Livio Ciappetta, La zingara, l’erborista e lo schiavo. L’Inquisizione a Maiorca (1583-1625), Aracne, 2010



Livio Ciappetta, La zingara, l’erborista e lo schiavo. L’Inquisizione a Maiorca (1583-1625), Aracne, 2010
Abstract: Il libro di Livio Ciappetta sull'attività dell'Inquisizione a Maiorca rappresenta un contributo di storia sociale volto a offrire agli studiosi lo spaccato di uno dei tribunali meno indagati dalla storiografia sull'Inquisizione, ma soprattutto a delineare il profilo di una comunità nei suoi addentellati con territorio, tradizioni e pratiche magiche.

 

Il libro di Livio Ciappetta sull’attività dell’ Inquisizione a Maiorca rappresenta un contributo di storia sociale volto a offrire agli studiosi lo spaccato di uno dei tribunali meno indagati dalla storiografia sull’Inquisizione, ma soprattutto a delineare il profilo di una comunità nei suoi addentellati con territorio, tradizioni e pratiche magiche.

Lo studio, che osserva l’attività dell’Inquisizione del regno delle Baleari nel periodo che va dal 1583 al 1625 – resta fuori dall’ambito cronologico scelto dall’autore il celebre caso di marranesimo dei chuetas di Maiorca, della seconda metà del Seicento, già ricostruito dagli storici –, è sostenuto da uno sforzo di indagine frutto di una solida ricerca archivistica, che si è concentrata soprattutto sul fondo Inquisicíon del tribunale inquisitoriale di Maiorca, conservato presso l’Archivio Storico Nazionale di Madrid; in particolare le cosiddette relaciones de causas, le fonti che hanno consentito di delineare il rapporto di questa specifica comunità con l’universo magico. Ciappetta, che si cimenta in una ravvicinata analisi di alcuni processi, mostra pure particolare attenzione alle numerose prospettive emerse dal più recente dibattito storiografico. Nel concentrare l’osservazione sui reati di magia il suo sguardo è chiaramente orientato alle fonti inquisitoriali; dall’analisi di questa particolare tipologia di documento egli sa costruire una trama testuale che muove dall’interpretazione poli-causale dei fenomeni magico-stregoneschi, di cui non rinuncia a restituire la complessità ermeneutica.

Ciò che, preso atto dell’eclissi della proposta metodologica raccolta in passato dalla sociologia e dall’antropologia – che hanno a lungo rappresentato l’istanza di una lettura dall’alto, o dei “ceti dominanti”, in relazione a una vicenda intesa come storia eminentemente repressiva del fenomeno stregonesco –, consente all’autore il fecondo passaggio dalle voci degli inquisitori che hanno materialmente redatto i verbali e le sentenze, alla comunità, in un progressivo approdo verso la dimensione del “sociale” che è operato con la perizia di chi compie dei carotaggi in grado di trapassare il magma consolidato della narrazione ufficiale delle fonti inquisitoriali. Sfuggire a questa morsa, percepire la maggiore articolazione di fenomeni ascrivibili al più ampio discorso sulla funzione della magia all’interno della società maiorchina, equivale dunque a ricostruire l’ «ambito sociale in cui maturarono inchieste e sentenze» al fine di intercettare quelle informazioni «altrimenti oscure all’interno di una relacíon». Inchieste e sentenze che, nel caso di Maiorca, e nonostante l’oggettiva esiguità dei processi, testimoniano di un ricorso al magico che risulta essere diffuso e condiviso.

Dalla lettura dei sette capitoli che compongono il libro si scorge certamente la specificità di casi tutti interni a una piccola comunità, ma anche il contrappunto operato dallo studioso col più ampio contesto spagnolo; e ciò è restituito al lettore per mezzo di una scrittura che sa comunicare un chiaro e personale entusiasmo per la disciplina storica, evidentemente frutto di una ricerca che si è rivelata densa di implicazioni.

Il volume analizza preliminarmente il rapporto del tribunale dell’isola con Madrid, definito «costante e rigoroso», ma anche la condizione del tribunale periferico «attanagliato da ristrettezze economiche e vessato da altre istituzioni» nel più ampio sistema polisinodale della Suprema. Particolare attenzione è poi riservata alla descrizione delle relaciones, al ruolo che queste fonti hanno avuto nella ricerca, ma anche a quella che è stata la necessità di integrare i dati delle relaciones con le instrucciones del consiglio dell’Inquisizione e con i manuali ad uso degli inquisitori. Una volta affrontate le questioni metodologiche, la trattazione si addentra nello specifico degli aspetti relativi all’attività di questo istituto inquisitoriale, che rappresenta effettivamente l’aspetto più suggestivo e personale del lavoro; l’autore ricostruisce con attenzione il dibattito sulla farmacopea magica – ripreso in parte da José Pardo Tomas –, che viene qui però piegato all’esigenza di spiegare le dinamiche della società maiorchina, una società isolana «fortemente legata alle opportunità fornite dalla magia» ; ciò che, va da sé, conferma una volta ancora come non solo la farmacopea ufficiale, la medicina e la magia fossero diffuse e sostanzialmente originassero da un comune cosmo magico, ma come la vera differenza tra esse consistesse sostanzialmente «nell’autorizzazione a procedere, prima ancora che nel grado di conoscenza che pure spesso non era tanto diversa tra un cerusico condannato e un ipotecario autorizzato» (p. 63).

