Il disastro del Vajont e la pandemia odierna – Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus


Abstract: Stiamo davvero vivendo un tempo “speciale”, un passaggio d’epoca, una condizione che per la sua straordinarietà verrà – come si suol dire – ricordata nei libri di storia?
Cos’è un’epidemia? Che forme hanno lo spazio e il tempo in una condizione di “quarantena”, di “clausura”?
Come si vive, si lavora, si studia e si scrive, come ci si muove entro confini imposti?
Come cambia la percezione dei bisogni e della necessità, della salute e della malattia, delle libertà individuali e della responsabilità collettiva di fronte al rischio – alla paura – del contagio e alla consapevolezza della eccezionalità?

In questo spazio, in un momento così particolare, per una volta, vorremmo fare una cosa forse insolita per una rivista di storia: osservare il tempo attuale e i fenomeni che lo segnano attraverso sguardi obliqui e non per forza convergenti, allontanando e ravvicinando il punto di osservazione, condividendo interpretazioni, letture, esperienze e questioni di metodo che possano contribuire a riportare le inquietudini e le sollecitazioni del presente sul piano del confronto delle idee.

Call for reactions: Storia e Storie al tempo del Coronavirus

Il disastro del Vajont e la pandemia odierna

di Andrea Del Col

 

Quanti morti, perdite economiche, difficoltà logistiche e problemi sociali abbia prodotto la pandemia del virus Covid-19 è sotto gli occhi di tutti. Come abbia modificato le nostre abitudini, modo di pensare e di reagire, gesti quotidiani è descritto bene in diversi articoli qui pubblicati. Io vorrei proporre invece un altro punto di vista e cioè partire dai più grandi disastri avvenuti in Italia nel Novecento, in particolare da uno, per verificare quanto sia cambiata o meno la nostra visione delle catastrofi e del modo di affrontarle.

Nel Novecento la sciagura naturale di gran lunga più terribile fu il terremoto di Messina del 28 dicembre 1908. Alle ore 5,20 una scossa di magnitudo 7,2 della scala Richter investì la città, Reggio Calabria e i loro territori. Enormi i danni: i morti si stimano da 90.000 a 120.000, le costruzioni furono distrutte al 90%. I soccorsi all’inizio furono carenti: intervennero per primi i marinai delle quattro torpediniere italiane e di un incrociatore alla fonda a Messina, subito dopo una squadra russa di sei navi da guerra e una britannica di altrettante unità, e solo più tardi l’esercito e la divisione navale di quattro corazzate italiane, trasformate in ospedali. Era tutto difficile perché medici e infermieri, esercito, carabinieri, politici, preti, autorità perirono in gran parte sotto le macerie. Il comando della piazza fu preso dall’ammiraglio russo Ponomarëv, fin quando non fu sostituito da un ammiraglio italiano.

L’impresa di raccogliere i morti, di salvare i superstiti (circa 17.000), di sistemare i feriti (circa 13.000) e i senza tetto fu immensa. Ci furono delle forti critiche a tutti i comandi militari italiani, Marina compresa, per l’inefficacia dei soccorsi e al Parlamento per le disposizioni finanziarie. Il presidente del Consiglio e alcuni ministri intervennero cercando di tacitare e coprire. La ricostruzione fu lunga e difettosa, costellata da polemiche per i ritardi e le lentezze burocratiche. Niente di nuovo sotto il sole dell’Italia. Seguirono nel primo Novecento una trentina di terremoti, di solito con pochi morti, fuorché quello di Avezzano del 13 gennaio 1915 con 30.519 morti.

Nella seconda metà del Novecento ci furono una quarantina di terremoti, il più grave dei quali fu quello dell’Irpinia del 23 novembre 1980 con 2.914 morti. Il Leitmotiv è stato sempre lo stesso: soccorsi in ritardo e carenti, persone che si potevano salvare, ricostruzioni incompiute, costi in crescita continua, distrazione di fondi, per dirla in modo diplomatico. Con un’unica eccezione in un secolo: il terremoto del Friuli.

