Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita (Viella, 2020)

Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita (Viella, 2020)


Massimo Baioni, Vedere per credere. Il racconto museale dell’Italia unita (Viella, 2020)
Abstract:

Massimo Baioni, professore di Storia contemporanea al Dipartimento di Studi storici dell’Università di Milano, è uno degli studiosi più innovativi sulla storia italiana dell’Otto-Novecento, con una predilezione sui nessi tra politica e cultura e sul variegato mondo dei rituali e della memoria collettiva. Ha già dato alle stampe testi importanti come Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista (Carocci 2006); Risorgimento conteso. Memorie e usi pubblici nell’Italia contemporanea (Diabasis 2009); Le patrie degli italiani. Percorsi nel Novecento (Pacini 2017).

Il suo ultimo volume ha un centro, un “problema” storiografico, ben preciso: il ruolo svolto, dalla loro nascita ad oggi, dai Musei storici del Risorgimento, studiati come parte, non secondaria, delle dinamiche di costruzione dell’Italia unita e dell’identità nazionale degli italiani. Nei cinque capitoli in cui si dipana, il testo ci parla di Storia collettiva e di molte “storie” individuali connesse tra loro conservando sempre una compattezza narrativa e metodologica. Ci troviamo così a leggere, di capitolo in capitolo, una singolare e affascinante storia della nascita dell’identità nazionale degli italiani: dopo aver fatto l’Italia era necessario fare gli italiani, superando le differenze statuali e regionali di antico regime, il contrasto con la Chiesa di Pio IX e gli stessi contrasti interni al mondo risorgimentale, diviso tra moderati e sinistra, tra monarchici e repubblicani, tra vincitori (Vittorio Emanuele III, Cavour, il Garibaldi del compromesso con i Savoia) e gli sconfitti, come Mazzini, Cattaneo e Pisacane. I musei storici servirono a questo, le classi dirigenti del nuovo Stato li promossero per creare una condivisione che andasse al di là delle élites e raggiungesse tutti i ceti, tutte le generazioni. Di fronte a una popolazione composta in larga parte da analfabeti “vedere per credere” appariva una forma ideale. I musei del Risorgimento si riempirono così di documenti storici che legittimavano la veridicità degli eventi, tra cui figuravano anche quadri e cimeli guerreschi e tutto ciò che potesse santificare gli eroi e i martiri di una “religiosità” laica che usava gli stessi stilemi narrativi e le stesse immagini del cristianesimo per legittimare nel profondo delle coscienze la fede di una patria unita.

Il volume ricostruisce la Geografia museale di questo storia e memoria del Risorgimento che si diffuse nel territorio. Un trampolino di lancio fu nel 1906 il Primo Congresso di Storia del Risorgimento. In vista di tale occasione fu realizzato un censimento che individuò 26 musei, di cui 22 nell’Italia centrosettentrionale (compresa l’Emilia Romagna), 6 in quella centrale, uno solo nel sud, a Palermo. Baioni chiarisce le motivazioni, non così ovvie come potrebbe sembrare a prima vista, della discrepanza tra Nord e Sud del paese, un tema su cui sarebbe utile riflettere anche oggi pensando ai movimenti neoborbonici che il Risorgimento ancora non l’hanno digerito.

Il “racconto museale” del Risorgimento proposto da Baioni non elude la vexata quaestio su quale inizio e quale fine ha il Risorgimento, muovendosi tra mito e storiografia. In Quale Risorgimento (pp. 53-57) riassume le varie ipotesi, dalle più ampie che lo fanno partire all’inizio del Settecento, in una logica molto sabaudo-centrica, a quelle più ristrette, legate ai moti del 1820-1821. Tornando ai musei, la storia di quelli sul Risorgimento aveva avuto un precedente nel grande Padiglione storico di Torino nel 1884, prima messa in scena di un “Risorgimento in cammino”, primo luogo della memoria pubblica nazionale e, come scrive Baioni, «paradigma espositivo destinato ad una prolungata fortuna». I successivi musei risorgimentali cercarono di inserirsi in un mondo in veloce cambiamento economico e tecnologico, come mostravano le Grandi esposizioni internazionali. La fede nell’epopea risorgimentale si è ormai trasformata, l’evento da fatto storico limitato è sempre più un mito fondatore di lunga durata, il tempo della “rinascita” dopo secoli di dominazioni straniere. L’Italia era finalmente “risorta” grazie alla “novità” di uno Stato unitario ma insieme al sentimento “antico” di una preesistente “italianità”, da secoli di una comune lingua, quella della triade Dante-Petrarca-Boccaccio, e di letteratura, arte, architettura, cultura in senso lato. A questo lungo passato culturale il melodramma ottocentesco aveva fornito, per così dire, musica e parole.

