Un’altra Resistenza? Gli antifascisti italiani e l’ “Armata segreta di Churchill”

Un’altra Resistenza? Gli antifascisti italiani e l’ “Armata segreta di Churchill”


Abstract:

La storiografia sulla Resistenza si arricchisce di un originale volume, Sotto altra bandiera. Antifascisti italiani al servizio di Churchill, edito da Neri Pozza, il cui autore, Eugenio Di Rienzo, getta una luce nuova su una serie di episodi fino a adesso in larga parte trascurati. Lo storico romano ci ha abituato da tempo a incursioni anticonformiste in campi della storia spesso lasciati abbandonati o trattati con superficialità immeritata. Con questa ispirazione ha lavorato alle sue ultime ricerche che hanno riesaminato –fondandosi su una documentazione ineccepibile e un’interpretazione penetrante- la controversa biografia di Galeazzo Ciano (Salerno Editrice) e la mai ben chiarita prospettiva internazionale dell’impresa di Fiume di D’Annunzio (Rubbettino Editore). In entrambi i lavori l’obiettivo – centrato – è stato quello di rimuovere i luoghi comuni storiografici e restituire la storia politica dell’Italia alla sua vera dimensione complessa e contraddittoria.

Lo stesso spirito emerge dalle pagine di questo volume dedicato a un argomento spesso oggetto di polemiche e contrapposizioni: la Resistenza. Bisogna dire preliminarmente che Di Rienzo non vuole sminuire la portata storica di questo fenomeno che è la matrice principale della nostra attuale convivenza democratica fondata sulla Costituzione del 1948. L’autore intende soltanto aggiungere un’altra faccia al prisma della ricostruzione storica sfuggendo sia a sottili insinuazioni delegittimanti come anche a trite celebrazioni retoriche. In questo sembra voler sposare l’impostazione dell’ultimo Renzo De Felice con il quale concorda nel «vizio connaturato al movimento partigiano di voler rappresentare sé stesso nella sua totale purezza e trasparenza». La Resistenza, in realtà, fu una stagione di lotta politica e di guerra in cui non ci fu spazio né per gli angeli né per i demoni, come scrisse Leo Valiani già nel 1946, ma per soldati e politici in armi, portatori di aspirazioni concrete avvolte in ideologie. Ma fu anche il periodo in cui uomini e donne – – in molti casi a costo della loro vita- si sollevarono e lottarono per il riscatto nazionale dalla sottomissione ai «neri Signori del fascismo e del Nazismo», anche se non sempre guardando l’Italia del futuro nella medesima prospettiva.

In questo senso l’autore sviscera con grande precisione documentaria il rapporto che intercorse tra alcuni esponenti dell’ala giellista e azionista dell’antifascismo e una branca del servizio segreto inglese, il SOE (Special Operations Executive) che fu ribattezzato, con un termine che corrispondeva esattamente alla realtà dei fatti, la «Churchill’s Secret Army». Questa organizzazione – «punta di lancia dell’intelligence britannica» – fu istituita all’indomani dell’armistizio siglato dalla Francia di Pétain, il 22 giugno del 1940, dal primo ministro del Regno Unito, per sostenere la resistenza nei territori occupati e, ove possibile, all’interno delle potenze dell’Asse. A tal fine il “servizio” prese contatto e coinvolse nella sua azione diversi esponenti dell’antifascismo in larga parte di matrice laica, liberal-socialista e progressista: Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Aldo Garosci, Max Salvadori, Leo Valiani. Di Rienzo pone preliminarmente l’azione di questi a paragone con quella di due “mostri sacri” della cultura e della politica italiane del prefascismo e dell’antifascismo, il cui pensiero era stato senz’altro parte decisiva nella formazione dell’idea liberale e social-liberale: Benedetto Croce e Gaetano Salvemini. Quest’ultimo – è molto importante nel complesso della ricostruzione di Di Rienzo- fu il fondatore, nel 1939, in terra americana, della Mazzini Society, organizzazione politica degli esuli italiani laico-progressisti a cui alcuni dei protagonisti del libro aderirono.

