Tommaso Baris, Andreotti una biografia politica. Dall’associazionismo cattolico al potere democristiano (1919-1969) (Il Mulino, 2021)

Tommaso Baris, Andreotti una biografia politica. Dall’associazionismo cattolico al potere democristiano (1919-1969) (Il Mulino, 2021)


Abstract:

2 agosto 1957: un cinegiornale Luce racconta l’inaugurazione dell’acquedotto degli Aurunci a Lenola. Gli investimenti della Cassa del Mezzogiorno hanno consentito al piccolo comune dei monti Lepini di ricevere finalmente, per la prima volta, l’acqua corrente, che il regime fascista aveva soltanto promesso e la guerra, feroce in quelle contrade, impedito. La figura del giovane ministro Giulio Andreotti si muove a piedi tra la folla, accanto a quella di Pietro Campilli. Non c’è nulla di marziale e di eroico nella sua presenza. Appare piuttosto come un dimesso politico del fare, in mezzo a cittadini comuni, quasi dei fratelli minori. La sua sollecitudine non cerca elogi. Vuole confermare agli elettori che tradizione e modernità possono senz’altro conciliarsi. Andreotti appare cioè l’icona di un partito che si candida alla guida di una modernizzazione tranquilla, senza avventure, dell’Italia.

Tra gli episodi raccontati da Tommaso Baris nel volume Andreotti. Una biografia politica. dall’associazionismo cattolico al potere democristiano (1919-1969), Il Mulino, 2021, questo appare particolarmente pregnante, perché si colloca alla vigilia di una svolta nella carriera politica di Andreotti – risulterà essere il più votato nelle elezioni politiche del 1958 – e perché esprime lo stile di un vincolo tra il politico e la sua base elettorale tipico nell’ancora giovane Repubblica. Ma anche perché scavando le radici del potere andreottiano nei solchi della sua terra d’origine, l’autore, docente di Storia contemporanea all’Università di Palermo, nel 2011 aveva già prodotto una robusta ricerca per i tipi di Laterza, dal titolo C’era una volta la Dc. Intervento pubblico e costruzione del consenso nella Ciociaria andreottiana (1943-1979).

In questo nuovo libro egli si cimenta in un’impresa non facile, consegnando ai lettori e agli studiosi una prima ricognizione biografica complessiva e scientifica, sino al 1969, di una figura di grande importanza per la storia repubblicana. Di recente sono apparsi diversi studi su singole vicende e settori del vasto impegno civile e politico di Andreotti nella politica italiana ed internazionale. Tra gli altri, il volume curato da Massimo Bucarelli e Silvio Pons sui legami Gorbačev (Edizioni di Storia e Letteratura 2021); I diari degli anni di piombo: 1969-1979, a cura di Serena e Stefano Andreotti (Solferino 2021); il volume a cura di Mario Caligiuri su Andreotti e l’intelligence nella guerra fredda (Rubbettino 2021), quello di Augusto D’Angelo, per i tipi di Studium, sulla Chiesa e la solidarietà nazionale, e un numero monografico della rivista «Ventunesimo secolo» su Andreotti e la politica estera italiana negli anni Ottanta. In questi contributi e nel libro di Baris si avverte con forza la solidità della base documentaria sulla quale si possono finalmente poggiare le interpretazioni degli storici. Quella di un immenso archivio, conservato presso l’Istituto Luigi Sturzo di Roma e – giova sempre ricordare che l’acribia degli archivisti è una delle forze motrici della ricerca storica – curato, su intelligente impulso della famiglia, da Luciana Devoti. Sessanta pagine di note al testo, riguardanti sia documenti d’archivio sia volumi e riviste e giornali di grande diffusione ma anche a circolazione molto limitata, bastano a far capire che siamo fuori dalla divulgazione, dalla memorialistica, dall’aneddotica.

Nel caso di Andreotti, questa fuoriuscita dalla cronaca è un’impresa nell’impresa, tali e tante sono le immagini e gli stereotipi che si sono sovrapposti alla sua personalità, in un coacervo di luoghi comuni, calembour, espressioni proverbiali e condanne spietate attorno alle quali, specialmente negli ultimi anni della vita, lo stesso diretto interessato non ha mai nascosto o perso l’abilità a gigioneggiare.

