle antenne morali sensibili e indisponibile a riconoscervisi.

Ho messo in primo piano la ambivalenza e la duplicità del mio atteggiamento di recensore verso la figura fatale che Sorrentino racconta e trasfigura, e dunque l’incertezza a fronte della decisione di scriverne, perché in esse si riflette almeno uno dei due sensi del film (vi ha insistito molto puntualmente lo psicoanalista Vittorio Lingiardi nella sua recensione sul Sole 24 ore), quello che in certa misura finisce per spingere o convincere a parlarne e così a parlare di Berlusconi e del berlusconismo, come se si volesse in questo modo riconoscere in se stessi quel che si è già accennato, un coinvolgimento che per essere segnato criticamente in quanto rivolto parallelamente verso il film e verso il suo oggetto, indica una sorta di pressione della necessità storica della cosa stessa e della sua rappresentazione, una ambiguità inevitabile dello stare ‘accanto’ e dello stare ‘contro’ rispetto a una figura e a una vicenda della storia italiana ancora inconclusa. Come se, voglio dire, proprio questa ambiguità e il disagio che l’accompagna, e il non potersi sottrarre a parlarne, fossero l’esito, comunque positivo per il regista, della prima comprensione del film, quella che Sorrentino stesso trasmette allo spettatore e chiede che lui riconosca: mi sono misurato con Berlusconi, ci dice, te ne offro una rappresentazione, e tu spettatore e recensore non puoi sottrarti al compito di parlarne proprio perché un forte elemento di coinvolgimento del giudizio morale e politico fa parte integrante dell’ambiguità rappresentata, ne costituisce, insieme al modo e ai contenuti, alle cose immaginate in figurazioni filmiche, uno dei corni. Questa ambiguità, sembra dire il regista, questo non poter non accostarsi a ciò che pure si respinge, è anzitutto ispirazione mia, ma tu spettatore sei chiamato a parteciparne. Tu, spettatore e recensore devi essere capace di giudicare, perché questo le mie immagini ti sollecitano a fare. Esse esercitano questa pressione su di te perché ti riguardano e tu non puoi girare lo sguardo mormorando infastidito e turbato, «no, Berlusconi no, non è cosa mia e, già presente nella mia distanza critica e morale e da lui, almeno non gli si offra il riconoscimento di farne il soggetto di un film».

Vedremo subito che l’altro tema che determina il senso filmicamente figurativo dell’opera di Sorrentino è quello del corpo, dei corpi, soprattutto ma non solo femminili (perché il corpo che domina il centro della scena è in verità il corpo maschile, prepotentemente e rapacemente maschile, di Berlusconi) e più in generale il tema di quella corporeità che sembra costituire la materia prima figurata dell’opera. Un’ultima osservazione tuttavia deve essere fatta per dar conto della piega di compromesso che infine mi ha condotto a decidere di scrivere del film, oltre quello che fin qui si è detto sull’appartenenza dello spettatore recensore all’ambiguità dello stare in qualche modo dentro e accanto a ciò che pure si respinge e si critica. La duplicità e l’ambivalenza dell’atteggiamento di fronte alla figura di Berlusconi rappresentata da Sorrentino – tutte risolte nella potenza delle immagini, essendo assente e lontana ogni pedagogia del politicamente corretto, ciò che contribuisce a dare una specie di valore di base al film – non comportano affatto per il recensore critico, che sente di essere in questo modo in piena sintonia con il regista, una qualche riduzione della negatività del giudizio su Berlusconi, ma servono piuttosto ad esibire la repulsione a parlarne nell’attuale situazione storico-politica italiana e insieme il bisogno, se non la necessità di farlo, perché ‘noi’ che non siamo ‘loro’, che non vogliamo somigliare a ‘loro’, pure siamo ‘oggettivamente’ dentro tale ambivalenza, condividiamo con il regista la volontà di viverla per immagini allo scopo, che è convintamente il nostro, di ridurne il peso di negatività, di incertezza morale, e di far avanzare invece in prospettiva un orizzonte civile e vitale diverso da quello raccontato e raffigurato. Il risultato della condizione di pensiero di fronte al film che ho delineato mettendo di proposito in primo piano il mio travaglio si è concretato infine nella decisione (che non considero in alcun modo paradigmatica e che è essa stessa ambigua) di prendere ad oggetto solo la seconda delle parti in cui Loro è stato non poco forzatamente diviso. Questo, che è a tutti gli effetti un escamotage, non è poi soltanto tale, perché risponde comunque in maniera quanto si vuole elementare ed empirica alla speranza di tenermi nella giusta misura morale di distanza dall’oggetto inquietante dell’analisi. Non nascondo il limite della mia scelta, che tuttavia, giustificata nel modo che si è detto, vorrebbe essere riconosciuta come parte integrante del giudizio sul film. Quel tanto di soggettività civilmente critica e talvolta indignata, ma sempre nascosta, mai esibita, che traspare, per chi sappia ben vedere, dalle immagini di Sorrentino, merita, credo, di dialogare con la parallela, analoga soggettività del recensore, chiamata in causa dalla prima e convergente con essa.

