Costruire la capitale «tranquilla». Colonizzazione agricola, disciplinamento e punizione nella Roma postunitaria (1871-1895)

Costruire la capitale «tranquilla». Colonizzazione agricola, disciplinamento e punizione nella Roma postunitaria (1871-1895)

Abstract: L’articolo offre un contributo alla storia dei sistemi punitivi, del controllo sociale e del lavoro ponendole in relazione con la storia urbana di Roma Capitale. In modo particolare, si riflette sulla colonizzazione agricola dell’Agro Romano come dispositivo orientato alla punizione/correzione di categorie sociali ritenute “pericolose” per l’ordine metropolitano all’indomani del 1871. Attraverso l’analisi e il confronto tra regolamenti e pratiche relative a diverse tipologie di colonie agricole (libere, correzionali, penali etc.), il contributo tenta di superare la polarizzazione tra istituzioni libere/penali tematizzando intersezioni, contiguità e slittamenti.

Il 20 settembre del 1870 gli italiani erano entrati a Roma con l’obiettivo di restituire alla nazione la sua capitale “naturale”, metafora di potenza e prestigio internazionale ma anche deposito di speranze per lo sviluppo materiale, civile e morale di un’intera nazione. Tuttavia, se l’idea del trionfale ingresso nella città dei papi aveva rappresentato un momento di entusiasmo e congiunzione tra le varie anime risorgimentali, l’effettiva decisione e messa in essere del piano di annessione aveva generato non poco timore nelle frange più conservatrici e prudenti dello spettro liberale postunitario. Da un lato, l’ingresso a Roma (e dunque l’esportazione della rivoluzione nazionale nei luoghi della “teocrazia” e della soggezione politica autoritaria) avrebbe potuto recare alla nuova classe dirigente nazionale un importante riconoscimento tra le potenze europee; dall’altro, avrebbe potuto liberare energie popolari che, sulla scia della Parigi comunarda, rischiavano di ritorcersi contro la causa liberale. Tuttavia, se il timore per i possibili disordini generati dalla questione romana si era poi rivelato connesso a quell’immaginario di accerchiamento tipico della nuova classe di governo, la proclamazione di Roma Capitale aveva concretamente generato turbolenze socio-economiche nella tradizionale struttura societaria dell’Urbe. Tra gli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo, infatti, l’apertura di Roma al mercato nazionale, le speculazioni finanziarie e la febbre edilizia contribuirono non poco a modificare il tessuto sociale della città, favorendo processi di pauperizzazione e precarizzazione di fasce cospicue della tradizionale società romana. La classe amministrativa dello Stato Pontificio fu solo in parte integrata nei quadri amministrativi nazionali; il settore relativo alla logistica del turismo devozionale vedeva dimezzati i suoi introiti con la fine del potere temporale del papa; l’artigianato locale entrava in profonda crisi con l’immissione di nuovi prodotti sul mercato e il tradizionale sistema di carità nella realtà era stato soppresso o comunque ridimensionato con l’avvento della nuova amministrazione. Mentre nella città cominciavano a trasferirsi la borghesia amministrativa italiana e quelle classi commerciali che per prime avevano fiutato prospettive affaristiche, la presenza di categorie sociali costruite come potenzialmente “pericolose” rappresentava motivo di preoccupazione per la tenuta sociale, morale e politica della Capitale.

L’idea di Roma come «Capitale tranquilla», pacifico salotto culturale della nazione e centro di vita amministrativa, sembrava trovare scarso riscontro nell’osservazione pratica del suo tessuto socio-economico, assai distante dall’immagine edulcorata costruita in età risorgimentale. Se alcuni gruppi (quelli più colpiti dallo sconvolgimento della struttura sociale tradizionale) avevano sperimentato processi di marginalizzazione ed “espulsione” dai nuovi quartieri “italiani”, altri avevano fatto per la prima volta il loro ingresso nella nuova Roma per offrire la propria forza lavoro in cambio di salario. Era il caso dei lavoratori della terra, tradizionalmente insediati all’esterno delle mura leonine, ora attirati dalle possibilità di “evadere” dalle fatiche e dai soprusi di potere (caporalato di campagna etc.) della vita bracciantile. Divenuti operai sull’onda della febbre edilizia, questi lavoratori erano alloggiati in baracche di fortuna posizionate in prossimità delle porte della Città o talvolta perfino accampati per le strade alla stregua di mendicanti o vagabondi senza fissa dimora. Oltre a rappresentare una minaccia di carattere sociale e morale, la concentrazione all’interno della Capitale di questa multiforme massa “pericolosa” veniva ritenuta come direttamente proporzionale al rischio di una politicizzazione in senso rivoluzionario della «questione sociale», strumentalizzata dalle frange politiche più radicali in chiave rivoluzionaria e antiliberale. A sovvertire ulteriormente l’ordine spaziale “ideale” del nuovo contesto capitolino, peraltro, contribuiva la presenza ingombrante di istituzioni preposte alla concentrazione di ulteriore marginalità e “anormalità” sociale. Le affollate e arretrate strutture carcerarie disseminate sul territorio urbano, deposito di asocialità e amoralità, avrebbero gettato ombra e discredito sulla prestigiosa immagine di una città che, al seguito della dissoluzione del governo pontificio, ambiva ora a porsi come centro europeo di progresso anche nell’ambito relativo alla sperimentazione di tecnologie emendative più sofisticate.

Se dentro le mura, come osservato, la Capitale rischiava di venire travolta entro quel vortice di conflittualità sociale che continuava ad attanagliare le metropoli europee, fuori dalle mura una contraddizione ancor più evidente era fonte di imbarazzo per la classe dirigente liberale. Appena fuori dal nucleo urbanizzato, infatti, il cosiddetto Agro Romano si presentava come spazio sospeso tra gli antichi fasti dell’Impero e un immaginario orientalistico di civilizzazione, contraddizione già ampiamente messa in risalto dalla letteratura prodotta dai missionari cattolici inviati presso le desolate pianure romane e dai viaggiatori del Grand Tour. Popolato prevalentemente da braccianti vittime di abusi, lo spazio rurale adiacente alla Capitale presentava quei tratti “eccezionali” di insicurezza convenzionalmente attribuiti agli spazi d’oltremare: assenza di insediamenti stabili, di produzione moderna e di dispiegamento puntuale della legge. Se, tuttavia, la Sardegna e il Mezzogiorno avevano guadagnato per sé la fama di «Australia e America che abbiamo in casa», con ovvio riferimento al mito britannico delle repubbliche agricole e al settler colonialism, l’Agro Romano aveva da secoli condensato su di sé un diverso tipo di immaginario. Le campagne circostanti Roma, secche, aride e circondate dalla malaria, ricordavano più da vicino le spopolate lande del continente africano, contestualmente assurte all’attenzione massima della nuova ondata imperialistica europea.


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