Tracce della presenza iberica a Roma in età moderna. Percorsi, luoghi e vite. Introduzione

Tracce della presenza iberica a Roma in età moderna. Percorsi, luoghi e vite. Introduzione

Abstract:

Nella sua forma attuale questo dossier nasce dal travaglio della pandemia Covid che tanto ha mutato il nostro mestiere di storici e le abituali modalità di confronto della nostra comunità scientifica. Il numero monografico avrebbe dovuto accogliere una serie di testi, prodotti per un piccolo seminario previsto presso la British School at Rome nel marzo 2020, quando io ebbi il grande privilegio di essere il Baldsdon Fellow in quella prestigiosa istituzione di ricerca. Il titolo dell’incontro sarebbe dovuto essere Trasformati dalla Città Eterna/Trasformare la Città Eterna. Essere Straniero a Roma nel periodo moderno. L’idea era quella di riunire un piccolo gruppo di studiosi di varie sensibilità ed approcci attorno alla tematica dell’insediamento di comunità straniere nel tessuto urbano e sociale di Roma, nel tentativo di rispondere ad una serie di domande di fondo. Cosa significava essere straniero, forenses o alter nella Roma dei secoli XVI-XVIII? In quali modi gli stranieri si vedevano obbligati ad adattarsi a Roma, al suo secolare portato storico ed al suo ruolo di alma città? Allo stesso tempo, quale impronta lasciava Roma sul loro modo di essere e di rapportarsi e sulle varie sfaccettature della complessa sociabilità dei vari gruppi di stranieri? Inserirsi nelle dinamiche dell’Urbe era come inserirsi in quelle di una città qualsiasi o Roma, per sua stessa natura, esigeva da parte dello straniero una trasformazione più radicale? In che modo e in quale misura veniva eventualmente pagato questo tributo?

La finalità dell’incontro seminariale sarebbe stata quella di proseguire un’indagine aperta da altri lavori precedenti già impostati sul medesimo tema, ma con l’inserzione di nuovi spunti, derivanti dalla diversità metodologica dei relatori invitati.

La bibliografia di riferimento sul tema si è arricchita, negli ultimi anni, di alcuni titoli importanti quali sicuramente i volumi Venire a Roma, restare a Roma. Forestieri e stranieri fra Quatto e Settecento, a cura di Sara Cabibbo e Alessandro Serra (Roma, Roma trE-Press, 2018) e Le chiese nazionali a Roma 1450-1650, a cura di Alexander Koller e Susanne Kubersky-Piredda (Roma, Campisano editore, 2015). Di recente si è aggiunta poi l’importante pubblicazione Religious Minorities in Early Modern Rome, a cura di Matthew Coneys Wainwright e Emily Michelson (Leiden, Brill, 2021) che mette in luce la problematica delle minoranze religiose cristiane e non cristiane nella Roma moderna. Inoltre, corre assolutamente l’obbligo di ricordare come l’inserimento nel tessuto urbano da parte di comunità di stranieri nel periodo moderno sia stato affrontato in maniera esemplare da studiosi che costituiscono dei veri maestri, tra cui citiamo Ivana Ait, Matteo Binasco, Marina Caffiero, Eleonora Canepari, Anna Esposito, Irene Fosi, Susanne Kubersky-Piredda, Andreas Rehberg, Domenico Rocciolo e Matteo Sanfilippo. I lavori di questi studiosi sono diventati linee guida imprescindibili, pietre miliari da cui partire per rispondere a nuovi interrogativi.

Ad esempio, si può davvero e sempre considerare Roma come la patria comune di tutti quanti vi si recassero, la città che accoglieva tutti e nella quale tutti potevano trovare rifugio?

In realtà l’assimilazione non fu affatto così semplice per coloro che venivano da fuori. Benché, senza dubbio Roma offrisse a tanti la possibilità di reinventarsi, di impostare la propria esistenza in un modo radicalmente nuovo, di tornare ad essere presenti nel mondo, spesso cancellando il proprio passato o risolvendolo in un approccio differente, era pur sempre la sede della Chiesa Cattolica, dotata di una sua specifica identità civica e di secolari istituzioni ecclesiastiche preposte alla confessionalizzazione con cui doversi obbligatoriamente confrontare.

