Entrare fuori, uscire dentro. Il processo di superamento del manicomio raccontato da Tommaso Losavio, già responsabile della chiusura dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma.
Losavio poté dichiarare chiuso l’ospedale psichiatrico romano. Il superamento del manicomio per come era stato fino ad allora conosciuto, però, non comportava — e non comporta tutt’ora — il superamento della "manicomialità” ossia del rischio latente — e immanente alla relazione malato-curante — dell’abuso di potere e del riproporsi, in forme diverse, dei "meccanismi tipici della violenza istituzionale”.
Sono passati quarant’anni dall’approvazione della legge 180 e dall’approvazione della legge 833 del 1978 che, istituendo il Servizio sanitario nazionale, inglobava la 180 in una legge di sistema. Si imponeva allora l’avvio di un processo per il superamento del manicomio che durò decenni e che, tra il 2012 e il 2015, vide come ultimo atto la chiusura (ma non certo il completo superamento) degli ospedali psichiatrici giudiziari. A Roma la chiusura del Santa Maria della Pietà si concluse alle soglie del 2000. L’ospedale psichiatrico provinciale della capitale era un’istituzione con alle spalle più di cinquecento anni di storia, un manicomio tra i più grandi e complessi d’Italia, che nell’ultimo secolo aveva visto lavorare al suo interno, con responsabilità cliniche, di direzione e di ricerca, alcuni dei principali esponenti della psichiatria italiana (da Clodomiro Bonfigli a Giovanni Mingazzini, da Sante De Sanctis a Ugo Cerletti).
Tommaso Losavio, sei stato tra i protagonisti dell’ultima fase della vita dell’ospedale psichiatrico di Roma: puoi raccontarci in che momento sei arrivato al Santa Maria della Pietà?
Quando tornai a Roma, nel gennaio dell’ottanta dopo cinque anni di lavoro a Trieste con Franco Basaglia, scelsi di andare a lavorare – come primario di un servizio psichiatrico delle allora appena istituite Unità sanitarie locali – nella 19a circoscrizione perché in quella circoscrizione era ricompreso il Santa Maria della Pietà. L’ospedale psichiatrico aveva una direzione autonoma, però ero riuscito ad aggregare al servizio territoriale di cui ero primario due reparti che vennero di fatto scorporati dall’ospedale psichiatrico. Questi due reparti accoglievano una sessantina di pazienti che erano stati “trasformati” in “ospiti” in attesa di essere trasferiti all’esterno.
Quindi, in qualche modo, avevo un piede dentro al manicomio, anche se in posizione marginale, nel senso che il resto del Santa Maria della Pietà – che accoglieva ancora un migliaio di persone ricoverate – non mi competeva. Questi due reparti costituivano una contraddizione all’interno di una struttura abbastanza immobile, in cui amministratori e colleghi medici, in quegli anni, stavano a guardare che cosa poteva succedere senza impegnarsi nell’applicazione della riforma. Erano gli anni in cui, subito dopo l’approvazione della legge 180, incominciavano a emergere molte perplessità sulla possibilità che quella legge potesse funzionare e in cui le stesse forze politiche che avevano appoggiato la riforma presentavano proposte di modifica.
Era quindi un periodo complicato e difficile in cui noi, come servizio psichiatrico territoriale, dovemmo anche forzare un po’ la mano per attuare la riforma. Nel 1982, ad esempio, occupammo una casa non utilizzata, di proprietà del comune di Roma, in via Baccina, dove portammo a vivere cinque signore che erano ospiti in quei due padiglioni di cui ho parlato prima. L’occupazione fu un’azione di tipo “militare”, quasi, perché venne studiata nei minimi particolari e fu preceduta da un’attività di “spionaggio” molto sofisticata con cui individuammo la casa.
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