La Repubblica Romana del 1849 e i suoi echi nel 170° anniversario: introduzione


Abstract: Sono trascorsi 170 anni dalla nascita e caduta della Repubblica Romana del 1849. Traendo spunto da alcune celebrazioni che si sono svolte a Roma nell’anno appena trascorso promosse da varie istituzioni e associazioni, anche il nostro Giornale ha voluto dedicare un proprio tributo a quel memorabile evento. A fronte di una letteratura vasta sia coeva che contemporanea fatta di cronache, memorialistica, documenti e studi, i contributi che qui pubblichiamo esplorano alcuni aspetti che ci auguriamo inediti o comunque meritevoli di approfondimenti.
In questa introduzione la curatrice del numero monografico presenta i numerosi articoli che lo compongono.

Sono trascorsi 170 anni dalla nascita e caduta della Repubblica romana del 1849. Traendo spunto da alcune celebrazioni che si sono svolte a Roma nell’anno appena trascorso promosse da varie istituzioni e associazioni, anche il nostro Giornale ha voluto dedicare un proprio tributo a quel memorabile evento. A fronte di una letteratura vasta sia coeva che contemporanea fatta di cronache, memorialistica, documenti e studi, i contributi che qui pubblichiamo esplorano alcuni aspetti che ci auguriamo inediti o comunque meritevoli di approfondimenti.

Certamente la Repubblica del ’49 rappresentò uno dei momenti più fulgidi del nostro Risorgimento e rimase scolpita nell’immaginario non solo dei romani ma di gran parte d’Europa e anche d’America soprattutto per l’eroismo dei combattenti, per la disparità delle forze in campo, per essere una battaglia di popolo. Quando Roma dopo la fuga del papa iniziò a vivere il suo sogno libertario, divenne agli occhi del mondo un grande palcoscenico e quando la Repubblica si trovò accerchiata dai vari eserciti e assediata dalle truppe francesi, allora per la prima volta il popolo scese nelle strade a combattere. Ed erano uomini, donne e ragazzi. Oggi colpisce la giovane età dei combattenti, molti dei quali, troppi, persero la vita in un’impresa disperata. Sergio Raimondo ricostruisce la partecipazione della “meglio gioventù” attraverso le vicende del battaglione universitario, formazione volontaria poco trattata dalla storiografia e dalla stessa memorialistica, eccezion fatta per I Ricordi di Filippo Zamboni (pubblicati postumi nel 1926). Attraverso i documenti inediti conservati nel Fondo Gerardi, oggi presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma, vengono ricostruite le tappe della formazione del battaglione, la sua composizione fatta non solo di studenti ma anche di artisti e adolescenti, l’addestramento nel cortile del palazzo della Sapienza allora sede dell’Università, le varie battaglie combattute fino all’ultima disperata resistenza del 29-30 giugno. La figura del volontario, connotata da suggestioni romantiche di eroismo e idealismo avrebbe messo profonde radici nell’immaginario nazionale, offrendo ai giovani un innovativo modello di impegno politico. «La personificazione del Risorgimento assunse comunque le sembianze del giovane maschio ardimentoso che smentiva il declino nazionale con il suo empito patriottico. Questa immagine divenne infatti essenziale alla rappresentazione del Risorgimento come “storia di fondazione”».

Oltre all’impegno dei combattenti, la Repubblica nella sua breve vita sollecitò anche una liberazione di energie intellettuali che finalmente emancipate dalla censura del regime papalino si misurarono nel confronto politico, nella saggistica, nella pubblicistica. Con l’abolizione del Sant’Uffizio nel febbraio 1849 si riaccese il dibattito sull’Inquisizione, agli occhi dei contemporanei simbolo dell’oscurantismo ecclesiastico. Dibattito che risultava in parte viziato da un immaginario gotico formatosi già durante i secoli di antico regime e fondato sulla leyenda negra antiberica, per cui il mito inquisitoriale sarebbe rimasto a lungo legato ai caratteri dei tribunali spagnoli e portoghesi. La panflettistica e le numerose opere suscitate dall’abolizione del Sant’Uffizio e dall’apertura del palazzo al popolo, nell’approfondito esame condotto da Andrea Cicerchia, evidenziano il persistere di questa dicotomia storiografica iberico-romana. «Il fatto che la maggior parte degli storici sia consapevole della diversità istituzionale delle esperienze inquisitoriali, mostra come tale dibattito sia ancora ben lontano dall’esaurirsi e che, oggi come allora, sembra avere come nòcciolo della questione la duplicità, ecclesiastica e civile, che nella storia moderna ha rivestito la realtà inquisitoriale».