L’immagine o la scena iniziale del film si collega ellitticamente a quella finale, lungo il filo di un legame nascosto che muove dalla sensualità aperta del piacere femminile rispecchiato dalle acque trasparenti e solari della piscina di una villa berlusconiana, per risolversi  dissolversi e rovesciarsi (o forse per svelarsi alla fine nella sua verità) nel muto dolore del popolo degli sfollati dell’Aquila che osservano al buio, chiusi nei loro corpi  impietriti, il salvataggio di una statua di Cristo, o di un santo, da una chiesa distrutta. Il legame dell’ambivalenza, dei poli opposti e rinviantisi di uno stesso universo ruotante intorno ad un unico centro, dà il senso all’intero film. Insieme infatti essi configurano il film come la storia di corpi, di tanti corpi rappresentati da un lato nella loro sfolgorante materialità elementare, registi e attori in fondo squallidi di una ricchezza e di un godimento esibiti senza limiti, in questo senso ‘violenti’, una storia di corpi nudi e rilucenti nella luce naturale o artificiale, e dal lato opposto invece chiusi e soffocati, esposti all’assenza di tutto, di casa, di luce di vita residua, di terra propria. Tutta la luce su quei corpi, nessuna luce su questi, che sono i ‘nostri’ o sono come i nostri corpi reali di persone reali, esterne allo spettacolo. Al centro, narratore o affabulatore unico della storia di corpi, della giostra della loro materialità, perno intorno a cui tutto ruota, il corpo di Silvio Berlusconi. Si tratta, ribadiamo, di una storia ambivalente, duplice, ambigua e intrecciata, sovrapposta, che vede, all’inizio e alla fine del film, da un lato la premessa dell’eccesso di carnalità a disposizione, intrinsecamente repulsiva per questo motivo,  componente essenziale di una miscela che esploderà nel corso della vicenda narrata (ad esempio nella lunga scena delle giovani donne che cantano «per fortuna che Silvio c’è» e nelle tante scene di feroce gelosia tra donne che si disputano, sollecitandoli, l’attenzione o anche solo lo sguardo del dominus) e dall’altro lato, alla fine, la corporeità di pietra della statua recuperata dalla rovina del terremoto, ferita, sacra e miracolosamente salvata, rispecchiantesi nei corpi vivi ma anch’essi impietriti dal freddo e dal terrore degli spettatori, gli sfollati della città distrutta. È un corpo, si è detto, che dall’inizio offre il significato essenziale alla storia berlusconiana. È il corpo della giovane donna nuda che seduta sul bordo di una piscina da sogno rade le sue parti intime mentre un bambino la schizza alle sue spalle con una pistola ad acqua prendendosi gli improperi non propri signorili di lei: una metafora fin troppo trasparente di altre ‘armi’ e di altre irrorazioni. È un corpo di pietra di Gesù sofferente o di un santo, che alla fine viene deposto in salvo, collocato al sicuro, sul terreno tra le rovine, in orizzontale, da una gru. Questa orizzontalità finale del corpo della statua deposta e quindi salvata è una orizzontalità tutta di sofferenza, di dolore, di salvataggio tecnologico quasi miracoloso, radicalmente opposta a quella in cui si immagina che sfoci la giostra sensuale delle tante ragazze disponibili (tranne una, raccontata in tratti umanissimi nel confronto-approccio con lei di Berlusconi), nel quadro della scenografia, che esplode di troppo fulgore, di troppa bellezza, di troppo lusso, di una villa che ‘noi’ non potremmo mai vedere o frequentare, tutta ‘loro’, non mai ‘nostra’.