È evidente, però, al di là delle affinità politico-culturali, lo spartiacque che l’autore segnala tra l’antifascismo dei due “grandi vecchi” e quello di quei dei più o meno giovani attivisti, che decisero di collaborare, sebbene in maniera diversa, con il servizio segreto di una potenza straniera e, fino al 1943, nemica dell’Italia. La differenza consisteva in quel senso di patria con cui i due intellettuali informavano le loro posizioni politiche. Croce, pur avendo ormai consolidato la propria avversione totale al fascismo sin dal 1925, trovava appunto nell’appartenenza alla patria italiana il limite invalicabile che non sarebbe stato possibile attraversare agendo contro di essa; e, nonostante «la nostra guerra sciagurata» sostenne che non si sarebbe potuto contribuire alla sua sconfitta. Ma non erano solo considerazioni di ordine, potremmo dire, spirituale. Il filosofo, nei suoi pensieri, ribadiva che la vittoria delle Nazioni Unite, della Gran Bretagna in particolare, avrebbe coinciso con un declassamento del ruolo dell’Italia sul piano internazionale: «essi non mirano ad altro che a tenere l’Italia sotto i loro piedi». Questa linea di pensiero del 1943-1945 trovò pieno compimento nella decisione del filosofo, annunciata nel suo famoso discorso alla Costituente del 24 luglio 1947, di votare contro la ratifica del Trattato di pace che, invece, faceva parte della più larga strategia degasperiana del «ritorno dell’Italia nell’Occidente».

Per Gaetano Salvemini la propensione verso la collaborazione con una potenza straniera e avversa erano ancor più condizionate dalla storia del recente passato e dalla politica del presente. Un’integrazione dell’antifascismo nel più ampio spettro dell’azione internazionale di guerra della Gran Bretagna non sarebbe potuta avvenire se essa non si fosse impegnata a mantenere, dopo il conflitto, l’integrità territoriale della nuova Italia la quale avrebbe rispettato i diritti delle minoranze che eventualmente si sarebbero trovate al del confine orientale. In questo distaccandosi dall’esperienza di governo del fascismo che «aveva ferocemente maltrattato gli Slavi, ma aveva maltrattato anche gli italiani». Inoltre la critica dello storico di Molfetta verso la politica anglo-americana verso l’Italia divenne dal 1943 feroce. Questa favoriva, infatti, l’affermazione di un «Fascismo senza Mussolini» attraverso la difesa dell’establishment monarchico e dell’«influenza dei preti cattolici» che, fino al 25 luglio, avevano invece contribuito all’affermazione della dittatura. Ciò faceva presumere che gli Alleati non avessero intenzione di consentire la nascita di un’Italia più «libera e giusta», osservante le norme della «giustizia internazionale», che mantenesse la propria «integrità territoriale» e, dunque, l’«indipendenza». In buona sostanza con quelle idee che avevano ispirato l’interventismo democratico nel 1914-1915 e che avevano avuto la sua più importante manifestazione politico-diplomatica nel Congresso delle nazionalità oppresse dall’Austria-Ungheria che ebbe luogo a Roma nell’aprile del 1918.

Fu su questo tema che nacque il dissidio di Salvemini con il gruppo dirigente della Mazzini Society, fino a quel momento la sua creatura politica. Lo «stato maggiore» dell’organizzazione –Alberto Tarchiani,Alberto Cianca, Carlo Sforza- il primo ispirato direttamente dal SOE, voleva invece dare un contributo militare alla lotta contro l’Asse senza porre condizioni politiche pregiudiziali. Si propose la creazione di una forza armata italiana che rappresentasse l’antifascismo anche sul campo di battaglia e ponesse l’Italia del futuro «dalla parte giusta del tavolo». Il SOE si infiltrò nella Mazzini Society -Tarchiani, segretario generale, era a tutti gli effetti organico al servizio- per cercare di indirizzare l’antifascismo italiano in senso filo-inglese. In realtà l’azione dell’organizzazione incontrò numerose difficoltà, soprattutto nel campo della penetrazione nell’opinione pubblica italoamericana dove più potenti e influenti attori (i giornali di Generoso Pope, i potentissimi sindacati dei lavoratori) riuscirono ad avere la meglio.

Alla Mazzini Society apparteneva anche Aldo Garosci, intellettuale piemontese di ascendenze gobettiane che fu un altro degli antifascisti residenti a New York reclutati dal servizio inglese. In quella veste partecipò all’occupazione della penisola nel 1943-1944. Sbarcò ad Anzio e collaborò con la Resistenza nella Roma occupata dai nazisti. La volontà di militare nel Partito d’Azione –forza politica di impronta repubblicana- fu all’origine del suo congedo dal SOE, il 23 settembre 1945. In realtà Garosci, intellettuale riflessivo e tormentato, si separò molto presto dall’azionismo spinto dal «suo crescente anticomunismo» per ricercare una via «più moderata» nella sintesi tra liberalismo e socialismo.

