Scrittura autobiografica e costruzione di un modello di santità: il caso di Battistina Vernazza

Scrittura autobiografica e costruzione di un modello di santità: il caso di Battistina Vernazza

Abstract: Durante l’età moderna, la scrittura delle monache fu generalmente sottoposta al controllo del clero maschile allo scopo di verificare quanto accadeva all’interno delle mura claustrali ma pure per promuovere la produzione di testi che veicolassero determinati modelli di santità. Non a caso, in tale arco temporale, le rare canonizzazioni femminili riguardarono principalmente suore di clausura. Contemporaneamente, gli ordini religiosi di antica o nuova fondazione e i vecchi e nuovi casati aristocratici si attivarono per guadagnarsi una santa o un santo “di famiglia”, al fine di garantirsi un elemento simbolico importante per consolidare il proprio prestigio e perpetuare la propria memoria.
In tale contesto si inserisce anche la figura della monaca genovese Battistina Vernazza, figlia del notaio Ettore Vernazza, fondatore dell’Oratorio del Divino Amore. In particolare, il saggio si sofferma ad analizzare le due lettere autobiografiche scritte dalla suora: la Vita del Padre et Madre e la Lettera della istessa sua Vita. Comparando le informazioni riportate in questi testi con quelle riferite da altre fonti documentarie – ad esempio le prime biografie redatte su di lei o le testimonianze rese al suo processo di canonizzazione – si cercherà di approfondire una questione già in parte affrontata da altri studiosi, ovvero quale ideale di religiosità femminile la stessa suor Battista e i suoi direttori spirituali cercarono di trasmettere ai propri contemporanei e pure ai posteri.
L’aspetto più rilevante che emerge dalla lettura delle due lettere è la mancanza di qualsiasi cenno alla mistica e carismatica genovese Caterina Fieschi Adorno, celebre figura di “santa viva”, animatrice di un circolo di devoti, nonché “madre spirituale” di religiosi e laici, tra cui anche Ettore Vernazza. Si tenterà di analizzare le ragioni di tale assenza e di comprendere se si trattò di una censura volontaria e autoimposta oppure effettuata da altre mani.

In the early modern age, the writings of the nuns were generally subjected to the control of clergymen, who aimed to verify what was going on in the monasteries as well as to promote the production of texts that could express specific models of holiness. Not surprisingly, in this time, the rare canonizations of women mainly concerned cloistered nuns. At the same time, new and old religious orders as well as new and old aristocratic families strived to obtain “their own saint”, in order to gain an important symbolic element for consolidating their prestige and perpetuate their memory.
Within this panorama we can also place the Genoese nun Battistina Vernazza, daughter of the notary Ettore Vernazza, founder of the Oratory of Divine Love. In particular, this essay aims to analyse the two autobiographical letters written by that nun: the Vita del Padre et Madre and the Lettera della istessa sua Vita. Comparing the information reported in these texts to those recorded in other documents – such as her first biographies or the testimonies delivered during her canonization process – this paper will try to investigate a problem already partially addressed by other scholars: the ideal of feminine religiosity that Sister Battista and her spiritual directors tried to transmit to their contemporaries and to posterity alike.
The most relevant aspect that emerges from the reading of the two letters is the lack of any mention of the mystical and charismatic Genoese woman Caterina Fieschi Adorno, who was a famous example of "living saint", an animator of a group of devotees and a “spiritual mother” of several religious and lay people, including Ettore Vernazza. In this paper I aim to evaluate the reasons for this absence and to understand whether it was a voluntary and self-imposed censorship, or an editing carried out by other hands.