 

Il terremoto del Friuli del 1976

Il 6 maggio 1976 alle ore 21.00 un terremoto di magnitudo 6,5 della scala Richter, interessò in modi diversi tutto il Friuli Venezia Giulia. I morti furono 990, i feriti 2.607, i paesi «rasi al suolo» 45, quelli «gravemente danneggiati» 40 e quelli solo «danneggiati» 52, tra cui il mio. Area colpita 5.500 kmq, abitanti coinvolti 600.000, case distrutte 18.000, danneggiate 75.000. La scossa fu sentita negli Stati confinanti e in tutta l’Italia centro-settentrionale fino alla Svizzera e alla Francia. Dopo un lungo sciame di assestamento, l’11 e il 15 settembre ci furono altre quattro forti scosse di potenza fino alla magnitudo 6,0, che finirono per distruggere definitivamente quel poco che era rimasto in piedi. I soccorsi partirono subito dall’Italia e dall’estero, coordinati in un secondo momento dal comando interregionale dei vigili del fuoco. Asciugate le lacrime, la ricostruzione cominciò immediatamente. E venne completata in dieci anni, con una coda di altri dieci per le chiese monumentali, secondo la priorità suggerita dall’arcivescovo di Udine Alfredo Battisti: «Prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese» (12 maggio 1976). È l’unico terremoto avvenuto in Italia la cui ricostruzione sia stata completata.

Il fatto viene sempre ampiamente lodato, ma non è mai stato emulato. Eppure non è difficile capire i motivi della riuscita. I fattori principali sono stati due: la gente e le autorità. I friulani la ricostruzione, se avessero potuto, se la sarebbero fatta da sé e si sono sporcate le mani subito, durante e dopo. Hanno tuttavia accettato ben volentieri tutti gli enormi aiuti che hanno ricevuto. Senza perdere mai testardamente il controllo della situazione. Su tutti i muri era scritto: «Fasìn di bessòi»: la ricostruzione ce la gestiamo noi. Alla fine sui muri campeggiava dappertutto un’altra scritta a caratteri cubitali: «Il Friuli ringrazia e non dimentica».

L’altro fattore fu governativo. Il Parlamento nominò commissario speciale l’on. Giuseppe Zamberletti, sottosegretario all’interno, quindi un politico. Tutte le decisioni passavano dal suo ufficio, che lavorava obbligatoriamente con la Regione Autonoma e aveva coinvolto direttamente tutti i sindaci. I finanziamenti utilizzati furono non molti, ma moltissimi. Zamberletti rispondeva direttamente al Parlamento, a consuntivo (!). Lui girava dappertutto, parlava con tutti. Nei suoi confronti non ci fu mai nessuna critica, come sui finanziamenti non ci furono ruberie, storno di fondi, tangenti, rialzo abnorme dei costi. Erano altri tempi? Forse erano anche altri uomini. Zamberletti in Friuli è rimasto un mito.

La storia insegna qualcosa? Historia magistra vitae, scrisse Cicerone (De oratore 2, 9, 36). Penso proprio di no. E non soltanto in Italia, come si è visto nelle recenti decisioni di altri governi sulla pandemia. Chi viene dopo non ha voglia di ripetere una soluzione vincente, troppo facile, ma ne cerca una propria, più intelligente (!?), con i risultati che si vedono. Nel caso dei terremoti e oggi anche in quello del virus. In Italia stiamo pagando per tutti i terremoti del secondo Novecento e oltre, eccetto che per quello del Friuli.

 

La frana del monte Toc nel lago del Vajont

Uno dei più grandi disastri avvenuti in Italia fu l’esondazione del lago del Vajont causata dalla frana del monte Toc. La tragica storia è lunga e articolata e allora fece una grande impressione nell’opinione pubblica perché in una piccola zona a cavallo del Friuli e del Veneto furono spazzati via in pochi secondi tutti gli abitanti e tutte le costruzioni. Quando il numero dei morti causati dal virus Covid-19 superò il migliaio e mezzo, cominciai a pensare che forse avrebbe raggiunto quello del Vajont, che per me era l’ecatombe insuperabile nella storia recente d’Italia. Invece adesso (20 giugno 2020) siamo a 17 volte tanto e ancora non è finita. Ma cosa è successo al Vajont, chi se lo ricorda? Cercherò di delineare gli eventi sottolineando gli aspetti che fanno maggiormente riflettere sulla pandemia odierna, presentando anche alcune annotazioni personali, sempre opinabili, ma spero interessanti.