Questi erano alcuni dei quesiti intorno ai quali si sarebbe articolato il seminario che in effetti non ebbe mai luogo e che sono invece i cardini attorno ai quali ruotano gli studi presenti in questo numero monografico pubblicato su «Giornale di Storia» che, alla fine, si è incentrato su un gruppo specifico di stranieri, ovvero quello di spagnoli e portoghesi giunti a Roma tra il Cinque e Settecento.

I saggi che compongono il numero, dal titolo Tracce della presenza iberica a Roma in età moderna. Percorsi, luoghi e vite, si inseriscono in maniera specifica nei percorsi precedentemente tracciati da studiosi quali Justo Fernández Alonso, Micaela Antonucci, Maximiliano Barrio Gozalo, Diana Carrió-Invernizzi, David García Cueto, Francesca Curti, Miguel D’Almeida Paile, José de Castro, Claudio de Dominicis, Pilar Diez del Corral Corredoira, Thomas James Dandelet, Cristina Fernandes, Alvaro Fernández de Córdova Miralles, Pablo González Tornel, Michael J. Levin, Ana Paula Lloyd, Antonella Parisi, Bruno Pomara Saverino, Antonio Díaz J. Rodríguez, Gaetano Sabatini, Alessandro Serio, Manuel Vaquero Pineiro, Maria Antonietta Visceglia.

I cinque contributi che fanno parte di questo dossier presentano diversi percorsi di diplomatici, banchieri, uomini d’affari, prelati, artisti e committenti spagnoli e portoghesi che si intrecciano nel crocevia romano. Ogni saggio illustra le diverse modalità con cui questi soggetti interagivano con gli aspetti peculiari di questa città, con la sua carica spirituale e con la complessità dei suoi intrecci istituzionali.

Lo storico dell’arte Piers Baker Bates, che a lungo si è occupato dei rapporti artistici e culturali tra la Spagna e l’Italia nel periodo moderno, ha scelto di incentrare il suo testo sulle modalità con cui la presenza iberica ha lasciato la sua peculiare impronta sulla città. Tramite la committenza artistica, prelati spagnoli e la stessa monarchia iberica tra 1527 e 1665 hanno segnato l’urbanistica e la configurazione della città, con il loro sostegno economico per la costruzione di chiese e cappelle, spazi di memoria e celebrazione delle loro collettività. Così, tramite luoghi creati, festività ed espressioni artistiche importate, la Spagna ed il Portogallo hanno lasciato dei segni tangibili e permanenti nella struttura stessa di Roma e nelle abitudini di vita dei suoi cittadini. Pur senza abbracciare la tesi di Dandelet, così tanto discussa, di una vera e propria “Roma spagnola”, l’autore riconosce tuttavia l’importanza del peso della nazione iberica nella corte del papa nel periodo moderno, sia a livello geo-politico sia a livello del tessuto urbano. L’articolo affronta anche la questione della stessa identità iberica e della fondamentale ambiguità attorno al concetto di nazione spagnola, in un periodo in cui la Spagna ed il suo mondo erano soggette a trasformazioni radicali.

Partendo da un processo del Tribunale del Governatore ed inquadrandolo efficacemente nella storia sociale, John Hunt si occupa dei giochi d’azzardo che si svolgevano nella sede dell’ambasciata spagnola nel 1627. Le carte giudiziarie, che lo storico studia con meticolosa attenzione, offrono numerosi ed originali spunti di riflessione circa lo studio della presenza spagnola in città. Secondo la ricostruzione di Hunt lo spazio autonomo della sede diplomatica offriva una immunità che consentiva a vari soggetti di dedicarsi a questi giochi proibiti, in aperto contrasto con i progetti di riforma civica attuati dal pontefice Urbano VIII (1623-1644). La ricerca di Hunt restituisce voce ai protagonisti della vicenda, presentando efficacemente le complesse dinamiche delle loro interazioni e del corto circuito con il sistema penale romano. Il processo costituisce una fonte preziosa per comprendere il problema dei limiti del concetto di immunità diplomatica nel periodo moderno ed il suo sviluppo nella Roma barocca. Allo stesso tempo il saggio dimostra come nel Seicento, e soprattutto nella seconda metà del secolo, a Roma sorgessero, attorno alle sedi diplomatiche, dei veri e propri quartieri nazionali, divenuti in maniera piuttosto rapida permanenti, i più importanti dei quali furono proprio quelli castigliano e francese.