L’interpretazione rigorosa ed equilibrata del primo mezzo secolo di vita di Andreotti offerta da Baris presenta elementi nuovi per leggere diversi passaggi del suo percorso politico, in una tessitura complessiva che intreccia l’osservazione delle scelte che egli compie con l’evoluzione delle vicende italiane e del contesto internazionale. La complessità e, talvolta, l’ambivalenza di una personalità troppo spesso identificata con la maschera del potere, vengono così risolte dentro un quadro ancor più ampio ed articolato, nell’esplicita consapevolezza di non poter tracciare un ritratto univoco e definitivo. È quanto hanno provato a fare, negli ultimi anni, anche altre ricognizioni biografiche, apportando un sicuro arricchimento alla storiografia dell’Italia repubblicana. Cito, a titolo di esempio, la biografia di Aldo Moro scritta da Guido Formigoni.

Mondo cattolico, vita di partito, attività di governo: la carriera di Andreotti viene ricostruita da Baris intersecando queste tre dimensioni del suo impegno, in un costante confronto tra l’elaborazione di un pensiero, sedimentata in un cospicuo numero di articoli, e la prassi, realizzata con scelte e svolte incisive nella parabola del partito democristiano.

La formazione di Andreotti nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, sinora intuita per sommi capi dagli studiosi, viene ben documentata, dimostrando come la dimensione della sua partecipazione al mondo cattolico non vada ridotta ad una mera provenienza, a una sorta di apprendistato, ma ad un’adesione piena e duratura. Poteva, non essere così, per almeno due ragioni. La prima è che egli stesso non riteneva che l’impegno politico, almeno sino all’incontro con Alcide De Gasperi, potesse essere una strada di realizzazione del proprio talento; si aggiunga che le sue scelte di studio, a cominciare da quella della facoltà di Giurisprudenza, e dei primi impegni professionali furono piuttosto dettati dall’urgenza di sostenere economicamente la propria famiglia che da un’autentica vocazione. La seconda, ancor più significativa, è che la Fuci, nel momento in cui Andreotti vi entra, aveva pressoché smarrito l’indole che un decennio addietro l’aveva condotta allo scontro aperto con il fascismo. L’orizzonte della Fuci dopo il 1938 è infatti quello di un’associazione ormai tutta indirizzata alla formazione religiosa dei propri aderenti, radicata nella pastorale diocesana, incurante della politica politicante, orientata a un lealismo, anche formale, verso la patria prossima a imbracciare le armi nella guerra mussoliniana.

Gli studi degli ultimi anni e, da ultima, la pubblicazione del primo volume dell’Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, consultabile al link https://aldomorodigitale.unibo.it/, che precede immediatamente Andreotti come presidente nazionale della Fuci – hanno contribuito a gettare nuova luce su questo peculiare milieu del movimento cattolico, decisamente diverso rispetto ai più noti – e certo più esuberanti – trascorsi della Fuci di Montini e di Righetti.

Per lungo tempo gli studiosi hanno posto la lente sul comportamento dei cattolici italiani durante gli anni Trenta e i primi anni Quaranta considerando le loro vicende come racchiuse entro una lunga parentesi tra la tramontata esperienza del Partito popolare e quella nascente della Democrazia cristiana, verificando quanto della prima fosse sopravvissuto, sotto traccia, in quel lungo intermezzo che preludeva alla seconda e reperendo le testimonianze sepolte sotto la coltre del consenso al regime che aveva conquistato le masse durante il ventennio. Nuove ricerche hanno invece posto l’obiettivo sulle macroscopiche mutazioni subite o compiute dal cattolicesimo in quegli stessi anni. Tra di esse lo sviluppo dell’Azione cattolica e del laicato organizzato durante il pontificato di Pio XI, la mobilitazione delle masse, il nuovo rapporto con lo Stato dopo la Conciliazione, l’aggiornamento degli strumenti e dei progetti culturali dei cattolici per “entrare” nella società, l’adeguamento concettuale alle nuove realtà economiche e industriali. La documentazione che Baris indaga conferma che anche il passaggio di Andreotti nel laboratorio di formazione della classe dirigente cattolica che è stata la Fuci è immerso in questo guado anzitutto culturale del mondo cattolico, in questa profonda cesura col passato. Il rifiuto della virilità superomistica del regime, il ripudio del mito della violenza catartica della guerra, la difesa di un’autonomia culturale della Fuci rispetto al fascismo: le considerazioni del giovane Andreotti attorno a questi temi confermano il lento ma inesorabile distacco degli intellettuali cattolici, su un piano spiccatamente morale e, solo in seguito, politico dal regime.

