Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus


Abstract: Stiamo davvero vivendo un tempo “speciale”, un passaggio d’epoca, una condizione che per la sua straordinarietà verrà – come si suol dire – ricordata nei libri di storia?
Cos’è un’epidemia? Che forme hanno lo spazio e il tempo in una condizione di “quarantena”, di “clausura”?
Come si vive, si lavora, si studia e si scrive, come ci si muove entro confini imposti?
Come cambia la percezione dei bisogni e della necessità, della salute e della malattia, delle libertà individuali e della responsabilità collettiva di fronte al rischio – alla paura – del contagio e alla consapevolezza della eccezionalità?

In questo spazio, in un momento così particolare, per una volta, vorremmo fare una cosa forse insolita per una rivista di storia: osservare il tempo attuale e i fenomeni che lo segnano attraverso sguardi obliqui e non per forza convergenti, allontanando e ravvicinando il punto di osservazione, condividendo interpretazioni, letture, esperienze e questioni di metodo che possano contribuire a riportare le inquietudini e le sollecitazioni del presente sul piano del confronto delle idee.

Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus

L’inafferrabile oggi e il ritorno di ieri

di Maria Sofia Mormile

 

Non sempre la scrittura è capace di rendere l’unicità dell’evento vissuto: salvo casi eccezionali, – e mitomanie a parte – sono in molti a non possedere la distanza necessaria ad astrarsi dallo scorrere dei giorni, a guardarsi dall’alto e a riconoscersi in un mondo diverso dal mondo di ieri.

Studiando i diaristi della Rivoluzione Francese, mi sono spesso stupita di come fosse difficile, sfogliando le pagine, ritrovare le cesure, gli eventi in seguito definiti come fondamentali, punti di non ritorno. Spesso, infatti, notizie come le journées dell’ottobre 1789 o il processo di Luigi XVI si perdono tra dettagli quotidiani, citati di sfuggita in mezzo ad annunci di dispacci, di visite, di propositi. Questo mi sembrava tanto più sorprendente quando a scrivere erano i protagonisti in carne ed ossa degli eventi in questione: fratelli, cugini degli stessi sovrani, figure di spicco dell’Antico Regime che, tuttavia, sembravano non accorgersi dell’avvento del Nuovo e scrivevano, ragionavano come se la Rivoluzione non fosse necessariamente qualcosa di irreparabile, ma cercavano invece di declinarla secondo parametri conosciuti: una rivolta, una congiura, dei troubles inauditi, ma non per forza irrimediabili. Ancora nel 1793, dopo l’esecuzione di Luigi XVI – che non aveva, per quanto disturbante, comunque ancora nulla di nuovo, perché Carlo I d’Inghilterra era già stato condannato a morte più di cent’anni prima – la maggior parte dei principi francesi pensava alla riconquista militare del paese come ad una cosa possibile e realizzabile secondo metodi tradizionali, ed erano altrettanto convinti che una restaurazione si potesse operare à l’anglaise, con l’aiuto di un generale Monk di turno – “e perché non servirsi di questo giovane talento, di questo Bonaparte?”

Finché si è dentro l’evento, lo si cerca di declinare secondo quanto si conosce. Già nei primi giorni in cui si parlava di Coronavirus, una vignetta di cui purtroppo non conosco l’autore recitava: «Se vi siete mai chiesti come si vivesse nel Trecento, ora avete due Papi ed un’epidemia». Ho sentito più parlare della peste del XIV secolo adesso di quanto non mi fosse mai accaduto prima – e solo qualche giorno fa ho ripercorso io stessa, in una delle tante videochiamate con i miei genitori, le fasi della famosa pandemia: ci siamo soffermati a vedere le differenze – la più eclatante, quanto lentamente si fosse diffusa, se si considera che i primi casi sembrano essere avvenuti in Cina negli anni ’30, quasi vent’anni prima dell’arrivo della peste in Europa – a valutare gli effetti “positivi” a lungo termine – addirittura l’invenzione della stampa per ovviare all’aumento del costo della manodopera degli amanuensi, rimasti in pochi – a stupirci dei metodi rudimentali proposti dai contemporanei per combatterla – e non tanto diversi dai vari “consigli da internet” che circolano adesso. I paragoni confortano: è il vecchio meccanismo del mal comune mezzo gaudio. Altra grande consolazione e trionfo delle coincidenze – giusto un secolo di distanza! – è l’influenza spagnola del 1918. Nelle chat piovono fotografie color seppia di ragazze a braccetto con abiti alla caviglia, cappelli con fiori e mascherine sul viso, o di testate di giornali dell’epoca dove si legge, nella stessa pagina, dell’esplosione dell’influenza, della firma dell’armistizio della Prima Guerra Mondiale e della fucilazione dello zar Nicola II e della sua famiglia da parte dei bolscevichi. Anche qui, tutto sembra ripetersi con perversa puntualità: le fotografie si scattano tutti i giorni anche adesso – milioni di selfie con mascherine, immortalati prima della coraggiosa impresa di andare al supermercato – e nelle testate dei giornali, non convivono tristemente i bilanci dei morti e la notizia che, in Ungheria, Orban ha ottenuto pieni poteri? Il passato pesa ma rassicura, e in fondo sembra dare una garanzia: qualsiasi catastrofe sia avvenuta nel mondo, prima o poi ci si rialza, prima o poi alla guerra segue la pace, alla povertà il benessere, alla malattia la salute. Eppure, una delle cose che più preoccupa e che si sente mormorare è che nulla sarà più come prima. Che finirà è sicuro, ma dopo? Che dopo sarà? Saranno dei nuovi ruggenti anni ’20? Saranno i germi di un nuovo Umanesimo? Oppure, non sono che illusioni, e andrà sempre peggio? L’emergenza climatica ha già, e da anni, gettato delle ombre dubbie sul futuro: quanto tempo abbiamo? Quanto ancora potrà sopportare la Terra? O forse – sindrome da espiazione – l’epidemia ci ha salvati dall’autodistruzione capitalista e i delfini che nuotano nel porto di Cagliari sono il simbolo della rinascita dell’ecosistema? Le domande girano su se stesse, si ripetono ossessivamente in tutte le bocche, in ogni post, articolo o libretto e i tentativi di risposta trasformano tutti in un branco di agguerriti – e spesso non richiesti – opinionisti. Che non ci sia risposta è la risposta, e naturalmente è insopportabile.