Il filosofo tedesco Georg Misch si domandava, all’inizio dello scorso secolo, se l’espressione “genere autobiografico” non fosse una mera convenzione terminologica per indicare la continuità di una tipologia letteraria che persisteva nella storia dell’espressività dell’uomo dall’antichità classica e persino egizia fino ai nostri giorni. Similmente Philippe Lejeune, teorico del “patto autobiografico”, riteneva che l’autobiografia è sempre esistita «anche se in gradi e forme diverse»; perciò, a quanti sostengono che si tratti di «un genere essenzialmente moderno, si potranno opporre mille esempi», perché di fatto essa implica «l’illusione dell’eternità» da sempre presente nell’uomo. Tali tesi sono contestate da coloro che fanno risalire la scrittura autobiografica all’esperienza cristiana (si pensi alle Confessioni di Agostino di Ippona nel IV secolo d.C.) oppure da quanti la riportano all’individualismo di matrice borghese e ad autori come Defoe o Rousseau.

Non è questa la sede per soffermarsi su tale discussione. Occorre sottolineare, però, che certamente le autobiografie fanno parte delle cosiddette “scritture del sé” o ego-documenti; ma si deve altresì rilevare che spesso permane la difficoltà di distinguere nettamente fra i sottogeneri di tali scritture. Oltre all’autobiografia tout court, infatti, come inquadrare quei testi che vengono definiti – dai propri autori o da chi li studia – come ricordi, rimembranze, diari, ma pure romanzo autobiografico, cronache o memorie storiche?

Non di rado tutti questi tipi di testi si sono uniformati a canoni e modelli codificati, mediati o approvati da altra mano. A tale proposito, è certamente necessario considerare lo scopo per il quale una serie di pensieri vengono posti nero su bianco sulla carta, in modo più o meno strutturato. Senza dubbio, attraverso la scrittura autobiografica l’individuo intende parlare di sé e della propria esperienza esistenziale, soddisfacendo la naturale esigenza umana di raccontarsi. In tale processo, la memoria personale assume il ruolo primario di guida, ma ciò implica anche un rimaneggiamento più o meno ampio del proprio vissuto che può provocare censure o alterazioni della realtà, volontarie e involontarie, consapevoli o meno.

Nel caso particolare degli ego-documenti prodotti dalle monache, vari studiosi hanno evidenziato come questi fossero generalmente sottoposti al controllo del clero maschile: ciò per verificare quanto accadeva all’interno delle mura claustrali e accertarsi che la vita monastica fosse coerente con le regole ecclesiastiche; ma altresì per promuovere la produzione e l’eventuale pubblicazione di scritti che potessero essere diffusi in altre comunità allo scopo di veicolare determinati modelli edificanti. In particolare, i diari spirituali e le autobiografie religiose rivelano una scrittura quasi sempre guidata dal confessore (talvolta anche dalla badessa, dal cardinale protettore, etc.). Ciononostante, da questi testi possono comunque emergere «con vivacità spunti personali e di affermazione autonoma che disegnano un’autobiografia e un racconto di sé sostanzialmente veritieri».

La produzione di scritti da parte delle monache fu, inoltre, spesso sollecitata da direttori spirituali o altri ecclesiastici, al fine di sostenerne i processi di canonizzazione. Anche per questo motivo, di molte religiose vennero pure stampate delle biografie che presentano spesso dei toni agiografici. In effetti, tra la seconda metà del XVI e la fine del XVIII secolo, l’esempio monastico costituì il modello predominante tra le proposte di perfezione cristiana indirizzate alle donne: non a caso, in tale arco temporale, le rare santificazioni femminili riguardarono principalmente suore di clausura. Contemporaneamente, gli ordini religiosi di antica o nuova fondazione, così come i vecchi e nuovi casati aristocratici, si attivarono per guadagnarsi una santa (o un santo) “di famiglia”, sia che si trattasse della propria “famiglia religiosa” che di quella di sangue. In entrambi i casi, il fine era garantirsi un elemento simbolico non indifferente per consolidare il proprio prestigio e perpetuare il potere e la memoria del gruppo.

Tuttavia, molte monache non riuscirono a ottenere il pieno riconoscimento degli onori degli altari ma solo una dichiarazione di “venerabilità”. Ciò accadde anche per suor Battistina Vernazza di cui si intende trattare in queste brevi pagine.

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