Insieme e accanto a questa ambivalenza o ambiguità dei due modelli di corpo, attraversata dalla luce nascosta di una sensibilità morale rivolta allo stridore della disuguaglianza, un’altra duplicità si affaccia a sottolineare il fatto che ambivalenza e ambiguità dei corpi sono sottese appunto dalla presenza di uno scarto materiale che si incarna in corpi, dalla presenza di quella diseguaglianza elementare, materiale che contrassegna l’orizzonte umano sociale e politico in cui svolge la storia berlusconiana narrata. Tutto in questo film è in fondo è elementarmente materiale, lontano da ogni doppiofondo simbolico. Tutto è lì, le immagini dei corpi in scena rinviano programmaticamente e con grande maestria solo a loro stesse, non significano altro. Si tratta di quel lato della duplicità semantica dei corpi che vive, lo abbiamo detto, nelle figure stremate e private di tutto degli sfollati del terremoto aquilano dallo sguardo, triste, sgomento e mutamente accusatorio. Tra di essi sfila (all’altro corno di questa duplicità), camminando alla testa di silenziose e sorde autorità che solo a lui si rivolgono mentre lui guarda avanti fissamente, il corpo irrigidito del capo politico venuto a dispensare una salvezza e una speranza facilmente smerciabili a gente che non ha più nulla. Un abisso separa il salvataggio e la salvezza della statua dalla salvezza disponibile e distribuita, concessa, dal capo che si affaccia sul popolo, che piega il suo ‘corpo di re’ sulla miseria del popolo e promette, promette ancora e poi concede, una casa nella new town che intende sostituire la vecchia città in rovina, soppiantandola perché ogni traccia disturbante della rovina non contamini il “nuovo”, o anche solo una dentiera per una vecchia. Il primo salvataggio ci parla, si rivolge a ‘noi’, ci riguarda, è portatore di speranza ‘per noi’, mentre il secondo si realizza nel modo in cui i ‘loro’ del potere, della ricchezza, del godimento si ricordano dei tanti ‘noi’ nel momento della disgrazia, del disastro dalle cause (solo?) naturali. Anche nell’abisso che separa le due scene di due differenti salvataggi, il film lascia parlare le immagini della diseguaglianza, della asimmetria ambivalente, del troppo di vita rutilante, e del troppo poco di vita, che tuttavia si riscatta, come espressione di un altro modo di vivere e di una spiritualità assente nella prima, nella resurrezione della statua sommersa dal terremoto.

Si tratta di un riscatto analogo nel suo significato di possibile salvezza ‘per noi’ a quello che si affaccia (in scene dalla potente forza di commozione, che umanizzano di riflesso e per un attimo lo stesso Berlusconi) anche  in quel frammento della vita di ‘loro’ che è raffigurato da Veronica, nel momento finale del suo duro scontro con il marito, che prepara il divorzio e che chiama in gioco insieme al fallimento della vita coniugale i mille interrogativi, le mille domande inevase, i tanti perché senza risposta del successo politico ed economico dell’uomo di Segrate. E non è forse significativo che il sentore e la speranza di una salvezza possibile, della evitabilità del prevalere di ‘loro’, siano affidate, con una intuizione geniale, da Sorrentino alla dignità (sì, alla dignità) della donna che è stata più vicina al capo, e che si stacca e si contrappone rispetto all’universo delle donne che sono state solo ‘per il capo’ e, sia pur liberamente, contro loro stesse? Non abbiamo qui forse non più ambiguità e ambivalenza e indifferenza morale, ma autentica alterità, ossia l’alternativa di un corpo di donna cui non mancano sensualità e femminilità, e che tuttavia è anche anima e coraggio di una donna che tiene testa all’uomo che è marito, capo e padrone, una donna che non parla il linguaggio dell’offerta senza limiti, della disponibilità senza condizioni che dominano l’universo femminile del film, della dissipazione cercata e liberamente perseguita? Di una donna restia all’approntamento della propria autodissipazione, ossia a fare della propria vita una vita ‘loro’, sospendendo nel delirio dei corpi ogni domanda, ogni dubbio che in questo modo un corpo di donna voglia poter vivere?

