Anacronismo della “questione ebraica”: riflessioni sugli ebrei, Marx e noi


Abstract:

Non mancano nel panorama della crisi che scuote le liberaldemocrazie da qualche tempo non solo in Europa, segnali preoccupanti di ripresa delle aggressioni antisemite, spesso nel contesto di un più ampio fenomeno di razzismo e di xenofobia, specie nei confronti dei migranti. Non è tuttavia di questo tema che mi occupo, ma di qualcosa che sotterraneamente collega questi fenomeni con la “questione ebraica”, quale l’ha vista e definita Marx nel 1843, quale la pensiamo e valutiamo noi oggi nel confronto con le sue  famose pagine giovanili, e alla luce oscura di quella Shoah che ha segnato il Novecento, che è ancora terribile patrimonio del nostro tempo, che Marx non ha conosciuto, ma che è stata ben presente nella storia dei marxismi, e anche di quello italiano. Spero di riuscire a dire in quel che segue dove trovo e leggo la infelice condizione dell’oggi per la vita ormai in pericolo delle istituzioni e della cultura liberaldemocratica, osservata dal punto di vista della cultura di sinistra, originariamente in prevalenza marxista, il cui capostipite è appunto il fatale libretto marxiano sulla Questione ebraica.

Il mio è essenzialmente un discorso sul tempo storico della “questione ebraica”, anzi, meglio, sul modo in cui il tempo, e un certo modo di interpretare il tempo storico, a partire dal nostro oggi, può consentirci la comprensione di una Frage, rimasta impantanata e quindi chiusa in una pesante ambiguità e in una cecità interpretativa, in qualcosa che per essere contrastato richiede la condivisione di una teoria del tempo storico (generale e specifico) essenzialmente non storicista e non continuista. Mi limito ad osservare, introduttivamente, che nella “questione e ebraica”, a partire da Marx, l’ebreo risulta singolarmente nascosto, deformato, occultato, non visto o meglio visto come ‘altro’ da sé. Nell’atto stesso in cui pure se ne parla, gli si imputano incomprensioni e lo si carica di attese futurologiche, lo si mette a tema come presente su una linea del tempo storico che lo consegna alla superficie del riconoscimento politico esso cui mira, ma che ospita nel suo rovescio futurologico le condizioni reali e simboliche della rottura rivoluzionaria del mondo borghese-cristiano-ebraico e religioso in generale. Ora, osservare, nel modo critico di cui stiamo indicando, la via di una possibile rottura ermeneutica, la “questione ebraica” di Marx e le sue derive novecentesche nei marxismi (dove l’occultamento dell’ebreo si ripropone non senza qualche scivolata di pericolosamente inconsapevole, rozzo, non voluto e non saputo antisemitismo) non consente di trascurare come elemento centrale un qualche rapporto molto stretto e significativo con l’“indifferenza” verso gli ebrei di cui Liliana Segre ha parlato come dell’atteggiamento che ha segnato i non ebrei e la società civile fascista o a-fascista (e anche in parte post-fascista) al momento dell’approvazione delle leggi antiebraiche in Italia nel 1938, che ha contrassegnato una parte essenziale della cultura di sinistra del Novecento Italiano e che, infine, ecco il punto, evoca potentemente e sinistramente l’occultamento culturale – e pratico – dell’ebreo e degli ebrei, di cui ho parlato.

F.-Trincia