Tra crimini e peccati: la giurisdizione sui crimini di misto foro nella Repubblica di Venezia (XVIII sec.)
Attraverso l’emanazione della bolla Licet ab initio (21 luglio 1542) e la nascita della Congregazione del Sant’Uffizio, la Chiesa edificò un organismo sovrastatale con lo scopo di combattere l’eresia; di fatto l’Inquisizione romana fu l’unica forma di potere centralizzato destinata a sopravvivere nella penisola italiana per tutta l’età moderna. Com’è noto, la storia del sacro tribunale fu caratterizzata dalla compresenza di poteri politici estremamente frammentati. Nella maggior parte dei casi questa condizione rese necessaria una mediazione pressoché continua tra il Sant’Uffizio e le autorità secolari, soprattutto intorno ad alcuni nodi specifici. Uno di questi fu rappresentato dai crimini di misto foro, un campionario di delitti per i quali, sin dalla prima età moderna, la tradizione giuridica aveva previsto una pluralità di interventi diversi. Questi crimini, infatti, potevano essere perseguiti in concorrenza sia dal foro ecclesiastico esterno – ordinario e delegato – sia da quello secolare; di solito il primo si occupava di indagare le coscienze e il secondo di punire lo scandalo arrecato dai comportamenti devianti. Per descrivere la natura di questi reati ritengo sia utile prendere a prestito un’espressione coniata dalla sociologia anglosassone: nella quasi totalità dei casi questi delitti furono dei «crimini senza vittime». A essere perseguiti erano le opinioni, il credo religioso, i comportamenti sessuali ovvero gli aspetti intimi della coscienza individuale: la natura di questi delitti, impersonale e immateriale, faceva sì che la vittima diventasse un’entità astratta. I giuristi risolsero la questione accostando la parte lesa a quella del sovrano, facendo confluire questi crimini nelle più vaste categorie dei reati di lesa maestà e di lesa maestà divina; questi ultimi in particolare generarono una compenetrazione e un sostegno reciproco tra la sfera religiosa e quella statale.
In questa sede non è possibile ripercorrere nei dettagli le complesse fasi che portarono alla sovrapposizione delle competenze tra le istituzioni ecclesiastiche e quelle secolari: in generale le ricerche condotte sull’argomento hanno rilevato come questo processo si sia realizzato tra il Quattro e il Cinquecento, in concomitanza con la nascita di una serie di tribunali politici statali deputati al controllo della moralità e caratterizzati da procedure segrete e straordinarie. In quel frangente, per evitare i conflitti che potevano derivare tra gli organismi concorrenti, i giuristi elaborarono una particolare dottrina, che disciplinava l’ordine d’intervento dei fori attraverso il principio di prevenzione (la romanistica precedenza d’indagine, detta anche praeventio). Negli anni Ottanta del Cinquecento la situazione si complicò ulteriormente: la Congregazione del Sant’Uffizio, dopo aver arginato il diffondersi della “peste ereticale”, estese la propria giurisdizione ad alcuni reati per i quali, a seconda delle circostanze, erano già competenti il foro ordinario o i tribunali statali. Nella prassi era particolarmente difficile gestire questo groviglio di competenze: poteva succedere, infatti, che per perseguire lo stesso crimine il podestà agisse ex officio, in presenza del corpo del delitto, il vescovo in base alla pubblica voce e fama e l’inquisitore sul sospetto d’eresia.