I campi di concentramento fascisti: tra storiografia e definizioni

I campi di concentramento fascisti: tra storiografia e definizioni

Abstract: L’articolo intende affrontare le questioni sorte intorno alle definizioni generali della categoria di “campo di concentramento” nelle sue diverse manifestazioni, a partire dalla categoria di lager. Questa è tradizionalmente assunta a paradigma storiografico comparativo per i diversi sistemi concentrazionari. In relazione a tale paradigma, ci si interrogherà su come collocare il caso italiano dei campi di concentramento instaurati durante il periodo bellico dal giugno 1940 al settembre 1943. Si presenterà brevemente una rassegna storiografica sullo stato della ricerca in Italia sul fenomeno concentrazionario fascista dell’internamento civile.

«Credo che, in futuro, ogni volta che verranno pronunciate le parole “campo di concentramento”, si penserà alla Germania di Hitler, e solo a quella». Con queste parole appuntate sul suo diario nell’autunno del 1933, appena qualche mese dopo l’arrivo dei primi prigionieri a Dachau, l’ebreo Victor Klemperer, professore di filologia di Dresda e acuto osservatore della dittatura nazista, aveva già intuito quello che sarebbe diventato uno dei più grandi problemi lessicali e concettuali della storiografia sugli “universi concentrazionari” totalitari. Infatti, i “campi di concentramento” sono diventati sinonimo dei campi nazisti, addirittura inglobando anche quelli adibiti allo sterminio di massa degli ebrei d’Europa, meglio definiti come “centri di morte immediata” o “campi di sterminio”. È pur vero che i “campi di concentramento” incarnavano lo spirito del nazismo, formando un sistema separato di dominio organizzato con regole proprie e con un linguaggio codificato originale. Nei documenti ufficiali nazionalsocialisti venivano denominati KL, acronimo del tedesco Konzentrazionslager e il regime nazionalsocialista riconobbe fin da subito l’importanza di uno strumento del genere per disporre di un potere considerevole.

L’uso pubblico, a volte strumentale, del concetto di lager come sinonimo universale di “campo di concentramento”, anche a causa di una produzione memorialistica, pubblicistica, letteraria e cinematografica, ha contribuito a creare un immaginario collettivo condiviso di tale rappresentazione, il lager, appunto. Il lager diventa un paradigma con cui confrontarsi ogni qualvolta lo storico cerca di comprendere un “universo concentrazionario” che non sia quello nazionalsocialista.

Esaminando le forme di internamento, ci si trova di fronte ad un problema interpretativo. Non per tutti i contesti in cui furono istituiti dei “campi di concentramento” si può parlare di un sistema concentrazionario. Ciò è tale quando esso costituisce appunto un «universo», come spiegava David Rousset, ossia un «mondo a parte» con delle proprie leggi. Ma questa considerazione non esclude che possano esistere differenti sistemi concentrazionari che non siano come quelli nazisti o comunisti, dove l’istituto dell’internamento è usato quale forma coercitiva del terrore, della violenza, dello sfruttamento del lavoro di tipo schiavistico, fino alla macchina dello sterminio “industriale” di esseri umani.

La storiografia ha sempre puntualizzato che, per quanto riguarda il regime nazionalsocialista, sia più corretto parlare di sistema concentrazionario nazista, intendendo con esso il sistema dei campi di concentramento presenti sul territorio tedesco, senza includere i “centri di sterminio” delle SS situati nella Polonia occupata che di fatto erano chiamati SK, Sonderkommandos: la loro funzione era quella appunto dell’eliminazione di massa di esseri umani. Come ebbe a dire Raul Hilberg: «mai, in tutta la storia dell’umanità, si era ucciso a catena. Il centro di sterminio, […] non aveva alcun prototipo, nessun predecessore amministrativo».

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