Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus


Abstract: Stiamo davvero vivendo un tempo “speciale”, un passaggio d’epoca, una condizione che per la sua straordinarietà verrà – come si suol dire – ricordata nei libri di storia?
Cos’è un’epidemia? Che forme hanno lo spazio e il tempo in una condizione di “quarantena”, di “clausura”?
Come si vive, si lavora, si studia e si scrive, come ci si muove entro confini imposti?
Come cambia la percezione dei bisogni e della necessità, della salute e della malattia, delle libertà individuali e della responsabilità collettiva di fronte al rischio – alla paura – del contagio e alla consapevolezza della eccezionalità?

In questo spazio, in un momento così particolare, per una volta, vorremmo fare una cosa forse insolita per una rivista di storia: osservare il tempo attuale e i fenomeni che lo segnano attraverso sguardi obliqui e non per forza convergenti, allontanando e ravvicinando il punto di osservazione, condividendo interpretazioni, letture, esperienze e questioni di metodo che possano contribuire a riportare le inquietudini e le sollecitazioni del presente sul piano del confronto delle idee.

Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus

Luciana Delle Donne e la sua quarantena a tre velocità e due cuori

di Micol Ferrara

La signora credeva che ciascuno di noi ha due cuori. Diceva sempre che però, uno dei due eclissa l’altro, ma se ognuno di noi, diceva, riuscisse anche solo un istante a intravedere la luce del suo cuore nascosto, allora capirebbe che quello è un cuore sacro e non potrebbe più fare a meno del calore della sua luce.
Cuore sacro (2005)

 

Osservando Luciana Delle Donne è possibile, in un certo senso, rivedere la protagonista della pellicola di Ferzan Ozpetek Cuore Sacro che si spoglia di ogni ambizione professionale per dedicarsi ai più bisognosi. Ed è esattamente quello che Luciana ha fatto: da top-manager di successo ha lasciato tutto ed è tornata nella sua Lecce per iniziare una seconda vita. Dopo 20 anni di carriera nel mondo della finanza, nel 2006 decide di dedicarsi a un impegno ben diverso: rendere le differenze tra le persone un valore aggiunto e trasmettere un sentimento di fiducia e di entusiasmo in coloro che vivono una situazione di disagio o di svantaggio sociale. Crea Made in Carcere il social brand della Onlus “Officina Creativa” che dal 2008 garantisce a donne e minori in stato di detenzione di lavorare, percepire una retribuzione ed utilizzare il periodo di reclusione per intraprendere un nuovo percorso di reinserimento sociale. Sempre attiva e in prima linea, Luciana non poteva restare inerte di fronte all’emergenza sanitaria del Covid-19: con il suo team ha deciso di investire il tempo “sospeso” della quarantena per pensare e ripensare a scenari futuri, trasformandolo così in tempo attivo. Intervistarla in queste giornate è un’impresa impossibile tra la sua sempre attiva doppia connessione al pc, telefoni (almeno un paio), i passaggi alla sartoria, lavanderia e quanto altro così ci diamo un appuntamento telefonico serale e nonostante la stanchezza si riempie di vita nel raccontarci i suoi progetti e condividere la sua storia, perché chi la conosce lo sa: la generosità è la sua cifra identitaria.

 

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Luciana Delle Donne fondatrice di Officina Creativa, la cooperativa che con il brand sociale Made in Carcere sta cambiando l’approccio alla detenzione in Italia

 

Possiamo dire che la tua sia una quarantena atipica, come la stai vivendo?

I primi giorni di marzo, quando ancora non si capiva nulla, pensavo a questo periodo come a un’occasione per cambiare tutto, ripensare tutto, un po’ come una giostra che si ferma. Nel disastro, nella tragedia, intravedevo l’opportunità di potermi fermare. Un momento di pausa che ho sempre cercato e non sono mai riuscita a prendermi e in questo smarrimento, legato al non comprendere ancora bene cosa stesse accadendo, trovavo conforto tra le pareti di casa e nel mio gatto Mic (acronimo di Made in Carcere, appunto). Tuttavia l’emergenza non mi ha dato la possibilità di fermarmi.

 

È stato un momento difficile anche per i detenuti, come lo hai vissuto e soprattutto cosa ti ha spinta a scendere in campo in uno scenario così complesso?

