The Stealer of Dreams Tarantino’s Sixties, or Filming the Void. Parte 1: Cool Now!
C’è una scena in C’era una volta a … Hollywood (Quentin Tarantino, USA, 2019 (d’ora in avanti CVH) che riesce a cogliere perfettamente la cifra stilistica dell’ultimo film di Tarantino. Dalton è in attesa di girare una scena e sta leggendo un libro accanto ad una piccola attrice (interpretata da una bravissima Julia Butters) che come lui recita nel telefilm Lancer. Ad un certo punto la bambina gli chiede di cosa parla il libro che sta leggendo. Dalton risponde che non lo ha terminato, per essere quasi immediatamente interrotto dalla bambina, che subito lo incalza, specificandogli che non vuole sapere tutto quello che accade, ma qual è «l’idea» («what’s the idea of the story», minuto 56 e ss.), il tema del romanzo, ciò che l’autore vorrebbe comunicare al lettore attraverso il succedersi degli eventi. Cioè qual è quel qualcosa che lega in uno l’intreccio e gli dà senso, permettendogli, così, di essere definibile come ciò che fino all’inizio del nuovo millennio veniva definito come “racconto”?
Ecco, la stessa domanda potrebbe, anzi dovrebbe essere posta anche per CVH: Qual è l’idea? Il tema? E la risposta, esattamente come in molto (tutto?) Tarantino dopo Jackie Brown (1997, non a caso l’unico suo film definibile “normale”, lineare, e non ad episodi), sarebbe pur sempre la medesima: “boh…”. Infatti, nel Tarantino targato 2019 – che con CVH si propone come un ulteriore “omaggio d’autore”, ed il sintagma è decisivo per il discorso che vorremo sviluppare –, non c’è alcuna “idea”, nessun tema, nessun senso, nessun “valore” direbbero forse gli sceneggiatori dell’epoca d’oro di Hollywood, soprattutto quelli dell’epoca presa in oggetto, cioè la fine dei 1960s.
In CVH, semplicemente, non succede nulla, e per quasi tre ore si sussegue una serie di scene e siparietti, “storielle” od anche “aneddoti” si potrebbe dire, dove alcuni “tizi” che si vestono come nei 1960s fanno cose, gironzolano, incontrano persone in un mondo “decorato”, in maniera meramente calligrafica, come nei 1960s.
Eppure, nonostante certo non ci si aspettasse da Tarantino una ricostruzione documentaristica e/o imitativa, dei Sixties, la speranza – e qui appunto perché si trattava di Tarantino – era quella di un omaggio a quell’immaginario culturale, sociale ed artistico/cinematografico; una rilettura rifratta del e dal reale, magari immaginifica e finanche fantastica, ma che, pur nella sua trasfigurazione in immagini seducenti ed iconiche, come in ogni autentica “celebrazione” rispettasse, se non quello storico, quantomeno l’immaginario espressivo, poetico e culturale, ed in questo ne riportasse l’esperienza, fosse anche solo per negarla o “metterla in discussione” (aspetto, questo, tra quelli che più hanno contraddistinto, fin dalla sua nascita nei 1690s in quanto preciso genere letterario, ogni “c’era una volta…”, ogni racconto di fiabe, un genere che nel suo dna ha da sempre avuto l’essere “sovversivo”).
La Los Angeles e l’Hollywood del Tarantino di CVH, invece, sono un mondo dove i Sixties non sembrano essere accaduti per davvero, per risolverli in un arabesco, in elementi ornamentali, in abiti, oggetti e suppellettili, incastonati però in una struttura produttiva, espressiva e diegetica che nulla ha a che vedere con quegli anni (con il cinema hollywoodiano dei 1960s), rilevandosi, invece, espressione dell’ideologia narrativa egemonica dei 2010s, la quale sottintende a molta della produzione cinematografica mainstream, quella più “commerciale” , ma non solo.
Metodologia di scrittura e produzione filmica, quest’ultima, impensabile prima dei 2000s, e che ha determinato il dislocamento e “l’adattamento” forse più importanti nell’esperienza e nella ricezione estetica nel cinema – il modo in cui i film vengono prodotti, distribuiti e “consumati” – dopo la nascita, nei 1970s, del blockbuster dagli effetti speciali sempre più mirabolanti; impensabile nel senso che, date le condizioni storiche culturali e materiali ancora lungi dal venire in essere, difficilmente a qualcuno – produttori, sceneggiatori, registi – sarebbe venuto in mente di scrivere secondo tale logica di creazione cinematografica non solo un film “d’autore”, ma probabilmente un film in quanto tale.
Altrimenti detto, CVH è un film che sembra voler “descrivere” l’Hollywood dei 1960s come se fosse quella dei 1950s o quella dei 1980s, ma non quella dei 1960s. E lo fa presentandola secondo l’attuale (2010s) logica produttiva, espressiva e narrativa, ma come se la “moda” fosse rimasta quella di cinquant’anni prima. Andando a vedere CVH si entra in sala con la speranza di assistere se non ad un omaggio a come una volta ad Hollywood nei 1960s i film erano realizzati, pensati, scritti e prodotti, quantomeno quella di assistere ad un “racconto” (d’altronde questo è ciò che implica adottare nel titolo la formula “c’era una volta”, che codifica sempre una ben precisa aspettativa). Si esce, invece, non solo con la sensazione di aver assistito ad un nuovo episodio di Avengers, ma molto più noioso, ad uno dei seguiti principali dello Star Wars targato Disney, ugualmente insulso, o ad un clone malriuscito di X-Men. L’inizio (Vaughn, 2011) e/o Giorni di un futuro passato (Singer, 2014, d’altronde il Booth interpretato da Brad Pitt appare davvero come una versione presunta come “non fantasy” del Wolverine interpretato da Hugh Jackman); soprattutto, però, si esce con la sensazione di non di non esserci stato “raccontato” alcunché. Difatti, i cine-comic Disney, anche quando sono definibili come film di mediocre fattura, quantomeno cercano sempre (o quasi) di raccontare “una” storia.
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Inoltre:
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