Ci sono parecchi dubbi sulle problematiche di questo virus, come ce ne sono stati sul caso del Vajont. Alcuni esempi. L’esondazione improvvisa del lago si poteva evitare? Secondo i giudici del processo finale praticamente sì. L’alto numero iniziale dei morti della pandemia si poteva evitare? Mancano ancora pronunciamenti di giudici al riguardo, ma già serpeggiano dei sospetti. Gli ingegneri responsabili dell’impresa del Vajont erano competenti e in grado di gestire la situazione? No. Gli alti responsabili odierni sono competenti? Su questo punto i pareri sono divergenti e molte le critiche fondate. Gli ingegneri del Vajont non dicevano nulla. Oggi al contrario c’è una tale confusione di affermazioni che non si sa più cosa credere.

La tragedia del Vajont non fu un evento naturale come i terremoti, ma prodotto dalla mano dell’uomo. Il 9 ottobre 1963 alle ore 22.39 il monte Toc franò dentro al lago: 260 milioni di m3 di roccia e terra colpirono e misero in movimento 115 milioni di m3 di acqua. Si originarono tre enormi ondate alte circa 250 mt: una spazzò via tutto quello che si trovava sulle sponde est verso Cimolais, una seconda colpì le case basse di Erto e Casso e ricadde sul lago, la terza, 50 milioni di m3, superò la diga e 25 milioni di m3 spazzarono via Longarone e alcuni paesi verso valle. A Belluno, distante circa 30 km, l’onda di piena del Piave raggiunse i 12 mt. I vigili del fuoco di Belluno partirono subito, ma dovettero desistere perché le strade erano praticamente sparite. Arrivarono invece i vigili del fuoco di Pieve di Cadore. Ma ormai non c’era niente da fare. Alcuni abitanti di Erto si salvarono perché nel risucchio dell’ondata riuscirono a mettersi di traverso alle finestre o alle porte, come avremmo sentito raccontare in seguito da un protagonista. Altri si salvarono perché non avevano trovato posto negli alberghi di Longarone, come il cugino di un mio amico, che per caso non andò verso la pianura, ma a nord.

Avevo vent’anni ed ero in collegio a Pordenone. Prima di mezzanotte ci svegliarono e ci avvertirono del disastro. Non so come avevano saputo, ma si diceva che era crollata la diga. Non ci volevamo credere. Noi d’estate andavamo in bicicletta a vedere il bellissimo lago, percorrendo la Valcellina e attraversando il passo di Sant’Osvaldo. Ci fermavamo nelle case con abitazione e osteria sulla riva nord del lago e parlavamo con ostesse e commesse. Solo nei giorni seguenti sapemmo che la diga era rimasta in piedi, ma era franata la montagna. I soccorsi furono molto veloci: alle cinque di mattina arrivarono finalmente a Longarone i vigili del fuoco di molte province, l’esercito con gli alpini e i sommozzatori, inoltre gli elicotteri della base NATO di Aviano. Longarone con alcuni paesi adiacenti, investiti dall’ondata, erano stati rasi al suolo. Del duomo di Longarone era rimasto solamente il nudo pavimento.

C’erano cadaveri dappertutto. Cadaveri e masserizie furono portati molto lontano lungo il Piave. I morti ufficiali furono 1.917, ma si calcolarono in 2.000 circa quelli reali, perché non tutto fu molto chiaro. Vennero recuperate soltanto 1.500 salme, metà delle quali irriconoscibili. Non si può immaginare come erano ridotte, senza i vestiti e senza parti del corpo. Siccome il lavoro non fu agevole né breve, dopo alcuni giorni si alzò un tanfo tremendo e i turni degli alpini e degli altri soccorritori furono ridotti di molto. I morti furono sepolti in un cimitero apposito a Fortogna, vicino Longarone: una grande distesa di piccole croci bianche.

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Esempio di case di abitazione con osteria a Erto alta, 18 novembre 2012, ©Andrea Del Col

 