Marta Albalá Pelegrín, studiosa di letteratura spagnola, si occupa di un testo relativamente poco noto del vescovo Baltasar del Rio (1480-1541), d’origine converso, il Tratado de la corte romana stampato a Roma nel 1504. Il breve trattato, che costituisce una guida su come muoversi nell’Urbe per ottenere vantaggi e benefici in Curia e in generale presso la corte papale, era diretto a spagnoli, prelati e non solo, che cercavano di trarre un qualche tipo di vantaggio in quel particolare ambiente e dimostra una conoscenza intima degli interstizi di quel contesto. L’autrice del saggio colloca del Rio all’interno di un nutrito gruppo di iberici discendenti da ebrei convertiti che, esclusi e perseguitati in patria a causa della politica della limpieza de sangre, sfruttarono la permanenza a Roma per raggiungere una legittimazione socio-economica per loro stessi e per le loro famiglie rimaste in patria.

Anche Jacopo Curzietti, storico dell’arte, si occupa dei discendenti di ebrei convertiti a Roma, ma di origine portoghese. Nel suo articolo l’autore analizza il mecenatismo di prestigiosi e facoltosi committenti lusitani tra il Seicento e il Settecento, i Nuñez Sanchez, Fonseca e Sylva e arriva a dimostrare come, tramite la committenza per la realizzazione delle cappelle nelle chiese di San Lorenzo in Lucina e Sant’Isidoro a Capo le Case, essi siano riusciti a far costruire dei luoghi di memoria per le loro famiglie. Vittime di persecuzione e pregiudizi in patria dovuti alle loro origini, grazie alla scelta di ingaggiare importanti artisti cui commissionare cappelle di famiglia, riuscirono a ribaltare la propria immagine, costruendo con cura quella di cattolici dall’ortodossia indiscussa. In questa strategia la scelta di Roma, sede della Chiesa universale, non era ovviamente casuale ma funzionale al progetto. Appoggiandosi su fonti d’archivio di diversa tipologia e per lo più inedite, Curzietti riesce a ricostruire le vicende di questi importanti committenti, la rete dei circoli in cui si muovevano e i loro legami con i ceti più alti della società romana. Egli disvela dunque, una comunità a sé stante, con una fitta trama di contatti in grado di cogliere vantaggi perfino politici e sociali, non solo a Roma ma anche in Portogallo, nel contesto della radicale trasformazione dovuta alla Restauraçao e alla sua accettazione da parte della sede della cattolicità tra 1641 e 1669.

I cristiani nuovi portoghesi a Roma sono anche al centro del contributo della storica dell’architettura Giada Lepri. Il suo saggio si incentra sulla figura del facoltoso banchiere cristiano nuovo Antonio da Gama Padua deceduto nel 1705. Antonio giunse a Roma insieme alla famiglia, figlio del noto banchiere e uomo d’affari Manuel da Gama de Padua (1607-1679), conosciuto come rappresentante della causa dei cristiani nuovi portoghesi nella loro lotta contro l’Inquisizione in Portogallo e per essere uno dei vari agenti dei convertiti presenti a Roma nel periodo moderno. Grazie al ricco e dettagliato inventario post mortem, pubblicato in appendice, Lepri ricostruisce l’articolata trama affaristica di Gama de Padua dimostrando come, attraverso la gestione delle sue proprietà – un palazzo in via del Corso ed una vigna in via Salaria –, il mercante lusitano fosse riuscito ad inserirsi pienamente nella vita cittadina e si potesse considerare romano a tutti gli effetti. Il saggio invita poi a riflettere sulla complessa questione della doppia appartenenza: infatti, in virtù sia della scelta della particolare area di residenza in città, molto vicina a quelle degli altri facoltosi cristãos novos, sia dei rapporti che intratteneva con loro, risulta evidente quanto per un portoghese-romanizzato o romano d’origine portoghese come Antonio da Gama Padua, i legami con la patria e con le sue origini di cristiano nuovo non fossero mai dimenticate.

