La fabbrica dei falsi ovvero la fantastoria templare della sindone di Torino
Che tra «un’affermazione falsa, un’affermazione vera e un’affermazione inventata» non sussista, «dal punto di vista formale, alcuna differenza» – lo ricordava Carlo Ginzburg in una frase lapidaria opportunamente citata da Andrea Nicolotti come epigrafe al terzo capitolo del libro (I Templari e la Sindone. Storia di un falso, Prefazione di Malcolm Barber, Roma, Salerno editrice, 2011) che qui si discute – è un’evidenza logica ed epistemica sempre soggetta al rischio letale di fraintendimento per dolo, per inavvertenza ovvero per insipienza. Come scrisse Alessandro Manzoni, citato ancora da Nicolotti sempre in esergo al primo capitolo del suo lavoro, «anche del verosimile la storia si può qualche volta servire» purché lo faccia «nella buona maniera» ossia «distinguendolo dal reale». In effetti, la «forma più insidiosa di inganno» di cui lo storico possa rendersi artefice o complice non è tanto il «contrario della verità, brutale, a tutto tondo» bensì «il rimaneggiamento sornione: interpolazione di carte autentiche, abbellimenti con dettagli inventati, nella narrazione, su uno sfondo tutto sommato veritiero».
Queste ultime osservazioni di Marc Bloch si attagliano perfettamente ai percorsi sinuosi e cangianti della cosiddetta sindonologia, che Andrea Nicolotti si propone qui di vagliare delimitandone il campo, da un lato, alla declinazione autenticista, che è poi quella di gran lunga prevalente, per non dire esclusiva, specie nei periodi di addensamento dei fumi occasionati dalle solenni ostensioni della reliquia torinese, ultima quella del maggio 2010; dall’altro – ed è l’aspetto qualificante la scelta di campo epistemologico e disciplinare dell’opera – alle sole fonti e agli studi di carattere storico e storiografico. Si escludono dunque dall’ambito di verifica le ricerche chimico-fisiche che, a partire dal celebre negativo fotografico di Secondo Pia (1898), ma in particolare negli ultimi decenni, hanno preso in esame il tessuto conservato all’interno del duomo di Torino, e ancor oggi ritenuto da molti il lenzuolo funerario in cui fu avvolto e sepolto il cadavere di Gesù, recando miracolosamente impresse le fattezze terrene del Nazareno sfigurate dalla flagellazione e dalla crocifissione.
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