Le morti e le distruzioni avvennero in pochi secondi in un’area ristretta. I soccorritori poterono solo recuperare e seppellire le salme. Sistemati i morti, cosa altro si poteva fare nell’immediato? La frana aveva in pratica riempito il lago e fatto scomparire le strade su entrambe le sponde e quindi ne fu aperta una nuova proprio in mezzo. Era una strada che sembrava un fantasma nel deserto. La distesa desolata fu ricoperta negli anni un po’ alla volta dal bosco, com’è ora. Siccome era rimasta una parte del lago verso est, gli abitanti di Cimolais, al di là del passo di Sant’Osvaldo, erano terrorizzati che non arrivasse anche da loro un’ondata distruggitrice. La proprietà statale della diga, cioè l’ENEL, che l’aveva acquisita il 14 marzo 1963, costruì in tutta fretta sul passo un muro largo e alto con casse di ferro piene di pietrame, perfettamente inutile. Lo chiamavamo tutti il muro della vergogna. È stato demolito qualche anno fa. Siccome gli abitanti di Erto avevano molta paura, nel 1971 per quelli che accettarono il trasferimento fu costruito un nuovo comune, Vajont, all’inizio della pianura nel territorio di Maniago. La ricostruzione di Longarone avvenne ex nihilo, rispettando la posizione delle strade. Le tre campane del duomo furono recuperate nel pietrame: due erano e sono rimaste inservibili, la terza, poco rovinata, è stata rimessa in funzione nel 2015.

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L’acqua del lago arrivava sotto la strada che si vede nello sfondo, verso Cimolais, 18 novembre 2012, ©Andrea Del Col

 

La costruzione della diga e il mancato collaudo

Come fu possibile che avvenisse una frana di tali proporzioni dentro un bacino enorme? Fu opera della natura oppure dell’uomo? Anche oggi ci si chiede se il virus Covid-19 sia naturale oppure prodotto dall’uomo. Per il Vajont le risposte ci sono. Il disastro fu frutto della scelta della SADE, società privata, di costruire a tutti i costi una diga ad arco a doppia curvatura nella valle del Vajont e l’incompetenza, frettolosità e faciloneria degli ingegneri ci misero il resto, cominciando dai geologi, che fecero delle indagini superficiali, concluse a favore della società elettrica e non rilevarono una paleofrana, che avrebbe sconsigliato la creazione del lago. I lavori cominciarono nel 1956, ma l’autorizzazione ministeriale arrivò soltanto un anno dopo. Durante la costruzione della diga furono iniettate tonnellate di cemento per solidificare le rocce su cui si ancorava il manufatto. Questo fatto era noto a tutti, perché si vedeva passando per la strada da Erto a Longarone e l’ho visto anch’io.

Il progetto iniziale prevedeva un’altezza di 202 mt, con un bacino di 58,2 milioni di m3, ma durante i lavori l’altezza fu portata a 261,60 mt con un bacino di 150 milioni di m3. Circa tre volte la quantità iniziale, non so con quali calcoli. Vennero certo concesse le approvazioni previste, ma fu una decisione omicida. La diga fu inaugurata il 17 ottobre 1961, mentre le operazioni per il collaudo con l’immissione dell’acqua erano già cominciate. Quasi subito con l’acqua che saliva vennero notati i primi problemi sul monte Toc: si creò una fessurazione lunga 3 km e il 4 novembre 1960 ci fu addirittura una “piccola” frana di 800.000 m3 con l’acqua soltanto a 650 mt s.l.m. Queste evidenti premonizioni però non furono prese in considerazione.

Di solito dopo l’invaso si fa uno svaso e un reinvaso, ma non in questo caso. Per accelerare le prove del collaudo l’acqua fu portata a 710 mt s.l.m., oltre il livello di sicurezza, che era 700 mt s.l.m. L’idea forse era che l’acqua più alta avrebbe tenuto ferma la frana. L’instabilità della montagna invece aumentò e gli ingegneri si misero al lavoro per studiare gli scenari possibili per scongiurare uno smottamento dannoso, così credevano. Un ingegnere giovane, Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga Carlo Semenza, scoprì la paleofrana, che faceva prevedere il peggio, ma non gli venne dato credito. L’acqua fu abbassata precipitosamente negli ultimi giorni e riportata al livello di sicurezza, con la convinzione che sarebbe stato sufficiente. Il calcolo si sarebbe dimostrato del tutto sbagliato. Infatti fu la sicurezza della morte.

Le autorità non furono avvertite e tanto meno la popolazione. In realtà no: come ultima beffa il comune di Erto, su richiesta degli ingegneri dell’ENEL, emise il giorno prima un’ordinanza con cui invitava la popolazione ad allontanarsi dal lago. Non fu fatto nessun sgombero. Le previsioni quindi erano molto gravi, ma nessuno degli ingegneri si trovava sul posto per monitorare la situazione, solo degli addetti, che morirono tutti, travolti dalla terza ondata. Non sono un ingegnere idraulico, ma c’è una domanda ineludibile: gli undici ingegneri della società privata, che continuarono con l’ENEL, furono assunti con criteri meritocratici? Dai risultati non si direbbe.

