I selvaggi e la lettura psichiatrica del misticismo religioso in Italia nell’Ottocento: una narrazione nascosta


Abstract: Nella seconda metà dell’Ottocento, l’affermazione della psichiatria in Italia fu contemporanea alla nascita dell’antropologia, fortemente segnata da indirizzi razzisti e biologico-evoluzionistici, nel contesto culturale del nazionalismo e in seguito della febbre coloniale. Se la prima antropologia italiana ottenne dalla psichiatria e dalla psicologia positivista alcuni dei suoi strumenti concettuali, al contempo psichiatri e psicologi trovarono nel variegato mondo dei selvaggi degli spunti euristici decisivi per l’elaborazione teorica della malattia mentale e per l’interpretazione, spesso critica, di fenomeni allora in piena diffusione, come lo spiritismo.
In quei decenni finali del secolo, anche la psichiatria italiana contribuì, pur con le sue peculiarità, al processo di riflessione critica sulla santità cattolica, riconoscendo talvolta delle forme patologiche in talune manifestazioni del misticismo religioso. L’obiettivo del saggio è quello di aprire un primo varco su una pista finora ignorata negli studi relativi alla riflessione psichiatrica sui fenomeni del misticismo religioso. Se Cesare Lombroso, padre dell’atavismo, aveva collocato nello spettro del “genio”, individuo eccezionale ma degenerato, una numerosa schiera di santi e protagonisti della storia religiosa europea, come san Francesco d’Assisi, san Giovanni di Dio, Martin Lutero; lo psichiatra triestino Eugenio Tanzi, facendo leva sulla teoria dell’atavismo e sulla legge biogenetica fondamentale di Ernst Haeckel, mise in relazione la psicologia dei selvaggi/primitivi e dei bambini con la sindrome paranoica: i tre tipi erano legati da una peculiare modalità di esperienza e percezione del mondo e della realtà che Tanzi chiamava “misticismo”. Il tema della sensibilità rimanda, in modalità talvolta manifeste talaltra nascoste, a uno dei problemi su cui la psichiatria italiana ed europea si confrontarono con più intensità in questo periodo, quello cioè dei disturbi sensoriali, un campo decisivo per l’interpretazione del misticismo religioso.

In the second half of the 19th century, the assertion of psychiatry in Italy came along at the same time as the birth of anthropology, which was heavily highlighted by racist and biological-evolutionist criteria, stemming from the cultural context of nationalism and colonialist frenzy. Although earlier Italian anthropology derived some of its conceptual tools from positivist psychology and psychiatry, at the same time psychiatrists and psychologists took seminal heuristic cues from the varied world of savages in order to advance on the theoretical elaboration of mental illness and to explain, often critically, widespread phenomena such as Spiritism.
In the final decades of the century, Italian psychiatry contributed as well, albeit with its own specifics, to the process of critical consideration upon catholic sainthood, recognizing occasionally pathological conditions in some of the displays of religious mysticism. The purpose of the essay is to open a breach on a lead which was ignored up until now in the studies related to psychiatric consideration on religious mysticism phenomena. If Cesare Lombroso, founding father of Atavism, had placed in the spectrum of “genius”, an exceptional but degenerate individual, a vast array of saints and prominent figures of European religious history, such as Francis of Assisi, John of God and Martin Luther; Eugenio Tanzi, psychiatrist from Trieste, hinging on the theory of Atavism and on the fundamental biogenetics law by Ernst Haeckel, related the psychology of the savages/primitives and children with paranoid syndrome: all three types were tied together by a peculiar way of experiencing and perceiving the world and the reality, which Tanzi called “mysticism”. The issue of sensibility refers, sometimes in an evident manner, other times in hidden fashion, to one of the key problems Italian and European psychiatry heatedly debated during this period: the field of sensory disorders, which turned out to be pivotal for the interpretation of religious mysticism.