Ma c’è anche un’altra ragione per la quale il pensiero e gli scritti di Andreotti su «Azione fucina» – da lui diretta – offrono un punto di chiarificazione sul passaggio della cultura cattolica dal fascismo alla democrazia. E anche qui lo studio di Baris conferma un’importante acquisizione della storiografia recente. È infatti ormai accertato che il passaggio di Andreotti dalla militanza nel movimento cattolico a quella nel nascente partito democristiano abbia rappresentato non già un modello della naturale, persino scontata confluenza della nuova generazione nel progetto degasperiano, ma una vera e propria singolarità. Forse con la sola, ulteriore eccezione di Guido Gonella. Sul dialogo tra la generazione degli ex popolari e i giovani intellettuali cattolici, come pure sull’elaborazione del programma della nascente Democrazia Cristiana, gli studi hanno portato alla luce distanze e distinguo fondamentali su gran parte degli argomenti in discussione al momento della crisi del regime: primato della politica e lavoro culturale; significato dell’agitazione antifascista e del vincolo patriottico; valore della democrazia liberale e di quella economica; ruolo dei partiti nel progetto di crescita civile e di maturazione democratica dell’Italia; centralità delle masse rispetto “ai liberi e ai forti”; libertà d’iniziativa e giustizia sociale; valutazione del cattolicesimo politico come qualcosa di unitario e auspicio alla pluralità delle opzioni. Con queste distinzioni non stupisce la ritrosia con la quale – tra gli altri – Aldo Moro, Amintore Fanfani e Giuseppe Dossetti accettarono soltanto molto tardi, alla vigilia della Costituente, di impegnarsi nella Dc, peraltro a partire da espliciti mandati ecclesiastici, senza nascondere forti perplessità e comunque ancora entro le file dell’Azione cattolica. Per Andreotti, invece, il sentiero verso la politica si era dischiuso molto prima, in un incontro avvenuto tra i corridoi della Biblioteca Vaticana con Alcide De Gasperi, più volte rievocato. Ma non solo. Le loro strade sin dal 1941 presero a incrociarsi spesso anche a via Reno 5, a Roma, nella casa di Sergio Paronetto che durante la guerra divenne il crocevia e il laboratorio culturale della futura classe dirigente democristiana, tra attività clandestine, lezioni di politica economica e redazione del Codice di Camaldoli. Tra quelle pareti Andreotti si convince ancora di più – e lo rivela la sua riflessione coeva su «Azione fucina» – della centralità della questione sociale come punto fermo non solo dell’ancor futuribile ricostruzione ma anche della sua personale adesione al cristianesimo.

La ricostruzione di Baris insiste molto, e a ragione, sull’importanza della strettissima collaborazione tra lo statista trentino e Andreotti, cominciata sin dalla redazione del Popolo clandestino e nelle riunioni del Comitato di liberazione nazionale, proseguita nella direzione del giornale della Dc alla fine del conflitto, nella guida dei gruppi giovanili del partito e finalmente culminata nel ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che Andreotti tenne dal IV governo De Gasperi a quello di Giuseppe Pella, il primo di una lunghissima serie di incarichi di governo rivestendo i quali egli avrebbe attraversato tutta la storia della prima Repubblica. Per un decennio, però, egli cresce nel cono d’ombra di De Gasperi. E Baris spiega come, pur in questa posizione subalterna, egli abbia l’intelligenza di sviluppare pazientemente una sua originale visione politica per costruire il Paese su basi nuove. Assumendo, interpretando ed esprimendo il punto di vista di De Gasperi egli fissa alcune coordinate che resteranno le costanti della sua navigazione, più volte richiamate, per la tenacia con le quali egli le difende, nel volume: la convinzione che l’unità politica dei cattolici e la questione democristiana non possono essere disgiunte, che lo Stato è preminente sul partito ma che il partito di massa è un elemento decisivo nella nuova democrazia, che l’orientamento politico non possa essere subordinato a quello tecnico, sebbene ai tecnici e alla loro competenza spetti di indicare le linee del progetto di trasformazione e di infrastrutturazione economica del Paese. Con queste coordinate la rotta che egli persegue ha come stella polare una sorta di “centralità centrista” del partito degasperiano che sappia farsi carico di un progetto di modernizzazione, anche sociale, dell’Italia che non appaia minaccioso e preoccupante per le estreme e che, proprio per questo, si allontani dal rischio di ripetere l’infelice esperienza della democrazia cristiana francese, fagocitata in poco tempo dal gollismo.

La ricerca di Baris coglie in questa continuità di approccio della necessaria unità della Dc per mantenersi alla guida del Paese l’interpretazione andreottiana, fedele ma originale, del degasperismo, che insiste sui contenuti politici del disegno centrista, in chiave moderata, mai avverso ai ceti medi, attento a preservare assetti sociali consolidati. L’accusa di immobilismo rivolta a questo progetto appare dunque impropria se, come fa l’autore, si coglie la flessibilità finalizzata a condizionare l’avversario prima che opporvisi, evitando rotture pericolose. Baris ne spiega opportunamente la duplice valenza sia all’esterno che all’interno del partito.