 

I processi per i reati penali e per i danni

Di fronte ad una tragedia di tale portata, la magistratura volle stabilire se c’erano e quali erano le responsabilità penali. Come si comincia a fare per le morti dovute al virus. Seguì in effetti un lungo processo contro gli ingegneri. Nel frattempo due morirono, uno si suicidò, un altro entrò in depressione. All’inizio prese piede la teoria dell’imprevedibilità dell’evento, contraria ad ogni evidenza. Poi il tribunale dimostrò che si era trattato di un evento assolutamente previsto. Tra l’altro una delle ultime relazioni, con vari scenari per evitare i danni eventualmente prodotti dalla frana in movimento, venne fatta sparire dall’autore, ma fu trovata da un impiegato dell’università di Padova. Questi fu addirittura denunciato, poi assolto dal tribunale. La cassazione addolcì la sentenza di appello, ma condannò gli imputati per inondazione con l’aggravante della previsione. L’ingegnere capo, Alberico Biadene, ebbe cinque anni di carcere, tre gli furono condonati, uno gli venne abbonato per buona condotta. Così ne fece uno solo. Francesco Sensidoni ebbe tre anni e otto mesi, con tre anni di condono. Gli altri furono assolti con formule varie. Praticamente sembra che la diga si fosse costruita da sola e il lago riempito da solo. Se uno commette un omicidio con aggravanti, ha l’ergastolo. Se uno provoca la morte di 1.917 individui, qualche anno di carcere. Secondo il senso comune dell’equità, questa giustizia mi pare un po’ strabica.

Seguirono i processi per il risarcimento dei danni, che all’inizio furono messi in conto all’ENEL e alla Montedison, la società che in precedenza aveva acquisito la SADE. Il parlamento concesse forti facilitazioni e finanziamenti per la ricostruzione. Si doveva inoltre fissare l’ammontare dei risarcimenti, che fu stabilito dal tribunale di Belluno il 15 febbraio 1997. L’ultimo atto al riguardo ebbe luogo nel 2000 con la ripartizione degli oneri in parti uguali tra l’ENEL, la Montedison e lo Stato italiano, per il comportamento del Ministero dei lavori pubblici, che aveva concesso le autorizzazioni. Dopo 37 anni dal disastro. La burocrazia ragiona sempre con l’eternità, soprattutto davanti ai morti.

 

Osservazioni a posteriori

Ci sono molte diversità dei fatti del Vajont rispetto alla situazione pandemica attuale per l’inizio, lo sviluppo e la durata, i processi giudiziari e la ricostruzione, anzi sembra sia tutto il contrario. Al Vajont l’ecatombe, prodotta da scelte umane, avvenne in pochi secondi, in un posto molto circoscritto, con un numero molto alto di morti in rapporto alle località interessate, i responsabili furono processati, anche se ebbero condanne irrisorie, la ricostruzione fu finanziata dallo Stato. Attualmente non si sa quando è avvenuto l’inizio della diffusione del virus, non si ha idea della durata, lo sviluppo comprende tutta l’Italia, il numero dei morti è di molto superiore a quello del Vajont. Sembra che ci siano interventi di alcuni giudici, ma non è ancora chiaro. La ripresa è molto incerta, perché la paura di un ritorno del contagio è grande. Non si conoscono i danni, che crescono in progressione e saranno altissimi.

Intanto una riflessione sui comportamenti umani può essere utile. Gli ingegneri coinvolti nel disastro del Vajont furono parecchi e in tempi diversi, a cominciare dai progettisti degli anni Trenta. Evidentemente sicuri di sé e orgogliosi delle proprie carriere. La frana non fu un evento naturale, come si è detto, ma avvenne per la loro incompetenza, leggerezza, improvvidenza e per l’indifferenza verso la vita degli altri. Una centrale idroelettrica è una cosa buona perché sfrutta le forze pulite della natura, ma ci sono leggi fisiche, impersonali e ferree, che vanno rispettate, pena gravi conseguenze. Forse gli ingegneri sapevano fare i calcoli matematici, ma sbagliarono le valutazioni generali e tutto un seguito di scelte, forse in funzione degli interessi della ditta proprietaria. Dopo la frana tutti capirono come mai i paesi erano costruiti solamente sul versante nord della valle del Vajont e in quello sud non c’era nemmeno una frazione, ma solo malghe isolate. Gli ingegneri avevano visto certamente la situazione, ma avevano altro da fare piuttosto che capirne i motivi. Durante il processo cercarono perfino di nascondere le relazioni che documentavano le previsioni e le decisioni prese. Certo che l’imputato ha il diritto di difendersi, ma ci sono anche questioni morali e di decenza umana.

