Immagini, devozioni, superstizioni. Le teorie artistiche di due giansenisti italiani: Giovanni Gaetano Bottari e Scipione de’ Ricci


Abstract: Evitando il pericolo di saldare produzioni artistiche a un orientamento religioso articolato, questo studio propone l’analisi di fonti in merito ai parametri estetici e alla concezione che dell’arte ebbero alcuni dei principali portatori di idee gianseniste, partendo da Port-Royal e arrivando a due importanti protagonisti della diffusione del fenomeno nell’Italia del Settecento, Giovanni Gaetano Bottari (1689-1775) e Scipione de’ Ricci (1741-1810). In forme differenti, le concezioni e le progettualità artistiche dei complessi profili esaminati contrastarono l’idea di «vanità», l’enfasi e la superstizione, emergendo come punti di riferimento nell’inclinazione a una «regolata devozione».

Le questioni lasciate aperte dal concilio di Trento e la continuità ricorrente, secolo dopo secolo, di antiche controversie teologiche, anche riversandosi in concezioni estetiche e teorie artistiche, non hanno consentito agli studi sulle correlazioni tra giansenismo e arte di giungere a una definizione. André Fontaine agli inizi del Novecento (riprendendo gli spunti lanciati da Augustin Grazier) fu il primo a cercare di individuare i principali caratteri di un’«estetica giansenista» nella gravità, la sobrietà e la sincerità. La pittura di Philippe de Champaigne (1602-1674) rispondeva, a suo avviso, a una verità congeniale all’espressione di sentimenti di pietà e di virtù da opporre all’enfasi solenne di Charles Le Brun e degli italiani.

Interrogarsi sull’effettiva correlazione tra specifici climi religiosi e pratica artistica appare oggi un tentativo minato dal rischio di pervenire a collegamenti e definizioni troppo stringenti. La storiografia che ha trattato questi argomenti (composta da storici e storici dell’arte che spesso hanno invitato a rompere l’isolamento disciplinare) in riferimento al clima post-tridentino si è adoperata nello studio dell’effettiva influenza esercitata da norme e precetti nel mondo formale degli artisti, finendo col constatare la generale indipendenza di aspetti importanti della pittura religiosa dai processi di regolamentazione e teorizzazione dell’arte sacra.

Data la natura disorganica del giansenismo, che si diramò in vari contesti europei assumendo conformazioni e progettualità sempre differenti, il tentativo di definire un’«arte giansenista» non ha prodotto significative trattazioni in anni recenti. Senza lanciarsi in incaute prove tese a fissare dei fenomeni artistici a una rete di difficile delimitazione e articolazione, in questo lavoro si tenterà l’analisi di fonti e di testi, che può con meno pericolo costituire uno studio dei parametri estetici e della concezione che dell’arte ebbero alcuni dei principali portatori di idee gianseniste, partendo da Port-Royal e arrivando a due importanti figure legate alla propagazione del giansenismo in Italia.

Il giansenismo, come la Riforma protestante, riprese soprattutto il tema della corrispondenza tra le immagini e le Scritture. A partire dall’Augustinus di Cornelis Jansen (1585-1638), pubblicato postumo nel 1640, questo movimento teologico, dalla nascita alla propagazione, in Europa e in Italia, fu disomogeneo e scomposto, ma conservò sempre marcatamente gli elementi dell’agostinismo e dell’antigesuitismo. La concezione di un cristianesimo profondamente esigente vissuto senza compromessi si accompagnava a una coscienza del pensiero personale in contrasto con l’assolutismo e l’autorità. La nostalgia di un passato idealizzato e di una Chiesa primitiva virtuosa, l’anti-umanismo supportato dallo stretto teocentrismo agostiniano, l’avversione al lassismo gesuita in favore della visione tragica di un’umanità in gran parte condannata e corrotta si riversavano in una vita spirituale austera che accordava pochi incoraggiamenti alle arti.

Blaise Pascal, che fu il più illustre dei Solitairs di Port-Royal – il monastero in cui la teologia giansenista trovò la più intensa applicazione spirituale –, in un celebre passo della sua frammentaria Apologie de la religion chrétienne aveva attaccato la fascinazione suscitata dalla pittura: «Quelle vanité que la peinture qui attire l’admiration par la ressemblance des choses dont on n’admire point les originaux!». Si trattava di una condanna morale, un’accusa al mezzo pittorico trascinante su una passione. Questa concezione, ha fatto notare Nathalie Heinich, non si giustifica che con una riduzione dell’arte figurativa alla nozione di somiglianza, implicando la subordinazione della rappresentazione all’oggetto rappresentato. Era una visione pre-estetica della figurazione, che riduceva l’opera al suo soggetto non sbilanciandosi nell’identificare i caratteri stilistici, le proprietà formali di una visione emancipata della pittura come pratica artistica fatta di produzione, percezione e valori propri. Se le riflessioni del filosofo non possono essere considerate fondamenti del pensiero giansenista, tuttavia un certo pregiudizio di vanità aleggiò sempre dietro le immagini, sfondo tormentato di tanti attacchi dei giansenisti alle arti.

 

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