Altrettanto vivace fu la contrapposizione che nei giorni della Repubblica vide schierati sostenitori e oppositori su riviste e giornali. L’analisi di Matteo Morandini su alcune pubblicazioni politico-caricaturali sostanzialmente speculari, «Don Pirlone» di ispirazione democratica e sul versante reazionario «Grande riunione», conferma l’importanza riconosciuta alla caricatura come veicolo di propaganda e acculturazione, per cui oggi la Roma rivoluzionaria ci appare come un laboratorio oltre che politico anche mediale. Se il «Don Pirlone» rievocava le gesta dei difensori della Repubblica collocandoli come stelle nel firmamento degli eroi, all’opposto la «Grande riunione» si prefiggeva un’opera di dissacrazione dell’esperienza repubblicana mettendo in ridicolo le sue parole d’ordine, i suoi simboli, i suoi uomini. Operazione che aveva «come obiettivo la dimostrazione dell’inconsistenza delle istanze e delle pratiche democratiche, lo svelamento della loro ipocrita vacuità».

Dopo la sua caduta, la Repubblica romana continuò a vivere non solo attraverso le tante caricature diffuse nella pubblicistica ed entrate nell’immaginario popolare ma anche, come ci racconta Marco Pizzo, nelle innumerevoli rappresentazioni realizzate da disegnatori, incisori e, per la prima volta, fotografi. Iniziava già nelle prime fasi del Risorgimento un collezionismo fatto di immagini, cimeli, ricordi. Fu Stefano Lecchi a realizzare il primo reportage di guerra anche se, essendo ancora la fotografia in uno stadio primitivo, non era in grado di riprendere le immagini in movimento e quindi poté tramandare ai posteri solo una visione “archeologica” fatta di rovine dei luoghi in cui aveva infuriato la battaglia. La difficoltà di catturare il movimento lasciò campo alle tecniche incisorie, per cui furono i litografi a registrare sulle loro tavole incise le battaglie del Risorgimento, divenendo «i falsi testimoni del momento dell’azione».

Alle fotografie di Lecchi è dedicata la mostra digitale Roma 1849: Stefano Lecchi-Il primo reportage di guerra. Maria Pia Critelli ci narra la genesi e le successive tappe di realizzazione della mostra, attraverso la quale è possibile accedere non solo alle fotografie di Lecchi conservate presso la Biblioteca di Storia moderna contemporanea di Roma ma anche a quelle possedute dal Getty Research Institute di Los Angeles. Merito del progetto è non solo aver reso fruibile questi materiali da un pubblico non meramente specialistico, ma soprattutto aver accompagnato i dati tecnici con la ricostruzione del contesto storico, l’approfondimento biografico della figura di Lecchi e, tra l’altro, la geolocalizzazione dei luoghi ritratti. Impresa complicatissima quest’ultima, date le stravolgenti modificazioni urbanistiche intervenute nel corso del tempo, e in progress poiché si vuole «rendere visibile con gli strumenti di geolocalizzazione elettronica comunemente in uso il luogo esatto dove si trovava l’edificio fotografato da Lecchi. Un modo di superare centosettanta anni di storia e di rendere più immediatamente vicina non solo la Roma del 1849 ma anche i luoghi che furono testimoni della difesa della Repubblica».

Ci si può chiedere con Giuseppe Monsagrati come mai l’adesione della cittadinanza al regime repubblicano fosse stata così massiccia, quando fino a metà ’48 non erano mancate verso il papa manifestazioni di devozione popolare e nonostante il perdurare di un certo conservatorismo in alcune zone periferiche dello Stato, evidenziato dalle elezioni amministrative lì dove erano avvenute. Si può supporre che in parte avessero effetto i meccanismi di controllo messi in atto dalle autorità repubblicane sullo spirito pubblico ma, soprattutto, che facesse presa sulla popolazione un sistema di governo affidato a personale laico e ispirato a principi di equità e riforme sociali. Probabilmente fu proprio questo a fare la differenza con il passato regime, restituendo ai cittadini «oltre che il senso della giustizia con cui si governava la vita pubblica, il senso della solidarietà e dell’appartenenza a una comunità di destino e non ad un aggregato casuale e concorrenziale di interessi e privilegi».