Loro 2 è dunque il film al cui cuore si collocano il significato per immagini e quindi lo spettacolo offerto dai tanti corpi che lo animano e vi si muovono più o meno vorticosamente, i veri attori del film, l’autentica base della stessa sceneggiatura. In questo senso, il film è veramente uno spettacolo di corpi. Tra di loro, anzi meglio, ‘di loro’ vive la corte del re democraticamente eletto, figura istituzionale delle Repubblica, corte che essi formano, e che è sintesi di gelosie, di dolore per eventuali esclusioni, di godimento materiale fino allo spasimo, di struggimenti per misurare la distanza propria e altrui dal centro. Qui si colloca, motore immobile, il ‘corpo del re’ democratico, nella cui maschera di cerone e nel cui ghigno Sorrentino mostra il modo in cui si realizza la volontà di rendere la molteplice corporeità soprattutto femminile il luogo di espansione biopolitica della propria corporeità, che la accoglie, la unifica, la trascende, e gli assegna un senso che nella sua radicale distorsione cinica pretende di valere anche come modello universale paradossalmente positivo, il modello di come tutti si debba vivere. Tutti, è questo che lo spettacolo berlusconiano dei corpi dice, si deve vivere nel godimento non soltanto sensuale e sessuale, sia pure attraversato dal dolore e talvolta da un filo di disgusto appena accennato nelle pieghe della bocca di colui che guida lo spettacolo. Ma ogni negatività, ogni perplessità morale, ogni distacco critico sono banditi, perché il capo intorno a cui ruota la giostra del godimento è un ‘lui e loro’ nel quale il ‘noi’ reale si annulla. Questi ‘noi’ della corte ma che come popolo di un paese democratico si vorrebbe rappresentassero noi tutti, esprimono la vita reale delle persone che assistono allo spettacolo, coinvolte ed attonite, come incantate, oppresse dal peso del potere incarnato in un uomo solo e nella sua corte: un potere che si colloca accanto a quello delle regole istituzionali e della dignità morale, e che senza distruggerlo, lo corrode con la sua stessa presenza.

Questa asimmetria di ricchezza e di potere che si espande (o dobbiamo forse dire: si espandeva?) intorno alla figura di Silvio Berlusconi è ciò che Sorrentino ha messo in scena, giungendo persino fino al punto di rischiare di divenire egli stesso la vittima della prepotenza deformante delle sue immagini di lusso e di piacere, ossia della possibilità delirante che ‘lui’ e ‘loro’ hanno, di essere tutto, di utilizzare tutto e tutte. Ribadiamo il punto che ci sta a cuore affinché sia compia la comprensione di un film niente affatto facile, per niente risolto nella sua superficie: Sorrentino non apprezza la lancinante asimmetria dei corpi spettacolari, la prepotenza che si affaccia nel ghigno del capo padrone, respinge una fascinazione che avverte come pericolosamente attrattiva e che tuttavia tiene lontana, sebbene la dipinga dall’interno con tutta la forza della sua creatività immaginativa. Lo spettatore avverte il lancinante dolore spirituale (morale e spirituale, ma anche non redimibile, e infatti non redento, da una reazione democratica, da una elevazione stabile e permanente della società alla decenza del ‘noi’, dei tanti ‘noi’) che traluce in quel ghigno cinico-felice del capo padrone che canta, e intanto spande germi distruttivi, e incanta il suo mondo, il mondo che si è costruito, il mondo dello spettacolo affidato alle sue reti televisive. Accade tuttavia in questo film, e in forma radicalizzata, di avvertire qualcosa di analogo di quel che è capitato a taluno (a chi scrive per esempio) di sentire di fronte a La grande bellezza del 2013, il film dell’Oscar. Anche lì, lì prima che qui, la bellezza (che pure era l’autentica, non artefatta bellezza di Roma) appare appesantita, debordante, ribelle ad ogni limite, ad ogni orizzonte di trasparenza, di ordine, di speranza, come una bellezza barocca (e barocco si deve definire lo stile dei due ultimi film di Sorrentino, dalla bellezza così diversa da quella del fascino tragico ma aperto ad una speranza di riscatto e di dignità de Le conseguenze dell’amore del 2004). Anche nel film su Roma la bellezza che ho definito debordante e il piacere anomico e non sublimabile che genera si fa materia di immagini in una umanità ridotta ai suoi corpi artefatti, figure di un fellinismo fattosi violentemente e dolorosamente non poetico.

