Lo spazio politico della parola. L’associazionismo nella Francia in rivoluzione

Lo spazio politico della parola. L’associazionismo nella Francia in rivoluzione

Abstract: L’irruzione del popolo sulla scena della politica trovò un canale di espressione di massa nelle società politiche germinate in tutta la Francia a partire dal 1789. Un laboratorio vivace dove uomini e donne infrangevano il dispositivo comunicativo che fino a quel momento li aveva esclusi dal discorso pubblico. La prima forma associativa nacque all’interno degli Stati generali nel 1789 e rapidamente assunse un’importanza decisiva nel veicolare le parole nuove della Rivoluzione. Una pratica di militanza di cui presto si appropriò il popolo francese per imporre un proprio modello di cittadinanza. Funzionali alla politica giacobina, le società politiche innervarono l’intero tessuto istituzionale e furono la massa di manovra fondamentale nella guerra di fazione. Durante la stagione del Governo rivoluzionario vennero però silenziate e ridotte all’inazione, secondo una modalità di lotta all’estremismo perpetuata durante il Direttorio, senza tuttavia mai sconfiggere del tutto la loro opzione radicale.

L’irruzione del popolo sulla scena della politica trovò un canale di espressione di massa nelle società politiche germinate in tutta la Francia a partire dal 1789. Un laboratorio vivace dove uomini e donne prendendo la parola infrangevano il dispositivo comunicativo che fino a quel momento li aveva esclusi dal discorso pubblico. Fin dai primi mesi della Rivoluzione, l’originale struttura associativa creata dal basso si diffuse rapidamente dai centri urbani per investire l’intero territorio nazionale. La volontà di partecipare al grande processo di rigenerazione nazionale attivava la nuova forma di cittadinanza e rendeva immediata la scelta patriottica dei militanti e, almeno nella primissima fase, non esigeva alcuna differenziazione politica pronunciata se non una condivisione generica dei principi rivoluzionari. Le società disegnano spazi di libertà: «forme autonome di organizzazione, di democrazia e di potere». Il club era l’inedita forma di militanza capace di includere il popolo e farlo accedere alla libera discussione non solo per comporre quaderni di doglianza ma per immaginare una rigenerazione possibile: una collettivizzazione della vita, per parafrasare Agulhon.

Il Club bretone, da cui nacque più tardi la Société des Jacobins e archetipo di tutte le strutture associative rivoluzionarie successive, tenne la prima seduta a Versailles il 30 aprile 1789. Era stato pensato come luogo informale di ritrovo e discussione da quei rappresentanti regionali del Terzo Stato. Le riunioni riflettevano la nuova sensibilità per la discussione politica con evidenti origini latomiche ma oramai diffusa ampiamente nella sfera pubblica mondiale, con una curvatura radicale che veniva dalla socialità politica sviluppatasi negli Stati Uniti durante la guerra di indipendenza. Gli incontri si tenevano al caffè Amaury prima e dopo le sedute agli Stati generali con l’obiettivo di concordare una linea d’azione comune dei bretoni, ma divennero rapidamente un centro di elaborazione politica nazionale in cui i patrioti provavano a misurare la propria forza. In una sua memoria redatta presumibilmente nel mese di dicembre 1789, il monarchico liberale Jean-Joseph Mounier scrisse che proprio nel Club bretone il 17 giugno, Sieyès aveva per la prima volta avanzato agli altri soci la proposta di costituirsi come corpo costituente in quanto unici rappresentanti «vérifiés et connus» del popolo, poi resa pubblica con la dichiarazione di autoproclamarsi Assemblea Nazionale. Un atto subito contestato come fazioso da aristocrazia e clero che fece da prova generale dell’iniziativa rivoluzionaria messa in scena nella Sala della Pallacorda tre giorni dopo: qui, come è noto, il Club bretone provò a forzare la mano dei deputati convenuti e imporre all’Assemblea di recarsi immediatamente a Parigi. Mounier riuscì a evitare la crisi istituzionale e ottenere che l’assemblea giurasse di rimanere unita fino a che non fosse stata votata una costituzione. Il quadro politico poteva per il momento ricomporsi ancorando l’Assemblea nazionale e i suoi membri alla rigenerazione dell’ordine pubblico e alla conservazione dei principi della monarchia. La soggettività rivoluzionaria manifestata dal club bretone era apparsa per la prima volta irriducibilmente avversa a ogni progetto di ricomposizione politica nazionale. Mounier osservò che i membri del club promuovevano un nefasto spirito di partito: «les clubs – scrisse infatti il deputato di Grenoble in uno dei primi testi di carattere fortemente antisocietario –, sous quelques rapports qu’on les envisage, excitent l’esprit de parti, les opinions s’y exaltent, les idées y fermentent et les motions les plus chaudes sont toujours celles qui sont les plus applaudies». Sebbene ancora lontane dalla rivendicazione di originalità del potere rivoluzionario, già in quei primi mesi il modello associativo dello spazio pubblico aveva iniziato a evidenziare attraverso la propria proposta politica radicale il vuoto politico su cui si apriva la lunga transizione della sovranità.

La forza del Club bretone era quella di riunire i protagonisti del dibattito assembleare: Sieyès, Barnave, Grégoiresedevano a fianco di Robespierre, Lameth, La Révellière-Lépeaux, senza ancora nulla immaginare delle future, drammatiche divisioni. Nella sua Analyse della Rivoluzione redatta nel 1802, Dubois-Crancé – capace di attraversare l’intero corso rivoluzionario – mise in evidenza la rapida trasformazione del Club bretone da organo di rappresentanza locale a punto di ritrovo di tutti gli ‘amici del popolo’ motivati a opporsi agli intrighi di aristocrazia e clero. Forse per la prima volta, le ambizioni di egemonia politica del circuito associativo venivano colte in tutta la loro potenza, mentre si provvedeva a espungere ogni deriva eversiva: «il venait de s’élever une puissance populaire qui opposa à tous les projets de la cour une barrière insurmontable, qui devint bientôt assez forte pour s’emparer elle-même du gouvernement et faire trembler l’Europe sur ses projets. Je veux parler de la fameuse Société des Jacobins (cette Société n’était pas celle de la Terreur)».

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 aveva registrato la nuova istanza di partecipazione, senza tuttavia provvedere a nominare esplicitamente la libertà di riunione. Fissava però dei principi importanti: il riconoscimento (art. 2) di ogni associazione politica e del loro contributo positivo alla conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. La libertà di opinione era esplicitamente tutelata (art. 10) e, più direttamente per la vicenda societaria, la Dichiarazione garantiva (art. 11) il diritto di espressione, «la libera comunicativa dei pensieri e delle opinioni», come uno dei diritti più preziosi dell’uomo: «ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge». Come è stato scritto in maniera felice, il ritmo serrato e la concatenazione fra gli eventi, le forzature, che caratterizzarono la fase costituente ebbero come conseguenza di abituare il popolo francese all’ignoto.

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