Laura Schettini, Turpi Traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 (Biblink, 2019)

Laura Schettini, Turpi Traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 (Biblink, 2019)


Laura Schettini, Turpi Traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 (Biblink, 2019)
Abstract:

Giovani ingannate e scaltre imprenditrici, donne lavoratrici e procacciatori senza scrupoli: lungo le rotte globali, a partire dalla fine dell’Ottocento, si muove una moltitudine di figure che va ad alimentare quella che può essere designata come la prima globalizzazione della prostituzione. Sono i «traffici» che danno il titolo al libro di Laura Schettini, Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1980-1940, edito da Biblink. «Turpi venivano considerate le donne che si prostituivano (all’estero), ma turpi venivano appellati anche gli sfruttatori di giovani irretite e trascinate nel mercato della prostituzione, vendute come “merce”; traffici, per un altro verso, evoca la natura commerciale del fenomeno ma anche gli affari illeciti, sia a livello organizzato che informale e familiare, compiuti intorno ad esso, così come una dimensione di movimento, fondamentale in questa storia».

Il tema non è nuovo per l’indagine storiografica, che ha ricostruito come, nei decenni in cui prendeva il via la moderna globalizzazione economica, con le imprese coloniali e i grandi movimenti migratori verso le Americhe e attraverso l’Europa, anche il mercato del sesso abbia registrato una crescita quantitativa e una dilatazione geografica senza precedenti, integrandosi nelle dinamiche del mercato transnazionale. La novità preziosa dell’indagine di Schettini è però il focus sull’Italia, finora pressoché ignorato, nonostante l’interesse che il paese ha rivestito sia come luogo di origine, sia come destinazione e transito di donne europee coinvolte nell’attività prostitutiva nelle case di tolleranza o nei bordelli clandestini, per scelta, costrizione o inganno.

L’autrice, attraverso lo studio di documenti di polizia, atti di indagini e processi, corrispondenze tra ministeri e altre autorità, incluse quelle consolari, documentazioni della Società delle Nazioni, ma anche pubblicistica dell’epoca e materiali delle associazioni abolizioniste, ricostruisce l’esperienza delle donne dedite alla prostituzione e di altri personaggi coinvolti nel lucroso mercato, a Malta, in Libia, in Egitto, negli Stati Uniti, in Argentina e in Canada.

La seconda parte del libro indaga invece la nascita della categoria della «prostituta straniera» in Italia nei primi decenni del Novecento, analizzando le politiche adottate in proposito e ricostruendo le esperienze di donne europee dedite al «meretricio» nel nostro paese nell’età liberale e durante il fascismo.

La prostituzione nella storia delle migrazioni

Turpi traffici arricchisce, innanzitutto, la storia delle grandi migrazioni a cavallo tra Otto e Novecento verso il Nord, il Sud e il Centro America, e verso i possedimenti coloniali europei della sponda Sud del Mediterraneo, non solo evidenziando la componente femminile, tutt’altro che numericamente irrilevante all’interno di queste masse in movimento, ma anche mostrando come la migrazione delle donne non sia stata un fenomeno “ancillare” rispetto a quella maschile. Tra le donne che partono dai porti italiani non troviamo nel cinquantennio coperto dalla ricerca solo mogli, madri e figlie di uomini emigrati, ma anche tante donne lavoratrici, con progetti autonomi, in cerca di fortuna lungo le stesse rotte.

In questo contesto, la prostituzione migrante funziona sia come un fenomeno rivelatore del generale protagonismo femminile nelle migrazioni – inclusi i risvolti drammatici che parlano di lavoro precario, rischioso e malpagato, di inganni e sfruttamento – sia come fenomeno con caratteristiche peculiari cha ha, a tutti i livelli, un rapporto privilegiato con la mobilità. Questo rapporto privilegiato non si evidenzia solo nella formazione di mercati sessuali in corrispondenza con i piccoli e grandi movimenti internazionali di soldati e lavoratori che, provocando una crescita impetuosa della domanda di prostituzione, inducono anche un incremento negli spostamenti di donne diretti ad alimentare l’offerta. La mobilità delle prostitute è stata infatti riscontrata storicamente anche su scala più ridotta, nelle migrazioni dalla città alla campagna, e tra città diverse.