Quanto alle conclusioni che si possono trarre dai processi in cui a Maiorca apparve l’accusa di rabdomanzia, pure esse appaiono tutt’altro che scontate. Il rapporto col demonio è il maggiore capo d’imputazione in questi procedimenti giudiziari, anche se in almeno due circostanze specifiche l’accusa di rabdomanzia stava all’origine stessa della condanna degli imputati: le vicende processuali dell’artigiano Pere Camps e del contadino Bartolomè Nadal, che si svolgono tra il 1587 e il decennio successivo, si concludevano con l’allontanamento forzato del primo da Maiorca e con l’imposizione dell’abiura de levi per il secondo. In questo frangente, come osserva Ciappetta, sembra evidente che l’esperienza magica si manifesti «soprattutto quando le conoscenza tecniche si dimostrano inadeguate per far fronte alle necessità quotidiane», che il ricorso all’uso delle arti magiche, piuttosto che essere casuale sia piuttosto dettato da «necessità oggettive» (p. 76). E analoghe necessità oggettive, una sorta di “residuo fisso” del mai sopito elemento magico e pre-razionale, che rimandano a ciò che si pone come inassimilabile rispetto alle foucaultiane strutture tecniche di potere mirate al dominio analitico della realtà, si celano pure dietro alle ragioni della presenza gitana a Maiorca. Appena cinque sono i processi celebrati contro le gitane, scaturiti tutti da iniziali accuse di frode. Cittadine del regno delle Baleari, donne di un’età compresa tra i diciotto e i ventotto anni, «la loro conoscenza delle arti magiche è così profonda e articolata che è lecito supporre ne facessero un uso quotidiano» ; sono ai margini, certamente, ma rispettate e ascoltate. Vigila su di esse la legislazione dei tribunali laici ed ecclesiastici. Difficile appare in questo contesto il ricorso al fenomeno del pauperismo per spiegare la relazione tra ‘frode’ e ‘magia’. Piuttosto, per comprendere il ruolo delle gitane occorrerebbe invece osservare più da vicino i «varchi e consensi» che esse sanno riscuotere nel tessuto sociale, ciò pur tra la generale diffidenza. Ed è altrettanto interessante l’osservazione delle dinamiche che emergono dai processi intentati nel 1597 a dodici donne, le hermanas appartenenti alla Casa della piedad, un istituto di assistenza ai poveri le cui regole costrittive stavano all’origine di alcuni atti di insubordinazione che nei verbali si sarebbero concretizzati in accuse di blasfemia, eresia e superstizione. Ciò che importava in questo caso, osserva l’autore a conclusione dell’analisi delle carte processuali, era «demolire la ribellione e le sue protagoniste, instaurando meccanismi di delazione, accuse reciproche, benevolenza nei confronti delle testimoni e severità contro le ostinate» (p. 142).

Ma è forse la disamina dei processi intentati tra il 1578 e il 1611 contro alcuni presunti cercatori di tesori a lasciare intravedere più che altrove nel libro il duro sedime che si pone allo sguardo di chi si accinge a riportare alla luce quanto nascosto tra le carte inquisitoriali. Si tratta in questo caso di cinque persone appartenute ad ambiti sociali differenti, un commerciante, un cuoco, un notaio, un artigiano e uno schiavo ebreo. Se le pene sono «tra le più lievi mai comminate dal tribunale maiorchino», la lettura delle relaciones de causas permette in questo caso di investigare ulteriori elementi di interesse circa la «commistione profonda tra culture e rituali di diversa origine». In questo frangente, un libro che diviene strumento cardine di un rito finalizzato al ritrovamento del tesoro, scritto in parte in arabo e in parte in spagnolo, indurrebbe a interrogarsi sulla questione del rapporto con le altre religioni, in particolare coi mori, che nell’arco di alcuni anni sarebbero stati espulsi dalla Spagna: «i cristiani che intendono praticare arti illecite necessitano del sostegno di ebrei e mori, ed è esattamente ciò che accade in questo processo». L’ipotesi di classificare un «sincretismo magico – scrive Ciappetta – sembra plausibile, e testimoniata dall’abbondante materiale processuale» (p. 154). L’aggrovigliata questione della trasformazione «dalla Spagna delle tre religioni alla Spagna inquisitoriale», parafrasando il titolo di un capitolo della storia dell’Inquisizione spagnola di Joseph Pérez, richiede dunque uno sforzo continuo di ampliamento tematico e di aggiornamento della ricerca storiografica non soltanto in funzione dell’attenuazione dell’ipotesi di un’originaria e relativamente pacifica convivenza tra le tre fedi monoteiste nella penisola iberica prima che la Suprema si affermasse col suo controllo capillare, ma anche dell’analisi nel lungo periodo delle “forme” della loro persistenza e delle reciproche mutuazioni culturali.