Una storica tra impegno e ricerca: intervista a Elena Brambilla


Abstract: La testimonianza di una studiosa tra impegno civile e ricerca: Elena Brambilla, docente di Storia moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano, ripercorre il proprio cammino esistenziale tra formazione intellettuale ed esperienze personali, dagli studi alle letture, dai maestri che l'hanno indirizzata negli anni universitari alle suggestioni emerse dal confronto con altre discipline e nuove realtà.

Intervista a Elena Brambilla

 

Ripensando ai tuoi studi universitari e al tuo percorso di maturazione intellettuale, quali sono stati gli storici o le storiche (ma anche gli studiosi di altre discipline) che hanno maggiormente contribuito alla tua crescita e che hanno avuto un peso rilevante per la tua formazione? Quali le letture?

Mi sono formata alla ricerca storica negli anni intorno al 1968, e dunque debbo dire anzitutto che in quegli anni ad alto calore politico furono proposti alla mia attenzione come riferimenti teorici basilari Marx ed Engels, Gramsci, Habermas e la scuola di Francoforte, le collane storiche di Einaudi e degli Editori Riuniti, e gli indirizzi teorici ad essi largamente ispirati. Ma assai più che la dimensione teorica furono decisivi per me i nuovi modelli storiografici, che in quegli anni venivano sostituendo, forse sin troppo radicalmente, la storia delle idee e soprattutto la storia politico-diplomatica, criticata dalla scuola francese delle «Annales» come histoire événémentielle. Oggi, retrospettivamente, posso supporre che forse buttammo via allora il bambino col bagno, sacrificando anche ciò che si è poi evoluto in storia culturale e storia globale, per liberarci da un’erudizione tardo-risorgimentale e da una storia delle idee puramente astratta e cartacea. Demmo anche noi prova dell’iconoclastia che contraddistingue ogni nuova generazione, non solo storiografica, ansiosa di distinguersi dalle generazioni precedenti, secondo le tesi di Mannheim. “Anche noi”: giacché oggi pare in corso, in senso inverso, un eguale e forse persin più aspro movimento di iconoclastia e “revisionismo” nei confronti di un po’ tutte le tesi e gli storici della scuola decollata nei decenni 1960-70. Tale svolta fu allora tanto più accentuata in quanto fu iscritta in un quadro politico-sociale, e in un’atmosfera ideologica, di conflitto tra generazioni, di ribellione contro l’autorità costituita e i luoghi comuni consolidati, di esaltazione della libertà individuale anche come libera ricerca; mentre oggi il movimento eguale e contrario sembra ispirato al globale rigetto di ogni cultura laica e di sinistra, termini ormai capovolti a significare valori faziosi e negativi.

Oggi ritengo che la rottura del Sessantotto, che ha segnato anche la mia storia intellettuale, abbia comportato quasi altrettanti elementi positivi che negativi. Negativa certo l’iconoclastia; positiva però continua comunque ad apparirmi, nonostante il recente ritorno di popolarità della storia militare e diplomatica classica, e nonostante le indubbie novità della storia culturale e globale (che certo hanno superato tanti limiti della storia economica e sociale secondo il modello francese delle «Annales»), le scelte di un’impostazione di ricerca che, ispirata appunto alle «Annales», non furono solo di storia quantitativa (e poi lungi da me il criticarla, anche se l’ho ben poco praticata, date le sue fondamentali ramificazioni nei quadri economico-statistici della moderna storia globale), ma fu soprattutto scelta di una storia istituzionale che attingesse i suoi temi non solo alle fonti astratte della storia del pensiero filosofico-politico, ma al concreto organizzarsi, economicamente, socialmente e culturalmente, delle forze umane secondo configurazioni da analizzare in modo da dar conto più pieno dei sistemi politici concreti, e da spiegare più largamente e secondo radici più accurate le storie del pensiero. La mia idea era insomma di trovare i nessi tra i diversi segmenti della ricerca storica, per costruire saggi che partendo dalle basi economico-sociali dessero un significato profondo e insieme flessibile al variare delle culture, delle istituzioni e dei sistemi politici, senza automatismi e senza astratte teorie precostituite. In questo senso, sono state per me fondamentali le letture di Jurgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica; di Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo e tutte le altre sue opere; di Marino Berengo (lo storico con cui mi sono laureata), Nobiltà e popolo nella Lucca del Cinquecento, ed anche i saggi e raccolte sui giornali veneti, i giacobini, la società veneta a fine Settecento; di Franco Venturi, l’imponente affresco dei volumi sul Settecento riformatore. Resta poi per me un caposaldo di riferimento la scuola filosofica e culturale espressa dall’Università degli Studi di Milano: le letture di Antonio Banfi, Luciano Geymonat, Mario Dal Pra, Giulio Preti in Retorica e logica, e in molti altri saggi tanto brevi quanto indimenticabili.
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