Simone de Beauvoir notava, per esempio, ne Il secondo sesso, come alla fine degli anni Quaranta le prostitute parigine fossero all’80% donne «senza radici», lontane dal proprio luogo di nascita e dalla propria famiglia: «La vicinanza alla famiglia, la preoccupazione della propria reputazione impedirebbero alla donna di abbracciare una professione generalmente screditata; ma sperduta in una grande città, senza essere più integrata nella società, l’idea astratta di “moralità” non rappresenta più un ostacolo».

Se poi leggiamo le Lettere dalle case chiuse indirizzate a Lina Merlin al tempo del dibattito sulla legge in Italia, troviamo storie simili di migrazione interna.

La mobilità della prostituzione ha avuto dunque nella storia sia una dimensione interna, sia una dimensione internazionale, che è quella che interessa particolarmente a Laura Schettini. In entrambi i casi, una componente cruciale appare lo stigma associato a questo mestiere, che porta le donne che lo esercitano ad allontanarsi dalla propria cerchia di origine, o induce a esercitarlo soprattutto donne che già si trovano lontane dalla propria famiglia.

Come scrive Schettini, è «la logica propria del mestiere» a suggerire alle donne la necessità di lavorare lontano dal proprio luogo di nascita, anche inducendole a frequenti spostamenti, tra paesi e città diverse. Ne deriva una trama complessa di traiettorie lunghe e brevi, anche funzionali all’esercizio intermittente del lavoro di prostituzione, intervallato da periodi di riposo.

Al tempo stesso, mentre la prostituzione è stata «motore di importanti fenomeni migratori femminili», i processi migratori hanno in alcune circostanze «reso le donne più esposte allo sfruttamento sessuale». Come mostra il volume, una molteplicità di figure di procacciatori, prosseneti, tenutarie di bordelli hanno svolto un ruolo chiave nell’aumento degli spostamenti tra i paesi e nella messa in atto di forme di tratta e sfruttamento.

«Tratta delle bianche» e costruzione della nazione

La parola «tratta» associata alla prostituzione nasce proprio allora, con l’allarme internazionale per la «tratta delle bianche» che stimola non solo una grande produzione di reportage e narrazioni, ma anche azioni diplomatiche e politiche internazionali. Turpi traffici ricostruisce, accanto alle storie di migrazioni di donne coinvolte nella prostituzione globale, anche il tipo di risposte al fenomeno messe in atto dai governi nei paesi di origine e di destinazione.

Ne emerge un quadro in cui un ruolo centrale è svolto dai processi di nation building: la prostituzione «al contrario dei secoli precedenti, non è più considerata (solo) come una questione morale e di salute pubblica, né è governata da autorità municipali o religiose, ma diventa una questione di ordine nazionale alla quale è chiamato a provvedere lo Stato». Perché? Perché ai paesi da cui le prostitute partivano interessava salvaguardare all’estero la propria reputazione, non guadagnarsi la fama di paese delle donne dai facili costumi. Ai paesi destinatari dei flussi, per esempio gli Stati Uniti, l’arrivo massiccio di prostitute appariva nel contempo come una minaccia per l’ordine familiare e morale della nazione.

Da una parte il controllo delle partenze, dall’altra il controllo degli arrivi di «donne sole» hanno in parte risposto a queste preoccupazioni. Ciò significa che la costruzione della figura dell’«innocente violata», che fa da contraltare a quella della «donna perduta», ha finito di fatto per imporre restrizioni alla migrazione di tutte le donne non accompagnate da padri, fratelli, mariti.

Le misure di controllo e regolazione rispondevano tuttavia anche a un’altra logica. La storia delle migrazioni oltremare dall’Italia e da altri paesi europei verso le colonie del Nord Africa mostra per esempio la combinazione di limitazioni alla mobilità di donne sole e politiche volte a minimizzare le relazioni «interrazziali».