Inizialmente era molto difficile capire bene come stessero le cose. Noi avevamo delle consegne per il mese di marzo e non si capiva granché, perché le carceri erano tutte chiuse. Quei momenti di attesa e di silenzio sono stati per me ossigeno puro: mi hanno permesso di prendere aria per iniziare a combattere di nuovo. Una tragedia che sembrava così lontana, quando nella sua fase iniziale interessava apparentemente solo la Cina, che ci ha improvvisamente travolto e sconvolto. Quando leggevo le notizie delle rivolte nelle diverse carceri, mi sono sentita frastornata, smarrita. Uno non pensa mai di andare in prima linea ma, davanti alle immagini dei detenuti che scappavano dal carcere – anche criminali pericolosissimi – e al susseguirsi di casi che diventavano tante piccole polveriere con un effetto domino inquietante, ho subito pensato: se iniziamo a far produrre le mascherine all’interno del carcere forse si può calmare la situazione.

Così il 10 marzo mi sono messa a disposizione della Direttrice del Carcere di Lecce – Dottoressa Rita Russo – e il 16 marzo le mascherine sono entrate in produzione. Servono umanità e amorevolezza per aiutare le persone a ricostruire la propria vita. È stato più forte il desiderio di restituire qualcosa agli altri, alle persone in maggiore difficoltà, della paura. Una paura che ci ha sempre accompagnato.

 

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Il team Made in Carcere al lavoro durante l’emergenza Covid-19. Lequile (LE)

Certamente quello di produrre le mascherine non è un percorso facile, tra permessi, procedure di sicurezza, staff ridotto e tutte le complicazioni che intervengono in un periodo di emergenza come quello che stiamo vivendo. Come sei riuscita a riorganizzare tutto in così poco tempo?

Per definire questo processo ho usato la metafora delle tre velocità: “contro il nemico invisibile Made in Carcere corre tre volte” abbiamo attivato le procedure per i prodotti medicali e nel frattempo donato le mascherine alle fasce più colpite della popolazione, sempre continuando a cercare nuovi canali ma anche nuovi prodotti per poter far fronte al meglio alle nuove disposizioni sul distanziamento sociale. Grazie all’uso della tecnologia – e in particolare alle video chiamate, impensabili fino a qualche tempo fa – è oggi possibile formare a distanza le donne che si trovano in stato di detenzione. Le formiamo affinché imparino a produrre mascherine protettive dotate di filtro TNT. Una idea ingegnosa e soprattutto utile per l’ambiente e per il valore del lavoro. In pratica viene utilizzato meno TNT, almeno la metà e meno tempo per la produzione, 1 minuto anziché 5 minuti.  Grazie a loro, ad oggi sono stati realizzati e distribuiti gratuitamente oltre 10.000 dispositivi di protezione ad uso civile, con filtro certificato ISO 10993 per la comunità carceraria, chiese contadini, donne vittime di sfruttamento, senza tetto, persone in condizioni di disagio, ma anche loro con una bella mascherina portafiltro colorata. Si sta lavorando per ottenere l’acquisizione della procedura di certificazione sia per le mascherine che per altri prodotti medicali realizzati dalle detenute, ad esempio i camici, in collaborazione con Politecnico di Bari/Milano e il Gruppo Nazionale Emergenza Covid-19, Confindustria Moda/Federmoda. Si stanno raccogliendo fondi attraverso la vendita on line di mascherine portafiltri e filtri. Tutto questo lavoro non mi ha concesso di vivere la dimensione isolata e riflessiva della quarantena. Muoversi nella città priva di persone per andare al lavoro ti fa sentire come in un film, non tanto nel mio tragitto mattutino quanto in quello del rientro serale. Ricorderò questo 2020, rispetto al quale serbavo così tante aspettative che comprai dodici anni fa persino un dominio web per un nuovo sito, come un anno che ne vale 20. E credo che sarà anche il titolo che utilizzerò per il libro nel quale intendo raccontare le evoluzioni di questo lungo anno. Ma per ora è importante riportare al porto la nave che si trova nel mare in tempesta.

 

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600 mascherine portafiltro donate da Made in Carcere al Centro Astalli Palermo ONLUS per proteggere le fasce di popolazione più debole

 

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Il riuso è una delle parole chiave di questo progetto. Mascherina lavabile e riutilizzabile Made in Carcere

Uno dei punti cardine del tuo lavoro è quello di mettere le persone al centro per costruire un “benessere consapevole”, un concetto indissolubilmente legato a quello dell’eco sostenibilità. Come immagini gli scenari futuri?