Il crollo del monte Toc avrebbe potuto essere evitato? Qualsiasi risposta positiva, che si possa dare, non cambia la storia. Comunque, dico secondo i giudici, gli ingegneri avrebbero dovuto fare delle prospezioni geologiche più serie, svasare e reinvasare il bacino, così avrebbero visto lo stato della montagna, avrebbero potuto prevedere uno scenario più realistico e molto peggiore delle loro idee, quello che si è poi avverato. Dovevano infine avvertire le autorità e la popolazione subito, non il giorno prima della catastrofe. Queste osservazioni sono a posteriori.

 

Critiche a priori: Tina Merlin

Ma a priori? A priori ci fu la giornalista dell’Unità Tina Merlin, nata Clementina. Originaria di Trichiana in provincia di Belluno, negli anni Cinquanta fece le sue campagne documentate e infuocate denunciando gli espropri compiuti con soprusi “legali” dalla SADE ai danni dei piccoli proprietari di Erto, costretti ad emigrare e prevedendo, sempre a ragion veduta, un esito catastrofico dell’impresa. La popolazione si impaurì. Intervennero le autorità della provincia di Belluno. Ci furono perfino interrogazioni in parlamento. Le risposte rassicuranti date alla gente si basarono tutte sulle comunicazioni della SADE, nota società indipendente di indagini scientifiche (?!), cui il parlamento credette. Tina Merlin fu non solo un profeta inascoltato, perché scriveva sul giornale del PCI, cioè il partito dell’opposizione, spauracchio dei benpensanti, ma venne anche screditata, chiamata in modo dispregiativo «Cassandra del Vajont». Fu inoltre criticata aspramente per motivi politici da alcuni giornalisti di primo piano, tra cui Indro Montanelli e Giorgio Bocca. Nel 1959 fu denunciata dal presidente della SADE, Vittorio Cini, ai carabinieri di Erto per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». Fu sottoposta a processo a Milano e il 30 novembre 1960 fu assolta perché il fatto non costituiva reato. Il conte Cini nel processo di primo grado fu ritenuto non responsabile dell’eccidio in quanto aveva compiti puramente finanziari, ma fu sentito due volte come testimone informato dei fatti. Cioè chi paga non è responsabile di quello che viene fatto con i suoi soldi.

Dopo la tragedia Tina Merlin scrisse un libro su tutte le vicende: Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe, sostenendo che la frana fu causata dalla corsa al collaudo della diga, ma nessuno ebbe il coraggio di pubblicarlo e uscì soltanto vent’anni dopo. La tesi forse non fu perfetta e fu contestata dall’ingegnere Edoardo Semenza, figlio del progettista, già morto prima del disastro. Visto il contesto, ha tutta l’aria di una difesa d’ufficio alla memoria, altamente dubitabile a priori. Tina Merlin si rimproverò sempre di non aver fatto abbastanza per impedire la catastrofe. Morì nel 1991 per un tumore, praticamente dimenticata. Ci si ricordò di lei dopo la morte, intitolandole la scuola materna di Vajont e alcuni circoli culturali. La difesa della diga continuò perfino nel cinquantenario della tragedia, quando ci fu ancora chi lodò la tenuta della diga che, sottoposta a una pressione venti volte maggiore di quella prevista, non crollò. Non c’è limite alla spudoratezza. Sarebbe come lodare il perfetto funzionamento della ghigliottina, per non dire d’altro più recente durante la seconda guerra mondiale.

 

Le visite negli anni seguenti

L’estate dopo il disastro tornammo in bicicletta sul lago del Vajont, perché volevamo vedere di persona cosa era successo. Attraversammo il muro della vergogna per la stretta apertura centrale. Tutto era un enorme squallore. Le nostre osterie lungo la strada erano scomparse con le loro abitanti, mai più ritrovate. Con un gruppo di amiche e amici negli anni seguenti andavamo ogni tanto al rifugio Maniago, 1.730 mt s.l.m., in fondo alla Val Zemola, a nord di Erto, paese rimasto una enorme desolazione. Il rifugio non era grande, ma accogliente, non era gestito e quindi rimaneva tutto per noi. Ad esempio nel 1967 ci andammo in giugno, in settembre e dal 1° al 4 novembre. Eravamo giovani e volevamo vivere.

