Magia, crimine sessuale e indisciplinatezza ecclesiastica. Il caso di don Bartolomeo Coletta (Conversano, 1727-1728)

Magia, crimine sessuale e indisciplinatezza ecclesiastica. Il caso di don Bartolomeo Coletta (Conversano, 1727-1728)

Abstract: La vicenda processuale di don Bartolomeo Coletta è un caso che analizza l'indisciplina ecclesiastica e sull'uso della magia terapeutica in Puglia durante il Settecento. L’azione giudiziaria, inizialmente determinata da una tentata violenza sessuale e da una violazione di domicilio, si trasformava in un processo per pratiche magiche e superstiziose. Lo studio prova a cogliere l’interscambio di conoscenze tra il mondo ecclesiastico, la cultura medica alta e la cultura popolare nel contesto del pluralismo terapeutico dell’Italia meridionale. Inoltre, ampio spazio viene dedicato all’osservazione delle pratiche magiche usate per le cacce ai tesori. L’articolo, suddiviso in tre sotto capitoli, analizza la difficoltà del clero provinciale a rispettare il celibato e l’ampia diffusione della magia nell’ambito ecclesiastico.

A partire dal 2008, conseguentemente al lavoro di riordino e d’inventariazione dell’Archivio Diocesano di Conversano, sono stati resi noti nel dettaglio i documenti presenti nel fondo Conversano. Nei fascicoli, contenuti negli acta criminalia, è possibile riscontrare una documentazione fitta. Questa ci dimostra la solerte attività del tribunale ecclesiastico di Conversano tra il Cinquecento e l’Ottocento. Si tratta di un patrimonio documentario abbastanza vario, che va dai processi per magia e superstizione, alle accuse di concubinaggio e adulterio fino alle frodi e alle denunce per percosse e violenze.  La vastità del patrimonio archivistico di Conversano, riguardo a reati sia di natura sessuale sia di natura magico-superstiziosa, si spiega con la struttura dei tribunali del Regno di Napoli. Contrariamente a Nord e Centro Italia, che presentavano un sistema legato a molteplici tribunali locali direttamente dipendenti dalla Congregazione del Santo Uffizio,  questo era un sistema misto, articolato attorno agli ordinari diocesani, con giurisdizione territoriale. La struttura giudiziaria, dell’Italia meridionale, era una diretta conseguenza delle vicende avvenute nella prima metà del Cinquecento. Infatti, il tentativo fallito (a causa di proteste e moti popolari) d’introdurre l’Inquisizione Spagnola nel Viceregno di Napoli, attraverso un delegato del Supremo Inquisitore, analogamente rendeva impossibile anche la nomina di inquisitori scelti dal Sant’Uffizio. Si giungeva alla conclusione che i poteri sarebbero stati lasciati ai vescovi locali, nella realtà poco preparati e disposti a combattere l’eresia. Solo nel 1553 si raggiungeva l’effettivo compromesso, ovvero «ai vicari pro tempore degli arcivescovi napoletani fu conferito l’incarico di commissari delegati al coordinamento dell’attività inquisitoriale del Regno di Napoli».  Dunque per quanto concerne il Mezzogiorno, in seguito alla bolla Licet ab initio, veniva determinato che tutti i vescovi dovevano svolgere la funzione di delegati dell’Inquisizione Romana. Con ciò veniva lasciata in vigore l’attività svolta da quest’ultimi nelle loro diocesi, ma demandandola alle dirette dipendenze della Santa Sede. Ciò permetteva la gestione dal centro, forte e ben organizzato, della moltitudine di casi provenienti dai tribunali locali.  Accanto all’azione relativa alla repressione svolta dall’ordinario, quindi dal vescovo, veniva affiancata l’azione competente, e in parte anche concorrente, di un commissario – molto spesso un frate appartenente all’ordine dei domenicani – dell’Inquisizione Romana. Ciò portava complessivamente la giurisdizione vescovile locale, che doveva svolgere le ordinarie funzioni relative alla cura delle anime e alla repressione dell’eresia, a esercitare costantemente dietro le istruzioni del Sant’Ufficio.  Inoltre, la procedura dei tribunali della Curia vescovile seguiva quella usata nei processi inquisitoriali. L’iter era contraddistinto – durante tutto il suo andamento – dal promotore fiscale (che rappresentava la pubblica accusa), dalla segretezza degli atti, delle denunce, dei capi d’accusa e i nomi dei denuncianti. Mentre, per quanto riguardava il diritto alla difesa, a partire dal XVII secolo, si segnalava la presenza di un avvocato d’ufficio che era solitamente un funzionario ecclesiastico, tra l’altro membro dello stesso tribunale.

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