Certo, il rispetto dell’ambiente ci renderà liberi. Non rispettare l’ambiente dovrebbe essere reato. Ora scontiamo la pena, e mi auguro che impariamo la lezione. Siamo tutti in galera perché siamo ai domiciliari; ma – mi chiedo – abbiamo capito che abbiamo commesso un reato? Occorre iniziare a rispettare i propri limiti in questo pianeta perché siamo, in un certo senso, tutti condomini in affitto, di passaggio. È importante come segno di rispetto per i nostri figli e per tutti gli altri esseri che popolano il pianeta. Bisogna iniziare a dire senza mezze misure: la natura si incazza e se si incazza fa paura. È insensato che il meeting sul clima previsto per aprile, alla luce di tutto quello che sta succedendo, sia stato posticipato anziché anticipato. Trovo assurdo che nessuno ammetta di aver abusato e saccheggiato questo Pianeta, soprattutto la Cina. Le immagini del mondo riprese dai satelliti mostrano aree nitide della terra che torna a respirare ripulite dall’inquinamento, gli animali che stranamente passeggiano nelle città, come se ognuno si riprendesse i propri spazi. Il virus ci sta dando una lezione: se superiamo i nostri limiti siamo indesiderati ed è una cosa così ovvia che mi sembra pazzesco doverla enunciare. Le persone saranno costrette a ripensare al futuro. Arriva il momento in cui si è costretti a rivedere la propria vita: a me è accaduto quindici anni fa, ma per una scelta personale non obbligata. La creatività, la bellezza nella moda come nel cibo – i due settori dei quali mi occupo – devono far bene al corpo e all’anima. Sei felice se indossi qualcosa che sta facendo del bene, perciò credo che la moda debba essere ripensata nella sua essenza di bellezza. Ed in questo Santo Versace, uno dei maggiori esponenti del Made in Italy nel mondo, mi sostiene perché condivide la mission di Made in Carcere nelle sue due fasi: dimostrare che si può fare e farlo tutti insieme.

 

Tu hai ripensato la tua vita diversi anni fa come se avessi, in un certo senso, anticipato la “lezione” del Coronavirus alla quale ti riferisci. Come è nata questa tua esigenza, ti sei mai pentita?

No, non ho mai avuto pentimenti, non è un sentimento che ha senso che esista per me. Non mi lascio intrappolare nella rete dei “se” e dei “ma”. Sì, può capitare un pensiero – magari nei momenti di maggiore difficoltà economica come l’attuale – ma non prende spazio nella mia mente perché: se non puoi rimediare, costruire o ricostruire, che senso ha? Il mio motto è quello di andare sempre avanti senza prendermela, lasciando un po’ scivolare le cose. Il tempo è prezioso e non va sprecato. Il valore del tempo è fondamentale e mi auguro, ci auguro, che questa pagina di Storia che stiamo scrivendo ci faccia riflettere, ci porti ad investirlo tutti sempre meglio. Quindici anni fa ho ripensato la mia vita. Non è che non amassi le cose, ma le usavo; il mio agio economico mi portava a vederle in maniera diversa da come faccio ora. Oggi ogni cosa me la devo conquistare e serbarla con maggior cura perché diversamente sono problemi. Questo mi porta ad apprezzare ogni singola cosa, ogni singolo momento della vita. Ogni tanto si sale su giostre che ci fanno divertire ma poi stancano, questo era accaduto a me e in piena coscienza ho deciso di cambiare prendendomi il lusso di correre un rischio. Non ero più comoda in quella vita comoda; così mi sono tolta la collana di perle, l’orologio e forse anche una maschera e sono scesa da quella giostra perché lo stipendio alto non era poi così importante. La motivazione saggia era che volevo un figlio a tutti i costi, e farlo a Milano con il mio compagno a Lecce non sarebbe stato sostenibile. Le cose poi sono andate diversamente, ma questa è un’altra storia. Tornando ad oggi, credo che sarà necessario riflettere sul fatto che non occorre produrre altro: basta rigenerare quello che già abbiamo, magari proprio a partire dalle nostre storie individuali riviste e rivissute attraverso le lenti di questo tempo sospeso.

 

 

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