La Costituzione promulgata il 3 luglio dalla morente Repubblica avrebbe sancito questi ideali di laicità e democrazia, costituendo l’esperimento più avanzato fra tutti quelli prodotti nel corso del Risorgimento italiano e rappresentando uno spartiacque rispetto al liberalismo moderato. Si può ritenere che la sua eredità ideale sedimentandosi nel tessuto civile del paese possa aver trovato esito nella costituzione della Repubblica italiana del 1948? In una attenta disamina dei suoi otto principi fondamentali, Sergio Lariccia ne coglie gli elementi di analogia ma anche le differenze con i princìpi fondamentali della vigente costituzione italiana, soffermandosi in particolar modo sul concetto di sovranità. Se per la prima volta veniva enunciato nella costituzione del 1849 il carattere popolare della sovranità, fino ad allora appartenente esclusivamente allo Stato, è pur vero, si fa notare, come alla base di tale formulazione dovesse vedersi il concetto che il popolo è idealmente il complesso dei governati che si contrappon­gono ai governanti: «concezione presente anche nel 1947 in seno all’assemblea costituente, insieme però alla diversa idea secondo la quale il popolo è sovrano in quanto comunità ordinata di governanti e governati». Le scelte fatte alla fine della seconda guerra mondiale, cioè la consultazione popolare a favore della forma repubblicana e l’affermazione del carattere democratico della nuova costituzione, avrebbero ripercorso in qualche modo il tracciato della costituzione del ’49, introiettandone la consapevolezza di ritenere collegati i due princìpi, quello repubblicano e quello democratico.

Nel concludere questa breve presentazione dei saggi che compongono il presente numero, mi sembra doveroso far presente che se nessun contributo è dedicato alla presenza delle donne nella Repubblica del ’49 – presenza che pure fu massiccia e qualificata sia in battaglia che nell’organizzazione dei soccorsi che nella pubblicistica – è perché al momento non sono emerse nuove fonti. Benché nel corso degli ultimi decenni la storiografia, soprattutto sotto l’impulso della storia di genere, abbia in parte colmato le lacune sulla partecipazione femminile a quell’evento e oggi molte di quelle donne abbiano un nome e un volto, pur tuttavia molta strada rimane da fare. Mi preme segnalare, però, che nella collana La memoria restituita. Fonti per la storia delle donne (diretta da Marina Caffiero e da me), sono state pubblicate due fonti inedite di due protagoniste della Roma repubblicana: A corte e in guerra. Il memoriale segreto di Anna de Cadilhac, a cura di Roberta De Simone e Giuseppe Monsagrati, Viella 2007 e Rachele. Storia lombarda del 1848, di Cristina Trivulzio di Belgioioso, con saggi di Alberto M. Banti e Novella Bellucci, Viella 2012. Sull’argomento, per chi volesse, rinvio ad alcune relazioni del ciclo di seminari tenutosi presso l’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica, dedicate appunto alla partecipazione femminile e disponibili in audio.

Infine, a riprova di come la storiografia non abbia del tutto fatto i suoi conti con questa fase risorgimentale, vorrei segnalare la recente uscita di due volumi, l’uno di Ignazio Veca, Il mito di Pio IX. Storia di un papa liberale e nazionale, Viella 2018 e l’altro di David I. Kertzer, Il papa che voleva essere re, uscito nel 2019 nella traduzione italiana per i tipi di Garzanti.

Ma anche la narrativa ha subìto il fascino della rievocazione storica e ben tre romanzi editi nel 2019 sono ambientati nella Roma repubblicana: I guerrieri della libertà, di Valerio Evangelisti, ed. Mondadori, Quasi per caso di Giancarlo De Cataldo, ed. Mondadori, e L’architettrice di Melania Mazzucco, ed. Einaudi, quest’ultimo giocato su due piani temporali, la costruzione della villa del Vascello nel Seicento e la sua distruzione nella difesa del 1849.

Il che ci induce a prendere atto di come le suggestioni evocate dalla breve vicenda repubblicana, colte allora da quanti accorrevano e davano la vita in sua difesa, continuino oggi a vivere come parte dei miti di fondazione dei nostri valori democratici. E se dovessimo dimenticarcelo, i princìpi fondamentali della costituzione del ’49 incisi sul parapetto del Gianicolo stanno lì a ricordarcelo.

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