Questi ultimi tre contributi, sebbene molto diversi tra di loro per quanto riguarda la scelta dell’approccio, sono tutti incentrati sulla importante presenza di conversos a Roma; e non poteva essere diversamente. Lo studio di Spagna e Portogallo in età moderna infatti non può prescindere dall’esistenza della distinzione tra cristiani vecchi e nuovi, dal concetto di limpieza de sangre, dalla presenza di categorie di esclusione che, dal Quattrocento in poi, tanto pesarono sulla società iberica. L’insistenza su origini non contaminate da antenati o parenti ebrei in famiglia diventò una vera ossessione sia in Spagna sia in Portogallo. La presenza iberica a Roma non poteva non rispecchiare questo stato di fatto e, anche se il numero monografico non tratta specificamente dei conversos nell’Urbe, è necessario comunque fare un accenno a questo gruppo, nella misura in cui esso costituiva una minoranza importante, sebbene non omogenea.

Senza dubbio Roma, col suo peso spirituale, era una meta privilegiata per quanti, volessero palesare o acquisire una identità cattolica. La scelta della città eterna come meta per stabilirsi ed appropriarsi dei suoi spazi dava agli stranieri e alle loro famiglie legittimità sia nella stessa Roma sia fuori dai suoi confini. Questo fu ancora più vero proprio nel caso dei conversos che costituivano un gruppo discriminato in patria, con l’insistenza appunto sulla limpieza de sangre, causa delle numerose misure d’esclusione in vigore in Spagna ed in Portogallo tra Quattro e Settecento. Il passaggio a Roma per un periodo limitato della propria esistenza oppure come meta per inaugurare una vita nuova, fu strettamente funzionale alla cancellazione dell’esclusione sociale che gravava su di loro in patria, in un contesto, come quello romano, in cui il concetto di sangue “macchiato” o “pulito” non si era mai radicato. Veniva offerta loro la possibilità di reinventarsi e di acquistare anche nuove possibilità di crescita economica e di affermazione sociale, cassando in alcuni casi un passato ancestrale complicato e pieno di impedimenti. Nel caso poi di esponenti di casate particolarmente facoltose, la Città Eterna offriva la possibilità, tramite la committenza culturale, di realizzare luoghi di memoria attraverso i quali modificare la percezione pubblica di loro stessi.

 

I cinque studi raccolti in questo numero monografico contribuiscono ad arricchire il dibattito storiografico attraverso gli spaccati di vite fino ad ora poco conosciute o del tutto inedite che ci portano a riflettere sulle dinamiche con le quali si realizzava l’inserzione nel contesto romano e di come questa fosse il prodotto di un insieme intricato di negoziati che presupponevano un bilanciamento efficace di rinunce e guadagni. In sottofondo rimane preponderante anche la questione identitaria: cosa significava essere spagnolo o portoghese a Roma e cosa significava esserlo dopo due o più generazioni? I nostri cinque autori si pongono queste domande ed invitano i lettori a fare lo stesso.

La speranza è che la lettura di questi testi possa contribuire a porre nuovi interrogativi e a rileggere questioni storiografiche asseverate con una lente nuova.

 

Tra coloro che avrebbero dovuto essere presenti all’incontro romano di marzo 2020 c’è un caro e compianto amico e collega che rimane un grande assente per molti degli autori che partecipano a questo numero monografico: Roberto Fiorentini (1987-2019), infatti, in occasione del suo primo rientro in Italia dal nuovo e fruttuoso posto di lavoro a Washington presso la National Gallery, avrebbe dovuto essere tra i relatori. Stroncato da un malore mesi prima del nostro incontro, Roberto lascia un vuoto che ancora non siamo stati in grado di colmare. Per quanti ebbero la possibilità di conoscerlo, Roberto è stato un collega e amico di una generosità e bontà unica con una visione ampia del mestiere dello storico.

 

E a te, amico mio, dedico questo insieme di testi, con il grande rammarico che tu non sia tra gli autori.

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