Anticipatore ed estensore sul Popolo della celebre definizione degasperiana della Dc come “partito di centro che guarda a sinistra”, Andreotti non si oppone a che l’area laica e riformista, cioè repubblicani e socialdemocratici, accetti di entrare nella compagine governativa. Ma difende anche l’opportunità di operare le riforme senza regalare alle destre quelle aree del Paese preoccupate dai cambiamenti, giocando su aperture verso le estreme dell’arco costituzionale capaci di conciliarsi con la vocazione sociale della Dc, senza cedimenti verso un unico fronte anticomunista che includa conservatori e reazionari in quanto forze organizzate, insistendo invece sulla necessità di riforme graduali ma indispensabili per la ricostruzione. È proprio vero, allora, che la base elettorale andreottiana fu di destra? Si ritorni all’immagine richiamata all’inizio. Le riforme sociali e, in primis, quella agraria, l’alleanza con la Coldiretti, l’attenzione ai ceti medi beneficati dalle trasformazioni, l’idea di mitigare le trasformazioni economiche sul territorio con robusti interventi di giustizia sociale: il progetto di una modernizzazione senza avventure appare sì dettata da un rigido anticomunismo ma ben lontana da una politica di pura conservazione o addirittura di reazione che certa pubblicistica ha tratteggiato. L’accusa di mero clientelismo rivolta allo stile del rapporto di Andreotti con la sua base elettorale – riprendendo le considerazioni svolte nello studio per Laterza del 2011 – viene smussata da Baris, che descrive sì un circuito di potere personale e capillare, basato su un vincolo strettissimo con i singoli elettori, ma ispirato da un obiettivo di riforma e di emancipazione delle aree depresse.

Una non troppo dissimile logica, moderata e ancorata alla centralità della personalità, Baris evidenzia nel rapporto di Andreotti con il proprio partito. Cambiamenti e trasformazioni si realizzano, per lui, solo tenendo unita la Dc. Un partito non già di correnti ideologiche, ma di personalità. Si illustra, in questo modo l’avversione verso formule politiche univoche o unilaterali di interlocuzione progressiva con le forze socialdemocratiche che pregiudichi l’unità del partito oppure verso il funzionarismo e l’organizzazione fanfaniana che comprometta il rapporto con il Paese. Di più, si spiega il collegamento di queste posizioni contemporaneamente con la vocazione ad una politica sociale cristianamente ispirata, dal lato del mondo cattolico, e con la vocazione atlantica ed europeista imprescindibile, perseguita con pragmatismo, dal lato della politica internazionale, a presidio della quale Andreotti occuperà a lungo il dicastero della Difesa. Anche nelle logiche interne del partito, nella sua elaborazione e nelle sue scelte si intersecano i piani richiamati all’inizio e costantemente considerati dall’autore, che ha anche il merito di ragionare non su singole correnti – come talvolta nelle storie del partito si è fatto – ma proprio in virtù di quella pluralità di visioni e soprattutto di personalità distinte ma accomunate da un progetto politico unitario, a cominciare da Moro, che ne furono il motore.

Molteplici, dunque, sono i lati della vicenda politica di Andreotti lungo i quali scorre, ancorata alle fonti, la narrazione di Baris. Tanti gli stereotipi che cadono. Si pensi – tra gli altri, e in conclusione – al rapporto con il Vaticano. Nel desiderio di esercitare un controllo positivo e propositivo sul mondo della cinematografia e della cultura di massa che ispira la sua azione come giovane sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, promuovendo una narrazione neorealista maggiormente attenta ai valori e alle tradizioni, c’è più della mera obbedienza a pressioni censorie. Come più della difesa di istanze clericali c’è nella consapevolezza del progressivo mutamento della società italiana che accompagna il tramonto del collateralismo, in una interlocuzione con le gerarchie tutt’altro che prona.

La ricerca di Baris si interrompe sulla soglia della stagione nuova e complicata apertasi dopo il Sessantotto. È lecito auspicare presto un nuovo capitolo della biografia di Andreotti che sappia, con altrettanta coerenza e rigore, raccontare le evoluzioni e involuzioni della storia politica e civile italiana attraverso l’itinerario di un suo protagonista. E magari sappia fugare un dubbio, che affido al collega non certo come una critica ma come possibile ispirazione per le prossime esplorazioni e interpretazioni delle fonti e del pensiero di Andreotti: non è superfluo, per la sua biografia, l’aggettivo “politica”?