L’arte come strategia politico-culturale nella comunità portoghese dei nuovi cristiani a Roma. Una riflessione sulle cappelle Nuñez Sanchez, da Fonseca e da Silva

L’arte come strategia politico-culturale nella comunità portoghese dei nuovi cristiani a Roma. Una riflessione sulle cappelle Nuñez Sanchez, da Fonseca e da Silva

Abstract: Il saggio prende in esame tre cappelle gentilizie nella Roma barocca e ne contestualizza la commissione ad opera di illustri personalità appartenenti al novero dei nuovi cristiani portoghesi presenti nella città pontificia. L’analisi proposta individua nei temi decorativi una chiave di lettura emblematica per comprendere l’effettivo utilizzo del fenomeno artistico da parte di questa enclave forestiera e metterne così in luce l’apporto identitario a carattere politico e culturale nei confronti del contesto sociale ospitante.

Nella ridefinizione dello spazio chiesastico promossa in accordo alle direttive emanate dal Concilio di Trento, l’importanza rappresentata dalle cappelle acquisisce un carattere di particolare rilievo, in forza di molteplici ragioni. Luogo fisicamente separato eppur inscritto all’interno del tempio a navata unica, da un punto di vista liturgico il sacello agevolava quel culto dei santi che la Riforma luterana aveva rigettato; ben più di un semplice altare, esso consentiva di presentare al fedele l’effigie del celebrato assieme a specifici episodi della sua vita, selezionati come emblematici della sua santità, magnificando con la narrazione figurativa il concetto del concorso delle opere alla salvezza dell’uomo. Non meno considerevole era poi la valenza sociale legata al possesso di una cappella, generalmente concessa in giuspatronato a facoltose famiglie che, previa l’assunzione degli oneri economici connessi alla loro decorazione, potevano utilizzarle come spazio privato di sepoltura e, nel contempo, dare pubblico lustro al prestigio del casato, secondo modalità analoghe a quelle che informavano l’edificazione o l’acquisto di un palazzo urbano o di un’ampia tenuta ubicata extra moenia. La molteplicità di riflessioni stimolate dallo studio delle cappelle gentilizie edificate tra il XVI e il XVII secolo coinvolge differenti settori disciplinari che vanno dalla storia religiosa a quella sociale, dall’analisi dei fenomeni artistici a quella inerenti le vicende politico-diplomatiche. In anni relativamente recenti si è prospettato un ulteriore filone di indagini, legate al concetto identitario con cui singole comunità straniere presenti in particolari contesti urbani percepivano se stesse e interagivano con l’ambiente ospitante. Se molti di questi gruppi potevano giovarsi di chiese nazionali, attorno alle quali si costituivano confraternite e compagnie a carattere assistenziale, in loro assenza non poche erano le cappelle in onore di un santo venerato in un particolare contesto geografico edificate con analoghe finalità oppure, più semplicemente, quelle patrocinate da nobili stranieri per esaltare il prestigio personale e, frattanto, fornire un simbolico luogo di raccordo per i propri conterranei. Queste considerazioni, valide per molte importanti capitali europee, lo sono in particolar modo per una città come Roma, centro della cattolicità e vera babele di lingue, costumi e tradizioni; nel novero dei differenti gruppi nazionali ivi dimoranti, tra i quali si contavano come ovvio francesi e spagnoli ma anche olandesi e tedeschi, un ruolo per certi versi problematico è quello che riguarda la comunità portoghese.

Le ragioni di questa complessità vanno rintracciate innanzi tutto nel peculiare frangente storico che vide a partire dal 1581 la corona spagnola di Filippo II e dei suoi successori regnare sull’intera penisola iberica, a seguito della morte senza eredi del cardinale Henrique I, ultimo sovrano della casata reale degli Aviz. Ne consegue che, sino al trattato di Lisbona che riconobbe nel 1668 l’indipendenza da Madrid e la legittimità della linea dinastica dei Bragança, i portoghesi presenti nell’Urbe fossero a tutti gli effetti considerati sudditi spagnoli, sebbene non di rado essi sentissero l’esigenza di qualificarsi diversamente. Assai emblematico, a tal riguardo, risulta lo spoglio dei libri parrocchiali romani del pieno Seicento, dai quali emerge la presenza di una nutrita comunità lusitana nelle adiacenze della cosiddetta «Isola del Signor Ambasciatore di Spagna», coincidente con l’area dove sorge il palazzo che ospitava il corpo diplomatico asburgico. L’ambivalenza nei rapporti di forza e di coesione sociale tra coloro che erano considerati occupanti e quanti, pur legati da interessi di vario tipo alla corte madrilena, si ritenevano ingiustamente sottomessi, trova un tangibile riscontro nelle informazioni fornite da questi ultimi ai parroci al momento della compilazione degli annuali Stati delle Anime; qui, infatti, è possibile rintracciare i nomi di quanti orgogliosamente definivano se stessi come «portughesi», accanto ad altri che adottavano la più ambigua e artificiosa dicitura di «spagnolo lusitano», e, infine, a coloro che di buon grado professavano di essere «spagnoli», salvo poi specificare la città portoghese di provenienza.

A queste indubbie complicanze, già di per sé ostative ad una agevole ricostruzione storiografica della comunità lusitana romana a cavallo tra Cinque e Seicento, si aggiunga un ulteriore dato storico, di importanza niente affatto secondaria. Buona parte dei più influenti ed economicamente rilevanti portoghesi presenti nella città pontificia appartenne a quel peculiare gruppo sociale noto come nuovi cristiani, esponenti di antiche famiglie di origine ebraica costrette con editto del sovrano Manuel I alla conversione forzata nel 1497 e che, ciò nonostante, si videro obbligati ad abbandonare la terra natia per sfuggire alle maglie di un inquisizione particolarmente feroce, restia a credere alla genuinità religiosa dei nuovi fedeli. A queste fila appartennero tre importanti personalità, la cui ascesa sociale è testimoniata – non ultimo – proprio dall’edificazione di sontuose cappelle gentilizie; ubicati in templi afferenti alle parrocchie presso cui dimoravano e non già all’interno della pur vicina chiesa nazionale dedicata a Sant’Antonio, fatto di per sé non privo di un certo rilievo, i sacelli in questione furono affidati a celebri artisti con il chiaro intento di farne l’espressione concreta di un preciso messaggio ideologico che si voleva comunicare alla realtà sociale, politica e religiosa circostante. Se la civiltà barocca nata in Roma e da qui irradiatasi al resto del continente europeo intese il fenomeno artistico come un medium atto a veicolare presso le masse messaggi di carattere politico e religioso, appare quanto mai utile analizzare la decorazione di questi specifici luoghi per rintracciarvi elementi che facciano meglio comprendere come i loro committenti si percepissero e come volessero farsi percepire dall’ambiente in cui si trovavano a vivere e operare.

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