È il caso della colonia italiana di Libia dove, da un lato, le autorità italiana intendevano prevenire l’ingresso massiccio di donne «dissolute e vendute, acquistabili e disponibili» dall’Italia e da altre nazioni europee «che sarebbero dovute essere campioni di una civiltà e di una moralità superiori». Dall’altro lato, però, c’era la «pragmatica consapevolezza che la massa di uomini europei “soli”, soldati o lavoratori, che si trovavano nelle colonie domandavano prostituzione e servizi a pagamento e che in assenza o limitata disponibilità di donne europee si sarebbero rivolti alla popolazione femminile locale». Ne è derivato un regime di rigida segregazione razziale delle case di tolleranza volto a favorire la «concordanza» tra cliente e prostituta, e l’impiego di donne «bianche», soprattutto straniere di altri paesi europei, nei bordelli destinati ai colonizzatori.

Proprio alle donne straniere il libro dedica un capitolo, che documenta come le case di tolleranza, nel sistema dei regolamenti del Regno d’Italia e delle colonie, attirassero lavoratrici da altri paesi europei: francesi, austriache, ungheresi, belghe, rumene. Un fenomeno dunque, quello della prostituzione straniera in Italia, che appare come tutt’altro che una novità o un prodotto di quella globalizzazione che collochiamo abitualmente a cavallo tra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo.

Il parallelismo con il presente si fa particolarmente evidente guardando gli ordini di rimpatrio e gli interrogatori di polizia realizzati negli anni Dieci e in seguito negli anni Trenta del Novecento. Come mostra l’autrice, ad essere considerate particolarmente sospette e pericolose erano le donne dai profili sociali incerti, che conducevano vite «irregolari», incaute nelle relazioni, prive di un mestiere riconosciuto. A ben guardare, si tratta delle donne che sfuggivano alla dicotomia tra prostituta di professione – allora riconosciuta come funzionale a un ordine sociale – e vittima innocente. Ancora oggi, è questa la categoria più affollata e più vulnerabile dinnanzi all’esercizio dell’autorità pubblica.

Prostituzione migrante e modelli di genere

Ciò che il lavoro di Schettini permette infine di evidenziare è il nesso – storico e insieme attuale – tra prostituzione migrante e modelli di genere. Da un lato, l’allarme politico e mediatico generato dalla migrazione di donne sole manifesta il sospetto e la paura verso l’indipendenza femminile, mentre le storie di «caduta» delle giovani nelle mani di trafficanti e sfruttatori, e la descrizione delle insidie delle grandi città d’oltremare, servono a comporre «un romanzo morale e moraleggiante destinato alle donne che intraprendevano percorsi migratori, ancor più se autonomi, irrobustendo allo stesso tempo lo stereotipo della vittima come europea».

Dall’altro lato, specie nei paesi di destinazione dei grandi flussi, come gli Stati Uniti o l’Argentina, la rappresentazione della prostituzione come minaccia che viene da fuori, dalla vecchia Europa, è funzionale a rafforzare l’immagine delle donne autoctone come moralmente integre e virtuose, strumenti della retorica di esaltazione della nazione.

Turpi traffici è però anche un libro che restituisce complessità alle esperienze delle donne coinvolte in percorsi migratori orientati alla prostituzione nella prima globalizzazione. E lo fa adottando, anziché il «paradigma oppressivo», che tende a enfatizzare la sola condizione di vittimizzazione, il «labour approach», che legge la storia della prostituzione come parte della storia del lavoro femminile.

«Mi sembra che guardare alla storia della prostituzione anche come a una storia di lavoro permetta di prendere in considerazione la molteplicità di esperienze attraversate dalle donne coinvolte, i vari gradi di sfruttamento e le diverse condizioni di lavoro vissute a seconda dei contesti politici e culturali, della provenienza, ma anche della biografia personale delle protagoniste», scrive Schettini. Un approccio, si può aggiungere, che non arricchisce solo la ricerca storica, ma può orientare anche la comprensione dei fenomeni del presente, favorendo l’attenzione alla varietà di esperienze dei soggetti e il superamento delle dicotomie rigide di dipendenza e autonomia, vittimizzazione ed agency.