«Durante una breve mia dimora in quel villaggio, mi fu dato di assistere ai fenomeni dʼuna malattia che in quel tempo era epidemica fra le donne di Irupara. Roghena è il nome di una ragazza da me osservata in modo particolare. Essa era demente, non furiosa, ma stupida, vedeva spiriti dappertutto e parlava insensatamente, credeva che tutti volessero rubare gli oggetti appartenenti a suo marito e non riconosceva alcuno. A volte tornava in sé e parlava della sua malattia in modo sensato descrivendone i sintomi». Il villaggio cui faceva riferimento Lamberto Loria, naturalista ed etnografo, si trovava in Nuova Guinea. Nel breve resoconto apparso nel 1895 su «Archivio di psichiatria», Loria attribuiva una forma di isterismo – in quei luoghi, secondo lui, di natura epidemica – a due donne, poi guarite attraverso una serie di rituali, interpretati dallʼesploratore come di tipo esorcistico. Pur non avendo una formazione medica, Loria aveva evidentemente dimestichezza con alcune formule rientranti a pieno titolo nel linguaggio comune della disciplina psichiatrica dell’epoca: Roghena era “demente” ma “non furiosa”, ad ogni modo “stupida”. Essa era, in sostanza, pazza nella misura in cui «vedeva spiriti dappertutto e parlava insensatamente»: troviamo qui due elementi caratteristici del concetto di malattia mentale, cioè le allucinazioni e il delirio.

Questo breve testo getta luce su unʼimportante traiettoria che fece collidere lʼambito della religione con quello della psichiatria e della psicopatologia. In questa congiuntura storica, le intersezioni tra le nascenti antropologia ed etnologia e la medicina, la psicologia, la psichiatria, quasi sempre nella loro declinazione naturalistica e positivistica, sono un fatto accertato. Nel corso degli anni Sessanta dellʼOttocento, si era inoltre rinnovato e diffuso un paradigma destinato a influenzare la medicina e la psichiatria nei decenni successivi: la degenerazione. Alla fine degli anni Cinquanta, Bénédict Augustin Morel, psichiatra francese di fede cattolica, pubblicava il suo Traité des dégénérescences, in cui sosteneva che la malattia mentale è il risultato di un lungo processo di decadimento fisico e morale della specie umana, frutto di tare degenerative trasmesse da una generazione allʼaltra in specifiche famiglie di individui e che portavano, nei loro esiti ultimi, alla sterilità.

Altrettanto decisiva fu la categoria dellʼatavismo, elaborata da Cesare Lombroso negli ultimi lustri dellʼOttocento. Le differenze tra i due paradigmi, sebbene il primo ebbe certamente un’influenza decisiva nell’elaborazione del secondo, sono importanti.

Cesare Lombroso, in una immagine da p. 382 del “Wisconsin medical recorder” (1909)

In Morel, ad esempio, vi era lʼidea di unʼumanità originaria adamitica, perfetta perché opera del creatore che, nel corso dei millenni, si era via via corrotta; in Lombroso, laico, lʼatavismo non possedeva queste sfumature religiose, né vi era lʼidea di una perfetta umanità delle origini: piuttosto il contrario, dato che nellʼimpostazione lombrosiana si concepiva un progressivo miglioramento della specie. Vincenzo Ferrone ha d’altro canto osservato come nella cultura illuministica italiana del Settecento la formulazione rousseauiana del mito del buon selvaggio fu tendenzialmente rifiutata.

Il dato è interessante perché centrale, nelle repliche italiane a Rousseau, fu la consapevolezza che la cultura, il progresso economico, andando di pari passo con una giusta organizzazione della società, costituivano gli assi portanti di quel concetto di civiltà delineato sempre più in contrapposizione al cosiddetto buon selvaggio rousseauiano, considerato cattivo proprio perché incolto e quindi incapace di servirsi della scienza e delle arti come strumenti per raggiungere quel mito tutto illuministico della felicità in terra.

G.-Pirettidocx