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Il gruppetto di amiche e amici al Maniago nel settembre del 1967, ©Andrea Del Col

 

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Il rifugio con 20 cm di neve, tre dei sette amici, dal 1° al 4 novembre 1967, ©Andrea Del Col

 

Ci sono tornato qualche anno fa con un mio nipote per fare foto, il 18 novembre 2012, ricordando le belle uscite. Il posto era sostanzialmente lo stesso, ma con parecchi cambiamenti. Nella parte centrale il sentiero era franato ed era stato spostato su un altro versante. C’erano i colori dell’autunno con tanti larici gialli, ma a me sembravano tristi perché erano gli stessi colori di quando era franato il monte Toc una cinquantina d’anni prima, con il suo seguito di morte. Il rifugio era del tutto rinnovato, ma ai miei occhi era inespressivo. In breve ho capito che non era bello in sé, ma per le amiche e gli amici con cui lo vivevamo nella nostra affiatata compagnia.

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Larici e abeti in Val Zemola verso il rifugio Maniago, 18 novembre 2012,©Andrea Del Col

 

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Il rifugio Maniago il 18 novembre 2012, ©Andrea Del Col

 

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Il rifugio Maniago il 18 novembre 2012, ©Andrea Del Col

 

Longarone si è ripreso molto prima e molto meglio di Erto, che ha sempre stentato a vivere. Per parecchi anni ci sono passato per andare nel comprensorio del Civetta a sciare. Mi sono fermato qualche volta nel paese, ritornando a casa la sera. Non c’è niente che richiami la strage. Soltanto lungo il muro della chiesa parrocchiale sono scolpiti i nomi delle vittime, una fila interminabile. Un’altra volta sono andato al cimitero di Fortogna. Sembrava un camposanto di guerra, come oggi le file degli autocarri militari che portano via le bare dei morti per il virus.

 

Analogie con l’oggi

Nei comportamenti umani che si sono visti nel disastro del Vajont ci sono delle analogie con la situazione odierna. Anche oggi ci sono gli ingegneri del Vajont: quelli che affermavano sicuri che il virus Covid-19 provocava un raffreddore o al massimo un’influenza passeggera. E che le mascherine non servivano. Affermazioni fatte da illustri personaggi italiani, ma anche del resto del mondo. Non si sa se più ignoranti o più presuntuosi. Sempre con una sicura indifferenza verso la vita degli altri. Dato che le loro affermazioni potrebbero essere la causa indiretta delle morti, si comincia a sospettare, alcuni giudici hanno iniziato a raccogliere documenti. Forse non saranno processati in tribunale, ma si spera che si guadagnino una condanna morale.

Ci sono oggi anche persone come gli alpini che recuperarono le salme, ma quelli attuali sono molto più lodevoli: i medici, le infermiere e gli infermieri, gli operatori sanitari, compresi alpini e altri militari, che riescono a salvare molte vite e accompagnano con umanità quelli che non ce la fanno più. E tutti quelli che lavorano per mandare avanti la vita in Italia e altrove, mettendo a rischio controllato la propria. Molti medici e infermieri sono purtroppo morti in servizio. Noi italiani siamo cattolici e conosciamo gli insegnamenti di Gesù Cristo. In particolare questi: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12,31); «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

Ci sono infine altri come Tina Merlin, che sono stati criticati e mal considerati, ma alla fine, per fortuna dopo qualche tempo, presi sul serio: persone attente, preoccupate sinceramente della vita altrui, consapevoli dei grandi rischi del virus, che hanno cercato in tutti i modi di far capire che può produrre la morte, all’inizio perfino derisi e considerati uccelli del malaugurio. Sono virologi, medici, biologi, giornalisti…, che avevano messo in luce problemi e paventato rischi prima che avvenisse il peggio, inascoltati. Sono i presidenti delle Regioni, che non hanno ceduto e che con il potere loro concesso hanno preso delle decisioni impopolari, ma utili per rallentare la pandemia e si spera per vincerla.

Quando il virus Covid-19 sarà passato, noi tutti speriamo di tornare a esistere pienamente con le nostre gioie e le nostre passioni, riprendendoci la vita, che per alcuni mesi ci è stata confiscata a fin di bene.