Nel capitolo su Musei in guerra, 1911-1918, si dà conto anche del dibattito storiografico, e ideologico-politico, sulla Prima Guerra mondiale con la conquista di Trento e Trieste e per questo considerata Quarta Guerra d’Indipendenza. I capitoli 4 e 5 del libro riguardano una dimensione, e una immagine, di post-risorgimento che incrocia il fascismo, con i suoi usi e abusi della Storia, le sue diverse anime e il ruolo specifico di Mussolini rispetto a giudizio e storia del Risorgimento. Fondamentale fu, scrive Baioni, la grande Mostra della Rivoluzione fascista del 1932, un modello ideale, e peraltro in parte poi disatteso, per i successivi musei storici. Emerge la figura di Antonio Monti, che diresse il Museo del Risorgimento di Milano dal 1925 alla caduta del regime, rappresentando un tramite per la fascistizzazione, anche attraverso l’uso del Risorgimento, di una storia d’Italia riletta come innegabile destino verso la “rivoluzione” fascista. La massa di visitatori, a Milano come in altri musei del Risorgimento, dalle famiglie alle scolaresche, dovevano mettere in sintonia Duce e Risorgimento. Caduto il regime, con la tragica prova dei fatti della Guerra e il “nuovo Risorgimento” dei partigiani, l’Italia repubblicana tornò a rileggere il Risorgimento e a occuparsi dei suoi Musei che entrarono in una nuova fase, in cui l’ottica diventò studiare e capire i legami tra il Risorgimento e la Repubblica democratica.

In generale, i musei hanno rappresentato una delle principali modalità di diffusione di valori condivisi da parte della popolazione, accanto alle mostre, all’architettura, alle statue di eroi e martiri, alla toponomastica cittadina e alla scelta di nomi di battesimo legati al Risorgimento, in una prospettiva di conciliazione che cercò via via di allargare le inclusioni, non senza contrasti ideologici. Ne cogliamo ancora oggi una traccia girando per i centri storici di tutte le città italiane, con le precoci vie e statue dedicate ai Re d’Italia e a Cavour ma presto anche a Garibaldi e, “persino”, a Mazzini. Contemporaneamente i principali protagonisti del Risorgimento sono stati nei musei al centro di una sorta di venerazione laica, in una dimensione quasi onnivora che a lungo ha reso tutto degno di essere visto, si pensi all’ultima pezzuola usata da Cavour sul letto di morte o alla ciocca di capelli di Manara.

Se le vicende delle tre capitali del Risorgimento (Torino, Firenze e “finalmente” Roma) hanno avuto un ovvio spazio museale, Baioni si sofferma anche su città di provincia, come ad esempio Macerata a cui egli dedica diverse pagine. Qui fu importante l’azione svolta dai due fratelli Spadoni, Domenico e Giovanni, studiosi di orientamento socialista che dettero quindi una impronta laica al museo e, al temo stesso, scelsero con rigorosa attenzione la documentazione da immettervi. La data non casuale di inaugurazione fu il 20 settembre 1907 ma la vera apertura avvenne solo nel 1909 quando la vittoria dell’alleanza clerico-moderata deluse le attese di Domenico Spadoni.

Il libro è anche una riflessione su altre forme di Museo storico e sui legami tra musei e Public History, una novità degli ultimi anni che sta ottenendo un vasto successo, coinvolgendo sia storici sia altri addetti ai lavori, a cominciare da musei e scuole, e anche qualche critica che Baioni segnala rilevando a volte le discordanze tra teoria dei Public Historians e prassi, con alcuni rischi di confusione tra memoria e storia nel loro “narrare la storia con il pubblico”.

Il libro si conclude con una riflessione su Scenari e sfide del nuovo secolo (pp. 241-252). Vi si parla di M9, l’ipertecnologico Museo di Storia del Novecento di Mestre, e di altri nuovi musei di storia contemporanea nati negli ultimi anni in Europa, temi oggi studiati con grande intelligenza e finezza da Ilaria Porciani. Siamo in una dimensione, museale e storiografica figlia dell’attuale, complicata, fase di costruzione di una nuova identità europea. Chi scrive pensa che la bella mostra svoltasi a Torino nel 2011 presso le Officine Grandi Riparazioni, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, abbia dimostrato l’importanza della presenza di storici di professione sia in occasioni simili sia nel progettare nuovi musei a carattere storico, o rinnovare quelli esistenti, accanto ovviamente ad altre competenze. Ricordo che nella mostra torinese del 2011 fu centrale il ruolo di Walter Barberis e Giovanni De Luna e storici erano anche alcuni dei consulenti.

All’inizio della sua Premessa Baioni ha scritto: «Il libro si presenta così come una storia sui generis dell’Italia contemporanea». L’obiettivo è stato sicuramente raggiunto e, va detto, anche grazie ad una scrittura sempre scientificamente controllata senza diventare mai noiosa in virtù al riferimento, continuo e pertinente, a numerose fonti utilizzate e ad un’ampia bibliografia, non esibita ma realmente utilizzata.