I personaggi maggiormente tratteggiati – quasi i protagonisti del libro insieme a Emilio Lussu- sono senz’altro Max Salvadori e Leo Valiani. Il primo, militante di ispirazione liberale di Giustizia e Libertà fino al 1939, subisce dall’autore un severo esame del suo operato. Egli fu, a tutti gli effetti, un «triple agent». Giovane antifascista della seconda ora che, per vedere decurtata la sua pena, accettò un’umiliante autocritica –tramite una cosiddetta «letterina» al duce nel 1932- e successivamente instaurò una «piena collaborazione» con la polizia politica del regime. Salvadori, utilizzando contestualmente le sue origini britanniche e le sue ascendenze gielliste si avvicinò sia alla Mazzini Society che al SOE. E così riuscì, sempre con prudenza, ad abbandonare i suoi contatti con l’Ovra. Per adempiere ai compiti assegnatigli, tra il 1941 e il 1945 compì un lungo periplo tra New York, Città del Messico e Londra che conobbe il suo approdo nell’Italia invasa dalle truppe delle Nazioni Unite. Il momento apicale della sua missione fu la nomina a «ufficiale di collegamento alleato» presso il CLNAI dove operò a contatto con un dirigente politico del partito d’Azione, da lui stesso reclutato nei ranghi del servizio inglese qualche tempo prima a Città del Messico: Leo Valiani.

Di Rienzo riassume con efficacia la biografia dello storico fiumano che conobbe l’apice della sua azione politica nella partecipazione, nella sua qualità di segretario del Partito d’Azione del nord Italia, alle riunioni del 25 luglio che avrebbero decretato la sorte di Mussolini. L’autore segnala come la decisione di procedere alla fucilazione del duce immediatamente dopo la sua cattura contraddicesse apertamente l’impegno contratto dal governo italiano in sede di armistizio lungo del 29 settembre 1943 che imponeva la consegna di Mussolini alle autorità alleate. L’idea all’origine di questa clausola era la realizzazione di un processo che procedesse alla punizione di coloro che, a detta dei vincitori, si erano resi colpevoli di avere scatenato il più sanguinoso conflitto della storia dell’umanità. Un modello di giustizia internazionale che poi venne realizzato con i processi di Norimberga e di Tokio dell’immediato dopoguerra. Ma questa obbligazione non sembrava incontrare il favore della leadership partigiana del CLNAI; ma, a detta Di Rienzo, anche dello stesso capo del governo britannico.

«Fu Salvadori, spalleggiato da Valiani e Pertini e forte dell’autorevolezza che gli proveniva dal suo incarico di ufficiale di collegamento alleato presso il Clnai, a prendere in mano le cose e a persuadere i componenti di quell’organismo a non annullare l’operazione «Kill Mussolini!»

L’adempimento della clausola di Malta, dunque, non avvenne anche perché il tramite del governo di Londra agì sul radicalismo antifascista –o quanto meno ne avallò le intenzioni; socialisti, comunisti e azionisti erano decisi a compiere un’azione definitiva che avrebbe dovuto segnare una cesura nella storia d’Italia. Qual era, però, l’interesse britannico per una «vendetta immediata»? Secondo l’autore essa sarebbe stata assai conveniente per far venir meno la possibilità che la documentazione che Mussolini portava sempre con sé in una «logora» cartella potesse rendere pubblici i rapporti intercorsi tra Roma e Londra alla vigilia del conflitto e nel periodo della non belligeranza. Relazioni imbarazzanti -«esplosive compromissioni» le definì De Felice nel 1995-  che avrebbero rivelato la cedevolezza di Downing Street in favore dell’Italia fascista di fronte alla minaccia portata dal nazismo alla sua posizione in Europa. Una tutt’altro che elogiativa immagine per chi, come Churchill, aveva fatto della linearità della propria opposizione nei confronti dei fascismi la carta di identità della propria politica dei cinque anni precedenti. La lettura dei documenti fatta da Di Rienzo, dunque, ci riconduce – e una certa misura le dà ancora maggiore credibilità- alla parte incompiuta del lavoro di De Felice e lo colloca nuovamente al centro della riflessione storiografica sulla fine del fascismo. Il volume, quindi, nella sua parte finale, non presenta conclusioni definitive su una delle questioni più spinose della storia politica dell’Italia del Novecento. Di Rienzo cerca di proporre soltanto un’interpretazione del contenuto di documenti che, associata a una lettura contestualizzata delle testimonianze, possa essere utile a una rappresentazione finalmente storica –né politica né ideologica, dunque- dei fatti avvenuti e delle circostanze politiche che li hanno generati. Sotto altra bandiera è un libro che offre al lettore un’immagine non convenzionale di personalità ed eventi e li sottrae alla minaccia di vederli deformati attraverso un’oleografia di maniera che è il contrario del fare storia.

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