Se il domani – sempre che ci sia – resta nebuloso, qualcosa da sbirciare ma per cui non c’è molto da fare se non da aspettare e vedere che succede con la giusta dose di ansia ed eccitazione, ci si può sempre rifugiare nell’ieri. Un altro leitmotiv di queste settimane è, infatti, il trionfo del ricordo: “accade un anno fa” – “guarda com’eravamo felici” – “sembra assurdo che solo un mese fa eravamo tutti insieme…” e così via. Il passato recente si è cristallizzato quasi immediatamente, già all’indomani dell’instaurazione della quarantena. Ieri eravamo liberi, oggi siamo rinchiusi. Immagini dello scorso Natale, di compleanni passati, riesumazione di foto analogiche, ascolto nostalgico di vecchie canzoni, tutto costituisce e mitizza quello che non c’è più e quello che chissà mai se tornerà.  Per tornare non torna, come non torna nessun tempo una volta trascorso, ma il fatto di non possedere più che l’oggi lo rende più denso, più presente, il vero compagno delle ore solitarie. Ho fatto anche io la mia parte: ho creato, con due amiche rientrate di corsa a Roma – io per il momento resto a Parigi, in una casa non mia – una playlist dove raccogliamo i grandi successi delle nostre estati da bambine, o le hit del momento che suonavano durante le nostre feste dei diciott’anni. All’occhio adulto, se non fosse nostalgico, la maggior parte dei brani suonerebbe banale, scadente, di dubbia qualità, ma chiuse in quattro mura e vicine solo attraverso lo schermo, li troviamo magnifici, testimonianze sacre ed inequivocabili della spensieratezza perduta, della luce sugli occhi, degli applausi dopo la torta. È il vecchio scherzo della giovinezza passata, ma anche per noi che abbiamo solo ventisei anni, è perduta, è percepita come perduta e lontana, avvolta come da un filtro da lomografia dai bordi sfocati, dai visi sovrapposti, dai nomi che all’improvviso non si ricordano più come prima. Ci voleva la pandemia, per questo, perché giustamente a ventisei anni teoricamente è tutta una corsa verso il futuro, e invece la quarantena ha, all’improvviso, creato il nostro passato.

È l’immobilità, l’ingrediente principale della memoria. Uno pensa quando si ferma, e stando fermi si realizza, si mette in ordine, ci si ricama su. Non è un caso, tornando ai principi protagonisti della Rivoluzione Francese, che le prime considerazioni si abbiano a guerra finita, nel tempo della rassegnazione e dell’esilio: falliti i propositi di far rientrare la Rivoluzione negli schemi conosciuti e varcata la Manica – erano, per la maggior parte, rifugiati in Gran Bretagna – è solo in mezzo alla quiete estranea della campagna inglese che il prima prende forma, che si riconosce come diverso dall’ora, si addobba di dettagli, si popola di fantasmi e di certezze. Il futuro Luigi Filippo, re dei Francesi inizia a redigere a Twickenham, nel 1802, le sue memorie – aveva ventott’anni. Attraverso la penna – quindi la separazione – il suo passato, Rivoluzione compresa, riprende vita e assume importanza, gli eventi naturali e gli incontri causali diventano con il senno del poi inestimabili, quadri di cui cerca di recuperare frammenti di colore per potercisi inserire, per fissare la propria presenza nel flusso della storia. Non c’è certo bisogno di essere futuri re in esilio: sono certa che ciascuno di noi, tra cinquant’anni, avrà conservato la sua particolare memoria della quarantena, l’episodio chiave su cui costruire piccole leggende familiari, la storia da tirare fuori da ormai nonni nei pranzi della domenica. Per il momento, principi esiliati o ventenni quarantenati, non resta che coltivare nostalgia e rassegnazione, ironia e coraggio; cercare la compagnia dei propri cari, ridere e immaginare insieme, scoprire piccoli piaceri. La soluzione allora come oggi, com’è sempre stata, è l’adattamento e la resilienza.

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L’inafferrabile oggi e il ritorno di ieri (Foto di Maria Sofia Mormile)

 

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L’inafferrabile oggi e il ritorno di ieri (Foto di Maria Sofia Mormile)