Quanto è diversa, si potrebbe ancora osservare proseguendo nei paragoni interni alla filmografia di Sorrentino, la rappresentazione della dolcezza carnale esplosiva del corpo femminile esibito nella ragazza che si immerge nell’acqua sotto gli occhi desideranti e rassegnati dei due anziani amici di Youth (2015)! Qui Sorrentino ha visto come nello sguardo dei due anziani la bellezza prorompente del corpo femminile, che in certo senso è li per loro, per non far naufragare fino ad ucciderla la loro corporeità, la loro sensualità spegnentesi, trova il suo limite, la sua condizione limitante nell’universale umano che non soffoca il proprio sfinimento materiale nella crisi della vecchiaia proprio grazie al confronto con il corpo del godimento giovanile. In Youth la bellezza del corpo femminile non è dissipata, non è a disposizione per la propria utilizzazione autodistruttiva, come accade in Loro 2. Il limite, l’autolimitarsi della bellezza corporea, il suo virtuale sublimarsi nell’orizzonte e sotto gli occhi della vecchiaia e nell’ambito del confronto tra gioventù e vecchiaia, manca invece in Loro 2, che è per questo motivo, come abbiamo mostrato, un film di corpi ‘assoluti’, un film della bellezza femminile prorompente e al tempo stesso subalterna e funzionale, assolutizzata dal capo e per il capo, fattosi veicolo di dominio biopolitico.

Vogliamo dire che nella giostra dei corpi (la giostra che gira al centro cella villa dello spettacolo e del piacere è una delle immagini chiave del film) Sorrentino offre una qualche raffigurazione per niente affatto stilizzata o simbolica della nostra Italia, di ieri e di oggi, forse di sempre? Non so se vogliamo dire questo, non so neanche se Sorrentino abbia voluto alludere a questo. Certo, ci si offre un luogo naturale splendido, un luogo di feste estenuatamente sensuali condotte sotto la regia del padrone e messe in scena dalla sua corte passiva, in cui manca ogni spazio del ‘noi’ che noi siamo, diverso ed opposto rispetto a quello sguaiato e ridente ma artificiale di ‘loro’. Ho detto che Loro 2 è una storia di corpi implacabilmente gaudenti e questo spiega l’assenza di un’anima, anzi la sua perdita, quale evento o forse destino centrale della storia italiana, messa in scena dalle immagini rutilanti. Si rimane con il dubbio che la perdita dell’anima di un paese e di una cultura, fattasi corpo nel corpo di Silvio Berlusconi abbia ferito Sorrentino fino al punto paradossale di renderlo meno avvertito del fatto che tale perdita – che le sue immagini stigmatizzano – lo abbia come lambito, senza contaminarlo, ma lasciandolo come sbalordito di fronte al suo stesso spettacolo di figure costituite da una giostra di corpi, figure che la sua immaginazione creativa ha attraversato, liberandole o scatenandole e cogliendone così la potenza eversiva, ma anche forse consentendo che la sua coscienza morale ne fosse come intimidita, sebbene certamente non messa a tacere.

Gli si poteva chiedere (posto che la richiesta abbia un senso) di raccontare la storia dei corpi del berlusconismo in un altro modo, per esempio più vicino allo stile indignato de Il Caimano di Nanni Moretti? Oppure ci si deve arrendere all’evidenza che nei limiti formali del film (quelli di un barocchismo esasperato, essenzialmente) è il ‘noi’ che noi siamo ad essere rappresentato come noi chiusi in una gabbia che non è casa nostra e da cui tuttavia stentiamo ad uscire per tornare ad essere più liberi, anime nei corpi e non solo corpi, soggetti di un godimento che non azzera le forme di una civiltà giuridica democratica e di una vita civile e culturale consapevole, né mette a rischio il limite e l’ordine interno che fanno del piacere qualcosa che non cancella la spiritualità, la uguale umanità degli esseri umani, uomini e donne? Possiamo sperare di lasciarci alle spalle, almeno nella nostra coscienza, la giostra dei corpi dell’Italia berlusconiana messa in scena da Sorrentino, o invece Sorrentino non ha saputo, o non ha voluto, fare appello fino in fondo alla nostra speranza perché le immagini del berlusconismo uscite dalla fucina della sua creatività lo hanno in qualche misura sopraffatto?